Chi guarda le foto di Gino Girolomoni, barba bianca e sguardo severo ma luminoso, ritto nel suo amato campo di grano, con le spighe in mano, non ha difficoltà a immaginarselo nelle pagine delle Sacre Scritture. Come colui che guida il suo popolo attraverso il deserto, ispirato da una fede tenace e sapiente.
Così è stata la vita di Gino: padre dell’agricoltura biologica italiana, paladino di Madre Terra e del mondo contadino, studioso della Bibbia e tessitore d’incontri tra culture, religioni, fedi diverse.
Origini «antiche»
Nel 1946, in un piccolo paese delle Marche, Isola del Piano - a una ventina di chilometri da Urbino - Gino nasce, cresce e vive l’esperienza più importante della sua esistenza: «L’aver vissuto l’epopea antichissima della vita contadina… nelle campagne c’era sì la povertà, la fatica, ma c’erano anche i valori che gli uomini hanno dimenticato: la parola data, la solidarietà, la cura di un paesaggio che era bello anche da vedere».
L’infanzia del piccolo Gino è povera ma felice: tra un piatto di polenta, l’acqua sollevata dal pozzo, i giri nel bosco con la mamma a tagliare le vitalbe per il bestiame. Fino a sei anni. Quando la mamma muore avvelenata dal tetano, per una puntura di spino, Gino è inviato in collegio dove una suora gli trasmette l’amore per la Bibbia, una passione che segnerà tutta la sua vita.
Ma non viene mai meno l’attaccamento alla terra, ai campi che ritrova durante le vacanze estive. Il ciclo di studi in collegio si chiude alla vigilia del ’68 e Gino affronta la domanda che è di tutti i giovani: «Dove mi porta la mia vita?».
Negli anni caldi della militanza politica e della ribellione giovanile collettiva, mentre l’esodo dalle campagne segna pesantemente anche le sue colline, Gino va controcorrente: si sente attratto dai ruderi di un antico monastero abbandonato, sul colle di Montebello, che sovrasta la sua casa e da cui la vista spazia da San Marino al Monte Conero.
Quei ruderi contengono seicento anni di storia della Chiesa: all’origine c’è il cammino di fede del fondatore, il beato Pietro Gambacorta da Pisa e quello di altri 17 beati che sono passati da lì. «Questo è un luogo privilegiato dello spirito - si dice Gino -. Non deve morire d’oblio».
La necessità lo spinge a cercare lavoro altrove: collaudatore di moto a Pesaro, caporeparto allo zuccherificio di Fano, finché gli si presenta l’occasione di andarsene davvero, in Svizzera, per un posto fisso alle ferrovie. È allora che Gino fa repentinamente marcia indietro, e torna nel luogo da cui tutti scappano: alla sua terra.
Civiltà contadina
«Anche a costo di doverlo fare da solo, il mio mestiere nella vita sarà quello di contadino» scrive nel suo diario il 28 dicembre 1969.
In quasi totale solitudine, Gino giura fedeltà a quel mondo rurale sull’orlo della scomparsa, privato di mezzi e dignità dal rampante sviluppo industriale dell’epoca. Nel 1970, a soli 23 anni, diventa sindaco di Isola del Piano: un’opportunità che coglie nella consapevolezza che sarà una carta in più da giocare per combattere il degrado fisico e culturale della civiltà contadina e per tentarne il rilancio.
Qui, nel 1973, «mette in scena» gli antichi mestieri, la prima esposizione delle «Attrezzature agricole tradizionali e degli strumenti che ancora si fanno», cui faranno seguito una serie di eventi per rivalutare la civiltà rurale, per restituire a contadini e artigiani la fierezza del loro mestiere e indicare loro che si può continuare a vivere con la terra, grazie alla terra.
Se la campagna scompare, è il futuro stesso dell’umanità a essere in pericolo: «Senza la riappropriazione di questo genere di capacità, senza essere capaci di piantare l’aglio né l’insalata, senza saper costruire un giocattolo di legno per il proprio figlio, senza saper costruire un vaso d’argilla, non si può capire bene il passato né aspettarsi molto dal futuro». Gino crede fermamente che sarebbe una sciagura se andassero perduti i valori del mondo agricolo: la solidarietà, corrosa dall’egoismo della dominante civiltà industriale, la manualità messa a rischio dal ruolo sempre più diffuso delle macchine, il rispetto verso la natura, inquinata e corrotta dal nuovo modello di sviluppo.
Gino predica, e pratica, un’agricoltura in grado di sintonizzarsi di nuovo con i ritmi di «Madre Natura», rispettosa di chi produce e di chi consuma, capace, grazie alla sua qualità, di conquistare spazi di mercato che la rendano anche remunerativa.
Energia spirituale
La spinta e l’energia per questa titanica impresa Gino la trova dunque nella terra: «Nelle piante vedo veramente il soffio di Dio» scrive. Ma anche nelle scritture: ogni giorno si ritaglia qualche ora per la lettura della Bibbia. «La fede e la vita non sono separate - dirà -, tu dimostri di aver fede secondo la vita che fai».
L’inizio della sua nuova vita, di quella della sua comunità, Gino lo trova non a caso tra i ruderi di Montebello, che comincia a restaurare e che nel 1976 diventerà la sua casa, dove andrà a vivere, in un’unica stanza abitabile, senza acqua né luce, con la moglie Tullia e il loro primo bambino.
Montebello diventerà, dal 1977, la sede della Cooperativa Alce Nero - che oggi si chiama «Girolomoni» e non ha più nulla a che vedere con l’attuale Alce Nero sul mercato -, antesignana dell’agricoltura biologica: il nome non è scelto a caso, ma ricorda l’epopea del capo Sioux che, cacciato con il suo popolo dalle sue terre ancestrali, rivendica con forza e dignità i propri diritti. «Anche nel resto del mondo ci sono gli indiani - osserva Gino -. In Italia sono i contadini».
La Cooperativa cresce, resistendo tenacemente alle difficoltà finanziarie, agli ostacoli frapposti senza sosta da una burocrazia ottusa e nefasta (un solo esempio: la pasta integrale sarà sequestrata per diciassette anni dallo Stato perché non ancora prevista nella nostra normativa). Grazie alla qualità delle sue produzioni e alla sua abilità nel mettere in piedi l’intera filiera, si farà conoscere in Italia e all’estero, diventerà l’avamposto di un settore, quello biologico, all’epoca di fatto inesistente e che oggi conta in tutta Italia 50mila aziende, è praticata su un milione di ettari, cresce del 17% l’anno, per un fatturato di 3 miliardi di euro (55 nel mondo intero).
Nel maggio 1978, il sindaco Gino organizza nel suo paesino il primo corso nazionale di agricoltura biologica. Oggi, sulle colline intorno a Isola del Piano si contano 25 aziende biologiche, simbolo della volontà di un territorio di tornare a essere padrone del suo destino.
Una porta aperta
Ma non basta. Rivalutare il mondo contadino ed i suoi valori è un’avventura che richiede compagni di viaggio anche nei territori della cultura e della scienza, alleanze con gli intellettuali, a livello nazionale e internazionale. Montebello diventa così un luogo di incontri e di scambi di altissimo livello, sede di eventi che faranno epoca e che toccano i grandi temi della vita e della spiritualità, frequentata da filosofi e scrittori del calibro di Alex Langer e Ivan Illich.
Non solo: sarà una «porta aperta», un punto di accoglienza calorosa per chiunque pratichi la ricerca spirituale, sulle rotte della natura e dello spirito.
Guardando il mondo dalla cima del suo monte, raccolto nel silenzio del suo studiolo monacale, circondato dai suoi libri, migliaia, di storia, archeologia, spiritualità, Gino scrive: «Mi sento un cane che abbaia per difendere le campagne, un portatore di una seppure minima speranza di curare le ferite dei monti non ancora moribondi. Mi sento uno che vede in questi luoghi una possibilità per resistere alla corruzione del pensiero e dei costumi, un luogo dove ricostruire frammenti di minuscole società».
In quest’ottica, Gino accetta anche di entrare in politica e milita nella dirigenza dei Verdi dal 1999 al 2001. Abituato al parlare netto e schietto, anche duro all’occorrenza, restio a chinare la testa davanti ai potenti, Gino diventa in quel periodo una bandiera delle battaglie ambientaliste, in particolare quella contro gli Ogm (organismi geneticamente modificati) e contro l’uso dei pesticidi e dei veleni in agricoltura.
«Credo che sia evidente che per me il biologico è uno stile di vita, un modo di abitare la campagna, di vivere, di mangiare, di fare scelte come l’uso di medicine, dolci, della bioedilizia, di forme di energia rinnovabile. Tutte queste cose stanno insieme e formano un modo diverso di vivere».
Al di là del comune impegno politico e civile, abbiamo per decenni condiviso una profonda ricerca spirituale e la sfida di calarla nella nostra esistenza quotidiana. Una sfida che Gino ha continuato a praticare fino alla morte, nel vortice delle sue poliedriche attività (libri, articoli, conferenze, incontri culturali oltre che la quotidiana produzione biologica), tenendo testa a difficoltà, sconfitte, amarezze. Ma gratificato anche, soprattutto negli ultimi anni, dal successo della sua impresa, sia sul versante economico sia su quello culturale.
E soprattutto dalla promessa rappresentata dai suoi tre straordinari figli, Samuele, Giovanni Battista e Maria, che oggi custodiscono e fanno crescere la preziosa eredità del padre (e della madre, perché senza l’inestimabile e instancabile presenza di Tullia, coadiuvata dalla cara Nonna Tullia, Montebello sarebbe appassito in pochi anni).
Lo spirito di Montebello continua dunque a vivere. Ed è sintetizzato in una frase che un giorno Gino mi disse, al ritorno da una passeggiata nella neve, accanto al grande camino del monastero: «Nella realtà del mondo, ha ragione solo chi vince. Nella realtà di Dio, non conta solo vincere o perdere. Conta servire la causa».
Grazia Francescato
Da “Quasi un profeta” pubblicato da Missioni Consolata, maggio 2015
Qui ripreso (leggermente abbreviato) per gentile concessione della rivista.
CREDITI FOTOGRAFICI
Dai siti Gino Girolomoni e Fondazione Girolomoni e dal web