Vicenda artistico-umana paradossale, quella di Carlo Carrà (Quargneto, Alessandria, 11 febbraio 1881 - Milano 13 aprile 1966): in vita “critico della critica”, come tanti altri suoi colleghi “fuori dagli schemi” (anche ben più di lui) finisce per essere a sua volta celebrato in quella “Rinascente dell’arte” che è Palazzo Reale con le sue mostre.
Se questa affermazione sia o meno un complimento lasciamo ai lettori di giudicarlo, in ogni caso si tratta (quasi) sempre di appuntamenti di rilievo con i quali chi segue la vita culturale cittadina è (quasi) “obbligato” a confrontarsi.
A far pesare maggiormente il piatto positivo della bilancia rispetto a quello negativo è poi, naturalmente, il contenuto con cui si riempiono le sale e la forma della proposta. Nel nostro caso, tanto per cominciare, onesta. Il titolo “Carlo Carrà”, infatti, non è uno “specchietto per allodole” (come ultimamente troppo spesso accade nelle mostre temporanee) ma corrisponde all’offerta: un’antologica costituita da più di un centinaio di opere (130) il cui interesse risiede anche nel fatto che buona parte di esse proviene da collezioni private e la mostra è dunque un’occasione per ammirare dipinti altrimenti non visibili. E questo è già un merito da riconoscerle.
Non particolarmente appassionati alla pittura del Novecento, contavamo, per una volta, di attraversare velocemente le sale ed invece, anche questa volta, la nostra visita si è protratta per cinque ore e mezza!
Strano a dirsi, considerando che in avvio cercavamo i titoli sulle targhette per avere almeno un elemento-guida nella visione, non essendo per noi né facile né immediato accostarsi ad una pittura quantomeno “scomoda”. Analogamente a Cézanne, Carrà è infatti un costruttore di forme e profondità che toglie il “non essenziale”. Egli stesso così si descrive nel 1962:
“La mia pittura è fatta di elementi variabili e di elementi costanti. Fra gli elementi variabili si possono includere quelli che riguardano i princìpi teorici e le idee estetiche. Fra gli elementi costanti si pongono quelli che riguardano la costruzione del quadro. Per me, anzi, non si può parlare di espressione di sentimenti pittorici senza tener calcolo soprattutto di questi elementi architettonici che subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e di colore. A questi principi deve unirsi quello di spazialità, il quale non è da confondersi col prospettivismo; poiché il valore di spazialità non ha mai origini per così dire visive. Questo concetto nella mia pittura è espressione fondamentale.”.
Dal nostro, più modesto, punto di vista, il Carrà che abbiamo conosciuto grazie a questa mostra potremmo sinteticamente definirlo come l’artista che dipinge una parodia (nel senso di una raffigurazione lontana da quella che ci aspetteremmo) del paesaggio o comunque del soggetto prescelto.
Sarà così per tutto il suo percorso artistico indipendentemente dallo stile espresso nei diversi specifici periodi della sua vita, le cui tappe sono scandite dalle sette sezioni attraverso le quali si dipana l’esposizione:
Un filo conduttore che, anche a mostra conclusa, dimostra la validità culturale della proposta perché offre il contesto entro il quale collocare opere esposte ma che si può tornare a vedere dove sono normalmente ospitate.
Per chi vive a Milano, o vi si trovasse di passaggio, l’itinerario è particolarmente articolato ed affollato di opere. Infatti, accanto alle molte provenienti da collezione privata, a disposizione del pubblico ve ne potrebbero essere ben 27, un quarto delle complessive in mostra. Innanzitutto nelle due sedi che custodiscono il numero più cospicuo di dipinti.
DIVISIONISMO
La prima è il Museo del Novecento dal quale proviene Notturno a Piazza Beccaria (1910). Non trovato nella collezione permanente in occasione di una recente visita, testimonia il periodo divisionista di Carrà. Influenzato nella scelta di questa tecnica da Segantini, che amava, ne fa uso per rendere la modernità delle città diventando ancora più cupo rispetto a prove precedenti. Siamo nel clima dell’adesione al futurismo e questa scelta comporta la fusione di ricordi e sensazioni, la compenetrazione dei corpi e l’assenza di un punto focale per cui tutto sembra essere fluttuante.
FUTURISMO
Sono invece ritornati in sala (verifica diretta 2019 02 21) Il cavaliere rosso (cavallo e cavaliere) del 1913 che, nelle 4 zampe dell’animale divenute almeno una ventina, ci ricorda gli studi di Balla sul movimento.
Nel 1912 Marinetti aveva diffuso il suo manifesto e Carrà vi aderisce facendo sintesi fra cubismo e futurismo che fonde in un’unica visione. Dopo il soggiorno a Parigi (ma ritorna in Italia nel 1914 prima che scoppi la guerra) traspone il futurismo in volumetria realizzando eleganti collages ispirati a Braque e Picasso e schemi ruotati radiali in cui le sue Parole in libertà si addensano in pure geometrie.
PRIMITIVISMO
Sebbene ne manchi la testimonianza nelle collezioni pubbliche milanesi, occorre riferire del suo periodo Primitivista nel quale si distacca esplicitamente dal futurismo per fare ritorno alle pure geometrie dei cosiddetti primitivi (cosa che in definitiva fanno un po’ tutti!): Giotto (Vicchio, 1266 – Firenze, 8 gennaio 1337), Paolo Uccello (Pratovecchio, 15 giugno 1397 - Firenze, 10 dicembre 1475) e Masaccio (San Giovanni Valdarno, 21 dicembre 1401 - Roma, 1428 primo Rinascimento). Alla loro scuola le forme vengono stilizzate in geometriche astrazioni e puri volumi.
METAFISICA
È un passaggio che prepara la, molto breve, stagione metafisica (1916-17), permeata da senso di soggezione e mistero, fatta di rimandi agli antichi artisti citati dei quali traspare la lezione nella semplificazione delle stanze, che diventano scatole prospettiche di spazi ristretti, nel privilegiare gli oggetti ordinari (spariscono gli oggetti magici di De Chirico) e nel dipingere un’atmosfera di assoluto.
Elementi che troviamo al Museo del Novecento nella tavolozza grigia della Natura morta con la squadra (1917) e che avevamo visto in mostra, provenienti da collezioni private milanesi, in Penelope (1917), ardito scorcio di un precario equilibrio che mostra, tutto assieme, movimento non espresso e potenza trattenuta ed interiore, ed in Gentiluomo ubriaco (1916), primo accostamento alla metafisica, modificato nel 1917 nel volto e nella bottiglia, dai colori che rimandano ad affreschi del ‘400 e forme che si avvicinano alle teste di Modigliani.
LA NATURA
Il pino sul mare (1921), anch’esso di collezione privata, segna il passaggio alla natura come soggetto che caratterizzerà la pittura di Carrà negli anni Venti seguendo la strada aperta dall’impressionismo metafisico di Cezanne. È l’inizio di una nuova fase attraverso la quale cerca di conciliare astrazione ed immedesimazione nella natura ricreandone una costruzione mitica che richiama il modello di Masaccio nel senso di sospensione e mistero che trasmette e nella quale è volutamente assente la figura umana, sebbene evocata dal panno steso. Questo dipinto, così come altri, è acquistato dal compositore Alfredo Casella che lo considera un simbolo della pittura italiana.
LA VERSILIA
Uno dei luoghi prediletti dalla raffigurazione della natura da parte di Carrà è la Versilia: una terra allora incontaminata fra il mare e le Alpi Apuane. Vi si reca a partire dalla seconda metà degli anni Venti quando comincia a soggiornare a Forte dei Marmi dove, nel 1927, si fa costruire una villa: su disegno dell’architetto Muzio e coinvolgendovi numerosi altri artisti del tempo.
Dal 1929 vi tornerà ogni estate, tranne che durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la casa è occupata dai tedeschi. In mostra, proveniente dalla Galleria Comunale d'Arte Moderna di Roma, ne vediamo l’ingresso nell’olio su tela Cancello rosso (pilastri rossi) del 1930. Durante questi periodi è spesso con lui Roberto Longhi al quale lo legherà un’amicizia di tutta la vita.
IL CINQUALE
Soggetto principale di una serie di vedute dal vero che Carrà cominciò a dipingere dall’estate del 1926 è il Cinquale: ultima denominazione con la quale sfocia nel mar Ligure (a nord di Forte dei Marmi) un corso d’acqua che ne cambia diverse nella sua discesa dalle Alpi Apuane meridionali attraversando la Versilia: di cui in un tratto prende proprio il nome dopo una deviazione subita nel corso di bonifiche condotte dai Medici nel 1700 per liberare dalla malaria la zona acquitrinosa di Forte dei Marmi.
Non presente in mostra, ma visibile al Museo del Novecento, è una versione de la Foce del Cinquale in cui, come nelle altre, si constata quanto l’artista dia libero sfogo a sentimenti romantici: prima sconosciuti e che non limita in alcun modo neppure l’occasionale ridotta dimensione delle tele (ad esempio, in mostra, Cinqualino, dalla Fondazione Longhi di Firenze, con i colori rossi e marroni usati per le nubi).
La veduta non è più un realismo plastico-sintetico ma uno spazio mentale. Dirà di sé stesso Carrà:
“Insomma la mia pittura non vuole essere né naturalista né solo mentale, pur affermando l’esistenza dei valori di realtà e di quegli altri che ci vengono dall’immaginazione. Se poi le mie parole a qualcuno sembrassero poco singolari, dirò che mai mi sono proposto di fare il singolare. Di gente singolare il mondo è pieno.”.
MARINE E CAPANNI
Affermazioni che trovano riscontro anche nella serie delle Marine e dei Capanni. Come Capanni al mare del 1927, prestito alla mostra della Civica Galleria d'Arte Moderna di Torino, dove l’equilibrio di colore, volumi e spazio ci fa tornare alla metafisica ed alla sezione aurea del Quattrocento.
LA FIGURA UMANA
Con l’ingresso nel decennio successivo, Carrà torna a dipingere la figura umana. Suo tratto caratteristico durante gli anni Trenta testimoniato dalle due bagnanti col cane di Estate (1930).
Le due donne non comunicano né fra loro né con noi. Esibiscono gesti semplici e solenni, quella di sinistra, possente come un pilastro e simile alla venere dionea (secondo Omero e Virgilio figlia di Zeus e dell’Oceanina Dione: figlia del titano Oceano e della titanide Teti [o Titanide figlia di Urano “il cielo” e di Gea “la terra”]), ripropone il medesimo gesto dell’Adamo nella Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre affrescata da Masaccio nella cappella Brancacci della chiesa del Carmine a Firenze. Questo dipinto, uno dei meglio riusciti nella ricerca che l’artista conduce nelle grandi composizioni di figura di inizio anni ’30, presenta contemporaneamente una stesura larga della pittura di mare e cielo, simile allo stile predominante nel romanticismo.
DISEGNI PREPARATORI A CARBONCINO PER AFFRESCHI
Altre testimonianze dell’interesse di questo periodo per la figura umana, anche qui presentati con anatomie quattrocentesche e gesti lenti e solenni, sono diversi disegni preparatori del 1935 tracciati a carboncino su carta gialla da spolvero. Donna sdraiata, Figura (di uomo sdraiato) ed altre due sulle quali, in particolare, indirizziamo l’interesse dei lettori: Figura (di uomo) vista di schiena e Due figure (un uomo di spalle davanti ad una donna disegnata di fronte con le braccia alte.
Si tratta infatti di disegni preparatori per alcuni dei personaggi presenti in due importanti affreschi realizzati poi, nel 1938, nel Palazzo di Giustizia di Milano: rispettivamente in Il Giudizio di Cristo e in l’imperatore Giustiniano che amministra la giustizia.
Quest’ultimo occupa quasi tutta la parete di fondo dell'aula della III Sezione civile, attualmente adibita a biblioteca, e rappresenta Giustiniano che, da una specie di alto seggio, libera uno schiavo sulla nuda terra ai suoi piedi. Alla sua destra, una donna con in braccio un bambino osserva il gesto dell'imperatore che giudica, levando in alto il braccio destro, mentre nella mano sinistra tiene il rotolo della legge. Alla sua sinistra un uomo e una donna nudi (gli stessi del disegno preparatorio visti sopra) presenziano alla scena. Un muro poco elevato attraversa il dipinto, dietro il trono, mentre sul fondo si stagliano un paesaggio montuoso, una pianta, il cielo; sopra un pendio, in lontananza, è eretto un edificio.
Anche qui è forte la traccia di Masaccio, Piero della Francesca, nella postura del Cristo tutti pensiamo al Risorto di Sansepolcro, e Giotto ma, rispetto al nudo dell’umanesimo rinascimentale, qui è diverso il senso di mistero e sospensione: non ci sono i simboli religiosi ma la libertà dell’arte.
Dopo averne visto la preparazione, altra tappa obbligata del nostro itinerario è quindi il Palazzo di Giustizia per ammirare le opere definitive.
Ci spostiamo poi alla Pinacoteca di Brera che conserva un altro significativo gruppo di quadri di Carrà. Fino a tempi recenti esposti nel Corridoio Franco Albini, che ospitava le collezioni Jesi e Vitali ed ora è cornice della pittura Lombarda di XV e XVI secolo, la loro destinazione avrebbe dovuto essere il rinnovato Palazzo Citterio. Per le traversie legate alla ristrutturazione di quest’ultimo, proprio di recente, assieme a parte della collezione del Novecento, sono tornati visibili al pubblico in un allestimento temporaneo (che, viste le premesse, potrà protrarsi molto a lungo) nelle sale Napoleoniche.
DIVISIONISMO
Purtroppo, come già al Museo del Novecento, anche a Brera non si è ritenuto meritevole di visibilità il Carrà divisionista dell’epica Allegoria del lavoro, del 1905: dipinto di grandi dimensioni e di significativo impatto che accoglieva il pubblico in mostra a Palazzo Reale.
FUTURISMO
Vediamo, invece, l’arabesco futurista di linee fra le quali riconosciamo bicchieri ed il sifone del seltz in Ritmi di oggetti del 1911.
METAFISICA
Ritroviamo poi la metafisica con un trittico del 1917: La musa metafisica, La camera incantata, Madre e figlio. È proprio nel marzo del 1917 che, a Ferrara, Carlo Carrà incontra De Chirico e, nella prima di queste tre opere, riconosciamo la cartina di Trieste nell’estate di quell’anno, evidenza della guerra in corso. Vi troviamo, come si è già visto, il recupero valori pittorici e prospettici della tradizione italiana, il gusto per figure e forme enigmatiche come nei rebus, ed infine, sempre rinchiusi nello spazio confinato di una stanza, il suo immaginario assieme alla simbologia di De Chirico: la Piramide dalle facce colorate a triangoli giustapposti e la simbolica Musa manichino nelle forme di una statua di tennista in gesso.
Un diverso interesse dell’artista testimonia La casa dell'amore (1922) nella quale le forme tozze del soggetto ed il suo sguardo spento, così come i colori usati, concorrono tutti a suscitare in chi guarda un senso di disgusto enfatizzato dal contrasto con il titolo dell’opera.
Al periodo versiliano ci riconduce La segheria dei marmi (1928), non una veduta (di paesaggio se ne vede solo un piccolo brano sullo sfondo) ma un’attenzione sociale verso una realtà lavorativa peculiare del luogo e, compositivamente, un accostamento di forme e volumi.
AUTORITRATTI
L’ultima opera proprietà di Brera e vista in mostra, Autoritratto, del 1946, è anch’essa esclusa dall’esposizione permanente della Pinacoteca. Rispetto all’Autoritratto del 1933 (Museum of Fine Arts di Budapest, Ungheria), in cui si propone di profilo, come Giotto che si dipinge allo stesso modo fra i beati del Giudizio Universale nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il pittore qui si ritrae nella tradizionale posa di tre quarti.
Per il resto i due dipinti sono accomunati dall’assenza di sfondo, dalla scelta della piccola dimensione in cui circoscrivere soltanto la testa e dall’uso soltanto del colore in assenza di disegno.
Per altri versi è più vicino ad Autoritratto II degli Uffizi, di cui ci sfugge la logica della numerazione, visto che è del 1951. Anche in quest’ultimo, suo testamento esistenziale ed artistico, ha infatti in testa il berretto da lavoro e lo vediamo di tre quarti, oltre che a figura quasi intera, in camice bianco ed al lavoro davanti al cavalletto con la tavolozza in mano all’interno di una stanza di cui vediamo le pareti.
È questa l’immagine del pittore che il suo amico Roberto Longhi ricorda “sferzare” la tela con due smorfie: sulle labbra lo sforzo fisico e sulla fronte il cipiglio mentale che si inflette sulla memoria della propria poesia.
Una volta preso (o ripreso) contatto con Carrà in queste istituzioni principali, sarà piacevole completare la panoramica sull’artista lanciandosi in puntate verso le altre sedi che, quasi tutte, ospitano ciascuna una sola sua opera.
Un’esplorazione che abbiamo intenzione di compiere noi stessi per verificare cosa è effettivamente sempre visibile e con quali modalità e condizioni.
Dunque, ancora cercando, per quanto possibile, di procedere in ordine cronologico, raggiungiamo il Castello Sforzesco. Qui ha sede il Civico Gabinetto dei disegni nel quale si custodisce un’opera futurista: Compenetrazione di prismi - Centri di forza di un boxeur, tempera e inchiostro su cartone del 1913.
Tappa successiva è il Conservatorio di Musica Giuseppe Verdi in cui si trova uno dei pochi suoi quadri (fra quelli a noi noti) in cui dipinge personaggi del suo tempo: il Ritratto di Ginevra Pavoni del 1922. Attrice drammatica protagonista della scena teatrale di inizio Novecento.
Ritorniamo in toscana per quadri in possesso di due istituzioni bancarie: L'aia (1928) di Unicredit Group Collection e il più tardo Marina (casetta sulla spiaggia) del 1949 di Banca Intesa San Paolo (stiamo verificando se alle Gallerie d’Italia), alla quale appartiene anche Natura morta con libro e coltello con cui ci accostiamo alla frequentazione da parte di Carrà di questo ulteriore genere che annovera esempi a Milano a partire dagli anni Trenta.
NATURE MORTE
Il dipinto citato è invece molto più tardo: del 1960, cronologicamente prossimo all’ultima sua opera: Natura morta con bottiglia e chicchera, alla quale lavora fino al Sabato Santo del 1966 [9 aprile], vigilia del suo ricovero in ospedale dove di lì a poco cesserà la sua esistenza terrena.
Se in quest’ultimo le linee verticali e orizzontali ed i colori vitrei conferiscono all’insieme una dimensione atemporale e rarefatta, nel precedente notiamo la presenza, costante anche in altre nature morte, dell’immancabile coltello: sempre con la funzione di definire lo spazio alternando ritmicamente pieni e vuoti. Smentisce immediatamente questa generalizzazione Natura morta con i libri (1932) di Villa Necchi Campiglio, dove il libro catalizza il cromatismo e le coppe tornite sono ridotte ad essenziale geometrico.
Seguita a ruota dalla Natura morta con bottiglia e frutta (1935), dal 1938 nella collezione Boschi – oggi Casa Museo Boschi di Stefano. In questa tela a delimitare lo spazio sono le sottili candele, ma ciò che davvero qui interessa l’artista è la forza plastica e cezanniana dei soggetti.
IL MARE
Restando nel medesimo decennio, usciamo però all’aperto in altri due luoghi ai quali Carrà ha dedicato numerosi dipinti. Lo facciamo entrando alla GAM, la Civica Galleria d’arte Moderna di via Palestro, dove ritroviamo il mare: l’Adriatico del Il bacino di San Marco (1932) ed il Tirreno, sebbene non immediatamente visibile e soltanto evocato nel titolo in Pompei - Porta Marina (1936), in mostra in una versione dello stesso anno della GAM di Palermo. A Pompei, di cui vediamo il fornice maggiore di una delle sette porte della città e, sulla destra, i resti della grande basilica, Carrà arrivo al termine di un viaggio che l’aveva portato a Sorrento, Capri, Amalfi ed Atrani.
Ed è proprio Capo di Atrani (1936), proprietà della Città Metropolitana di Milano, l’ultimo dipinto del nostro itinerario. Un’opera stilisticamente prossima a Pompei per l’analoga veloce stesura che notiamo nel mare e nel cielo: esattamente lo stesso dell’antica città romana sulle pendici del Vesuvio.
Sebbene non totalmente rappresentativo di tutte le esperienze stilistiche e di tutti i temi che Carlo Carrà ha sviluppato ed affrontato nel suo percorso artistico, questo nostro semplice percorso riteniamo offra agli interessati una mini-guida tematica grazie alla quale possono ripercorrere autonomamente la mostra girovagando fra le sedi espositive milanesi e, giovandosi della visita effettuata all’antologica, guardare con uno sguardo nuovo opere che prima (almeno così è stato per noi) non suscitavano particolare interesse.
Giovanni Guzzi, febbraio 2019
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