La notizia è di quelle che, anche a distanza di anni, non devono mai essere dimenticate: il premio Nobel per la pace 2004 assegnato a Wangari Muta Maathai (1 aprile 1940 - 25 settembre 2011), allora Viceministro all’Ambiente del Kenya.
Perché è così significativa l’assegnazione di questo premio? È presto detto, e le motivazioni sono ben più di una. È stata premiata una donna, e questo era già accaduto (ad esempio nel 1991 con la birmana Aung San Suu Kyi, che l’ha potuto ritirare soltanto nel 2012, nel 2003 con l’iraniana Shirin Ebadi e, più di recente, di nuovo con la giovane pakistana Malala Yousafzai nel 2014), ma non era mai accaduto in precedenza che questo prestigioso riconoscimento fosse stato assegnato ad una donna africana non bianca (tale era, infatti, la sudafricana Nadine Gordimer che lo vinse nel 1991).
Anche prendendo in considerazione gli uomini, nella storia del Nobel l’Africa, prima di questo successo, ci risulta che poteva annoverare solo altri tre precedenti: il nigeriano Wole Soynka ed il sudafricano John Maxwell Coetzee per la letteratura (rispettivamente nel 1986 e nel 2003) ed il più noto Nelson Mandela per la pace nel 1993.
Già queste due ragioni sarebbero più che sufficienti a farci gioire tutti. Infatti l’Africa è il continente oggi più sofferente di tutto il pianeta per tante cause: sottosviluppo, malattie, guerre, malnutrizione, corruzione, sfruttamento delle risorse naturali... In questo contesto le donne africane sono, con bambini ed anziani, la categoria sociale che più paga le conseguenze di queste calamità non proprio naturali. Al tempo stesso le donne africane sono coloro su cui poggiano maggiormente il peso e la responsabilità del vivere di ogni giorno. Dalla loro instancabile e “cocciuta” attività dipendono la sopravvivenza di figli, mariti, genitori... da loro dipendono l’approvigionamento di legna, di acqua, di cibo, dipendono tante piccole attività commerciali sulle quali si regge la minima economia informale, nelle città così come nei villaggi.
Il premio ricevuto da Wangari Maathai è un riconoscimento a questo impegno che, pur silenzioso e poco visibile, costituisce la vera speranza per l’Africa di potersi costruire un futuro positivo.
A queste motivazioni generali se ne aggiungono però altre più particolari: è un Nobel che nasce dagli alberi ed è un premio che sancisce formalmente, al massimo livello della politica internazionale, l’indissolubile legame fra la pace e la salvaguardia dell’ambiente. Di ciò sono profondamente convinto e lo ripeto ogni volta che mi capita l’occasione di poterlo evidenziare, ma l’affermazione assume ben altro rilievo se a pronunciarla è una persona molto più autorevole, la stessa Maathai:
“La maggior parte dei conflitti in Africa ed in altre parti del mondo derivano dalla lotta per accaparrarsi le risorse naturali. Dobbiamo garantire che vi sia giustizia nella distribuzione di queste ricchezze. Occorre una pace preventiva: è necessario evitare le guerre, invece di risolverle quando sono ormai iniziate. La protezione dell’ambiente e la gestione delle sue risorse sono essenziali; ma per una vera pace è necessario garantire anche equità e giustizia”.
Convinzioni cui ha dato concretezza con azioni nelle quali le lotte per la salvaguardia del creato erano sempre affiancate da quelle per la democrazia e la difesa dei diritti umani e dei più poveri, senza timore di dover pagare di persona prezzi anche elevati. Già, perché se è arrivata ad essere un’importante esponente del governo, in precedenza era invece considerata una minaccia dal presidente-padrone del Kenya Daniel Arap Moi.
Per questo subì più volte il carcere, anche duro e violento, nel vano tentativo di convincerla ad abbandonare la lotta contro speculazione edilizia e turismo “selvaggio” distruttori di parchi e foreste: dopo un arresto nel 1991, venne liberata soltanto a seguito di una una campagna internazionale di Amnesty International. Nel 1999 nel corso di una protesta contro la deforestazione nella foresta di Karura, nei pressi di Nairobi, per contrapporsi alla quale tentava di piantare alberi, venne ferita alla testa.
Fra le attività di questa biologa sessantaquattrenne, la difesa degli alberi e la riforestazione sono stati sempre oggetto di attenzione prioritaria, perché il disboscamento minaccia non soltanto l’ecosistema naturale ma anche la sopravvivenza del genere umano. I più immediati effetti del disboscamento sono infatti modificazioni nel regime e nella quantità delle piogge che comportano, come naturali conseguenze, erosione del suolo, diminuzione delle risorse idriche, prolungate siccità e scarso rendimento dei terreni agricoli. Causa, a loro volta, di malnutrizione e maggior esposizione alle malattie.
Ecco perché, fin dal lontano 1977 fondò il movimento Green Belt (cintura verde) che, in trent’anni di attività, ha messo a dimora oltre trenta milioni di alberi in diversi paesi africani per combattere la desertificazione. Nell’ambito di progetti realizzati soprattutto grazie al coinvolgimento delle donne, creati dal basso, partecipati, su base comunitaria per migliorare l’ambiente ma al tempo stesso costruire opportunità di lavoro.
Come uno dei suoi ultimi: “Tree is life” (L’albero è vita), un progetto della parrocchia cattolica di Nyahururu partito nel 2001, in collaborazione con la Fondazione Fontana di Trento e Padova, per la conservazione e la protezione dell’ambiente equatoriale. Il progetto ha coinvolto circa un migliaio di beneficiari dando vita ad un’ottantina di vivai di piante indigene e di altri paesi africani realizzati da gruppi di contadini e di studenti.
L’ultima iniziativa della vulcanica Wangari, a seguito di una visita in Trentino, è stata l’importazione in Kenya della festa dell’albero: chi l’ha visto di persona ha definito “Semplicemente straordinario vedere i bambini arrivare a piedi nudi a scuola con un germoglio in mano”. È certo che ne avranno cura.
Giovanni Guzzi, agosto 2015