L'Eclettico



Picasso: vampiro cleptomane!



Le metamorfosi dell’antico nell’opera di un artista proteiforme

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PICASSO: VAMPIRO CLEPTOMANE!

Le metamorfosi dell’antico nell’opera di un artista proteiforme


Se l’aspettativa del visitatore fosse stata quella di ritrovare una cospicua esposizione di dipinti di Picasso (Pablo Ruiz y Picasso, Malaga, 25 ottobre 1881 – Mougins, 8 aprile 1973) come nel 2012, la recente mostra a lui dedicata in Palazzo Reale senza dubbio l’avrebbe invece un po’ deluso.
A fronte degli imponenti numeri di opere in mostra dichiarati, erano ben pochi quelli di maggiore impatto visivo e più coinvolgenti, almeno per il pubblico meno acculturato, al quale non ci vergogniamo di dichiarare anche la nostra appartenenza.
Addirittura - “punizione divina” per chi come noi è perenne naufrago nell’offerta culturale milanese e si riduce sempre alla visita quando le mostre temporanee sono prossime alla chiusura - non c’era nemmeno più (non sappiamo da quando) Nudo disteso (1932), l’immagine simbolo della mostra, sostituita da una riproduzione!

Fatta questa doverosa premessa, elementi di interesse ne abbiamo comunque trovati, e quanti, in una sorta di gioco investigativo finalizzato a scoprire in Picasso le ascendenze di cui la mostra offre le chiavi di indagine.

Un po’ come si era già fatto nelle stesse sale, ricercando i riferimenti all’arte dell’antichità della produzione di Rubens in Italia e quanto lui ha restituito ai colleghi italiani che l’hanno preso a modello (leggi di più Rubens l'Italiano >>>), con Picasso Metamorfosi, abbiamo seguito i percorsi ispiratori di un artista di eccezionale talento che ha cercato la sua strada originale ed autonoma saccheggiando, oltre all’opera degli artisti cronologicamente a lui più vicini o contemporanei, anche l’arte antica di ambito mediterraneo, quella classica ma anche quella più “periferica”, ed i miti nei quali essa affonda le sue radici.

Vampiro e cleptomane senza scrupoli, Picasso ne riprende diverse formule figurative: che a volte ripropone quasi identiche, ed a volte rielabora radicalmente dando l’impressione che tutto sia cambiato. Invece qualcosa dell’originale sempre rimane e resta riconoscibile, ad esempio per chi ne abbia scoperto la “matrice”, almeno in alcuni suoi lavori ed anche grazie a questa mostra.

IL BACIO

Con effetto un po’ curioso, la prima opera che attira l’attenzione del visitatore appena entrato in mostra è un bronzo vedendo il quale una voce esclama “Ma questo non è Picasso”!

Si tratta, infatti, del Bacio: una ben nota scultura di François-Auguste-René Rodin (Parigi, 12 novembre 1840 - Meudon, Francia 17 novembre 1917), artista considerato il progenitore della scultura moderna, nonostante il suo distanziarsi dallo stile precedente non fu una decisione presa per deliberata volontà di ribellione.
Opera di forma e struttura piramidale, straordinaria a guardarsi da ogni lato, è un soggetto di cui Rodin realizza quattro versioni: due in terracotta (la prima delle quali, la più piccola di tutte, è andata perduta), una in marmo e quest’ultima in bronzo.
Avrebbe dovuto far parte della Porta dell’inferno, commissione ottenuta nel 1880, grazie all’intermediazione del magistrato e uomo politico Edmond Turquet, per una porta ornamentale da collocarsi al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, al tempo ancora in progetto.
I lavori sull’opera sarebbero dovuti terminare nel 1885 ma, anche se lo scultore vi si dedicò per quasi quarant’anni, fino alla morte, essa rimase incompiuta. Dal modello in gesso vennero successivamente fusi otto originali, oggi custoditi in vari musei nel mondo.
Il progetto di Rodin prevedeva un portale monumentale, alto più di quattro metri e mezzo, ricoperto di bassorilievi ispirati all’inferno di Dante. Approfittando del fatto che il tema era libero, sviluppò infatti alcuni bozzetti basati sulla Divina Commedia. Poema col quale era entrato in profonda relazione e di cui scrisse:

«Dante est non seulement un visionnaire et un écrivain; c’est aussi un sculpteur. Son expression est lapidaire au bon sens du mot. Quand il décrit un personnage, il le campe avec son attitude et son geste. [...] J’ai vécu un an entier avec Dante, ne vivant que de lui et qu’avec lui, dessinant les huit cycles de l’enfer...»

«Dante non è solamente un visionario e uno scrittore; è anche uno scultore. La sua espressione è lapidaria, nel senso buono del termine. Quando descrive un personaggio, lo rappresenta solidamente tramite gesti e pose. [...] Ho vissuto un intero anno con Dante, vivendo di nulla se non di lui e con lui, disegnando gli otto cerchi dell’inferno...».

Altra fonte di ispirazione era stata la Porta del Paradiso (così “battezzata” da Michelangelo quando la vide) di Lorenzo Ghiberti: opera capitale del Rinascimento, rivestita d’oro e situata nel Battistero di San Giovanni a Firenze.
Nella Porta dell’Inferno sono presenti ben 180 figure, di varie dimensioni e che possono raggiungere anche il metro d’altezza. Vi sono riconoscibili alcuni personaggi tra i quali: Dante Alighieri, raffigurato nelle vesti del pensatore al centro del portale, il Conte Ugolino, Adamo ed Eva e Paolo e Francesca.

Questi ultimi li troviamo subito accanto: leggeri nei sottili tratti di matita che li materializzano dal bianco prevalente del foglio di carta sul quale Jean-Auguste-Dominique Ingres (Montauban, Francia, 29 agosto 1780 - Parigi, 14 gennaio 1867), fra i maggiori esponenti della pittura neoclassica, traccia nel 1819 uno studio dedicato alla coppia.
Era un tema molto amato da Ingres, quello della donna conquistata e dominata dall’uomo e degli amori proibiti della storia e della mitologia antica.

Ed all’antichità ci riportano due frammenti di oscilla. Dischi in terracotta che, nella mostra Mito e Natura (leggi di più >>>), abbiamo appreso essere appesi nei giardini dove, appunto, oscillavano mossi dal vento fra la vegetazione. Questi in mostra raffigurano un bacio (in uno dei due si nota anche una mano che accarezza il capo dell’amato) e sono ritenuti avere la funzione di propiziare l’amore presso la “competente” divinità.

Di queste antecedenze Picasso si appropria e, dopo uno studio del 1900 - 1901 con vari schizzi, fra cui uno in cui due amanti nascondono i volti in un abbraccio ancora figurativo, riproduce quasi esattamente l’unione delle labbra o la posizione di profilo dei visi viste negli oscilla in una serie di tre baci.
Di piccolo formato, dal disegno schematicamente geometrico e dai colori delicati su toni celesti è il primo del 1929. Più rudemente arcaizzante e quasi disgustoso, anche per la scelta dei colori verdi violacei, quello del 1943. Infine, sui toni del bruno e sebbene più simili a maschere primitive, sono leggibili i visi nel più recente, del 1969, che, nonostante la collocazione in apertura della mostra, non attrae particolarmente i visitatori il cui sguardo, come si è detto, viene immediatamente attratto dal bacio - abbraccio di Rodin.

Così come ama Ingres, col quale condivide la sopra ricordata “visione” della donna, allo stesso modo Picasso ama Rodin ed omaggia entrambi. Nel caso dello scultore anche riprendendone la pratica (del 1912) di assemblare oggetti diversi o di unire più opere preesistenti in un’unica nuova. Lo fa sulla tela o in sculture, come nella celeberrima Testa di toro: realizzata utilizzando materiali riciclati come il sellino ed il manubrio di una bicicletta e vista in queste stesse sale nella precedente esposizione a lui dedicata.

Divagazione agronomica:
poiché la margotta è una tecnica di clonazione delle piante legnose che si pratica favorendo la produzione di radici sulla loro parte aerea (ad esempio fissandovi un vasetto con terra), non si capisce perché la sopra descritta tecnica artistica abbia preso nome dal francese “margottage”, quando l’equivalenza semantica è semmai con l’innesto (in francese si chiama greffage), che è cosa ben diversa.

Come con l’innesto si fondono i tessuti di due piante differenti, così in Picasso il bacio è l’espressione della fusione dei corpi, isolato nei dipinti sopra descritti ed insieme all’intera figura nell’Abbraccio del 1970: fatto di un solo corpo e due volti. Non è evidentemente la realtà, ma un’idea. Un’idea che prende il posto del soggetto stesso, una memoria del passato che contiene il bacio di tutti i predecessori del pittore, sebbene egli deliberatamente ignori canoni estetici e cultura classica e rinunci totalmente al bello ideale, dal quale rifugge per ricercare l’arte nell’autenticità.

Nessuna rinuncia invece alla relazione con la donna, protagonista costante della sua arte e della sua vita, alla quale appartengono anche le innumerevoli traumatiche rotture con modelle, amanti, mogli. Le loro figure, ciascuna per diversi aspetti significativa, sono interessanti da accostare cronologicamente alle opere di Picasso nelle quali sono ritratte e riconoscibili nei loro tratti fisici essenziali, nonostante siano per lo più notevolmente trasfigurate.
In un elenco che non sappiamo quanto sia effettivamente completo, e precisando che le date delle loro rispettive relazioni col pittore dimostrano sovrapposizioni temporali quando le stesse erano clandestine, riportiamo qui le principali sue muse ispiratrici che ci sono note fra mogli (due) ed amanti più o meno “ufficiali”, molto probabilmente ben più numerose di quelle che citiamo.

Mogli e amanti

1909 - 1912 Fernande Olivier
(Parigi, 6 giugno 1881 - Neuilly-sur-Seine, 29 gennaio 1966).
Coetanea e prima compagna di Picasso fin dai suoi esordi d’artista, ha ispirato ritratti che possono essere considerati un’importante testimonianza del passaggio dell’artista dalla rappresentazione figurativa alla scomposizione cubista al tempo del sodalizio avviato con George Braque dal 1908.

1911 - 1915 Eva Gouel, nome d’arte che Picasso assegnò a Marcelle Humbert
(? 1885 - Parigi, 14 dicembre 1915).
Di quattro anni più giovane di lui, è stata la sua seconda donna e quella che, tra tutte, mostra il temperamento più pacato. Della sua vita non si conosce molto salvo che avrebbe voluto avere successo e forse diventare una famosa ballerina del teatro. I quattro anni della loro relazione coincidono con un periodo abbastanza tranquillo e sereno della carriera artistica e personale di Picasso.
Cominciano a frequentarsi clandestinamente nel 1911, quando lei è legata al pittore francese di origine ebraico - polacca Louis Marcoussis e Picasso è ancora assieme a Fernande Olivier.
Solo nel 1912, dopo la definitiva separazione fra Pablo e Fernande, Eva va a vivere con lui fino al 1915 quando muore di tubercolosi.

1918 – 1955 Olga Chochlova
(Nižyn, Ucraina, 17 giugno 1891 - Cannes, 11 febbraio 1955).
Ventisettenne ballerina dei Balletti Russi, sposata in prime nozze a Parigi e che per lui (di 10 anni più anziano) rinunciò alla carriera, nel 1921 diede alla luce Paulo, il primogenito del pittore.
Che la paternità non dissuase tuttavia dal tradirne la madre alla quale, nonostante fosse in torto marcio, rifiutò di concedere il divorzio quando questa, nel 1935, si accorse che da otto anni il marito conduceva una doppia vita ingannando lei e la nuova giovanissima amante. Cosicché i due rimasero sposati fino alla morte di Olga, nel 1955.

1927 – 1935 Marie-Thérèse Walter
(Le Perreux-sur-Marne, Francia, 13 luglio 1909 - Juan-les-Pins, Antibes, 20 ottobre 1977).
Diciassettenne vicina di casa, dal 1927 divenne segretamente la compagna di Picasso (nel frattempo arrivato ai 45), che per questo non mostrò mai i suoi ritratti fino al 1932. Ma anche la sua sorte era segnata ed il tempo di Marie-Thérèse scadde nel 1935, proprio in concomitanza con la nascita della loro figlia Maya. Marie Thérèse si suiciderà nel 1977.

1935 - 1943 Dora Maar - Henriette Theodora Markovitch
(Parigi, 22 novembre 1907 - 16 luglio 1997).
Fotografa surrealista e dal carattere forte, instaurò con Picasso (ora 54enne e con la medesima differenza d'età, 28 anni, che aveva con chi l'aveva preceduta), al quale la presentò (per due volte) Paul Elouard, una relazione anche artistica ma, ancora una volta, a termine: nel 1943, quando Françoise Gilot ne prese il posto nel cuore del pittore mentre lei si avviava sulla strada della pazzia e morirà in solitudine nel 1997.

1943 - 1953 Françoise Gilot
(Neuilly-sur-Seine, Francia, 26 novembre 1921 - vivente).
Modella ed artista di 22 anni quando si conobbero (Picasso ne aveva 62) è la madre degli altri due figli di Pablo Claude (1947) e Paloma (1949). Si autodefinì “l’unica donna sopravvissuta ad una relazione con Picasso” e fu anche l’unica sua amante a non essere lasciata ma a prendere per prima l’iniziativa di abbandonarlo quando si rese conto di essere tradita con Jacqueline Roque. Invano lui cercò per diversi anni di riconquistarla.

1952?3 - morte di Pablo (1973) Jacqueline Roque
(Parigi, 24 febbraio 1927 - Mougins, Francia, 15 ottobre 1986).
Conosciuta nel laboratorio di ceramica Madoura di Vallauris dove lavorava (e di 46 anni più giovane), fu la seconda moglie (sposata in segreto nel 1961 dopo la morte di Olga Chochlova) e l’ultimo legame affettivo dell’artista (che le dedicò 400 ritratti) fino al termine dei suoi giorni. Anche lei morirà suicida, nel 1986.

1936 - 1970 Inès Sassier.
Nata in Italia ma di nazionalità francese, incontra Picasso nel 1936 a Mougins, vicino a Nizza, nell’hotel dove Inès e sua sorella Marinette lavoravano e lui alloggiò per pochi giorni. L’anno successivo il pittore invitò le due sorelle a seguirlo a Parigi per occuparsi della sua casa abitando in una stanza vicina al suo studio di Rue des Grands Augustins. Solo Inès accetta la proposta diventando nei fatti la donna più importante nella vita dell'artista e, probabilmente, la sua migliore amica. Consigliera, governante di casa, occasionalmente cuoca, a necessità modella… e sempre la sua più ascoltata confidente fino al 1970 quando smetterà di lavorare per lui. Così la descrive Maya Picasso: «la nostra madrina delle fiabe... più vicina di una parente, più di una nonna... Inès idolatrava mio padre. Mio padre a sua volta, l’adorava».

ARIANNA FRA IL MINOTAURO E IL FAUNO

Come ogni pittore Picasso è attratto dalla donna, da lui considerata una “macchina per soffrire” ed alla quale, pur amandola, si compiace di provocare dolore: come dimostra con l’ingannevole comportamento nei confronti di mogli ed amanti.
Il suo avvicinarsi alla femminilità procede da una pacata elegia aspirando alla fusione di anime e menti oltre che dei corpi. È uno schema che si evolve in forme diverse e con tecniche artistiche diverse; e fa riferimento alla metafora del mito e degli esseri soprannaturali che lo popolano per evocare l’animalità dell’umano.
Più precisamente, per le somiglianze che vi scorge, riconduce le figure mitologiche alla sua vita e, dall’antico, crea una sua mitologia personale.

La chiave di accesso a queste antiche leggende è la figura di Arianna. Sorellastra del Minotauro, aiuta l’eroe Teseo ad ucciderlo perché innamorata di lui, che però l’abbandona sull’isola di Nasso dove è raggiunta e amata da Dioniso. Per questo motivo è rappresentativa dell’amore coniugale e del tradimento.

Prima di addentrarci in questo mondo è dunque utile ripassarne sinteticamente, ma con un minimo di approfondimento, personaggi e luoghi.

ANTICHI MITI RICHIAMATI IN MOSTRA

Arianna
Il mito di Arianna, caro agli antichi fin dai tempi di Omero, ebbe molte varianti come soggetto di numerose trattazioni poetiche.
Figlia di Minosse re di Creta e di Pasifae (figlia di Helios e della ninfa oceanina Perseide, e sorella, fra gli altri, della maga Circe) era sorella del Minotauro, il mostro rinchiuso nel Labirinto costruito dall’ingegnoso architetto e scultore Dedalo (originario, forse, di Atene da dove era fuggito dopo aver ucciso il nipote ed assistente Acale, essendo invidioso dell’abilità di questi).
Si innamorò dell’eroe ateniese Teseo, venuto nell’isola per liberare la sua città dal tributo di giovani vite umane che era obbligata a sacrificare ogni 9 anni al suo fratellastro: 7 fanciulli e 7 fanciulle assieme ai quali si era fatto rinchiudere nel Labirinto.
Perché potesse allontanarsene, in cambio della promessa di portarla via con sè dopo aver ucciso l’orribile creatura, su indicazione di Dedalo Arianna aveva suggerito a Teseo l’espediente del filo di lana prima srotolato e poi riavvolto.
Per l’aiuto fornitole Dedalo vi venne a sua volta rinchiuso assieme al figlio Icaro. I due riuscirono a fuggirne volando via grazie alle ali costruite da Dedalo. Ma nella fuga Icaro perse la vita precipitando in mare per essersi voluto avvicinare troppo al sole, il cui calore aveva sciolto la cera che teneva insieme le piume di cui le ali erano fatte.
Nel frattempo anche Arianna era fuggita con Teseo alla volta di Atene, ma l’eroe, dimostrandosi poco tale, l’abbandonò addormentata su un’isola deserta dove si era fermato per rifornirsi di acqua e cibo: Nasso. Da questo fatto, per corruzione del nome, discende il modo di dire “essere piantata in asso”. Qui la sventurata si diede la morte o, secondo la versione più diffusa, venne salvata da Dioniso che la fece sua sposa e le donò un diadema d’oro creato da Efesto che, lanciato in cielo, andò a formare la costellazione della Corona Boreale.

Minotauro
Grazie ad un’altra invenzione di Dedalo, una vacca di legno in cui si nascose per accoppiarsi col toro di cui si era innamorata - donato da Poseidone al marito Minosse - Pasifae mise al mondo il Minotauro, creatura umana dalla testa taurina, che il re nascose nel Labirinto e nel cui mito si possono individuare elementi dell’antica religione cretese.

Minosse (Μίνως)
Figlio di Zeus e di Europa, è il mitico re di Creta alla quale diede una costituzione fatta di leggi suggerite da Zeus stesso. Per dimostrare ai suoi due fratelli il favore di Poseidone al suo proposito di regnare su Creta alla morte del padre adottivo Asterione, Minosse chiese al dio che facesse uscire dal mare un toro che gli avrebbe sacrificato. Ottenuto il regno, venne però meno alla promessa e, invece di ucciderlo, lo nascose nelle sue stalle. Per vendetta Poseidone fece innamorare dell’animale (un toro bianco che soffiava fuoco dalle narici) la moglie di Minosse Pasifae.
La figura di Minosse rispecchia lo splendore dell’antica civiltà e talassocrazia (dominio del mare) cretese e, secondo molti studiosi, come per faraone in Egitto, in origine anche Minosse non indicherebbe un nome personale ma il titolo dei dinasti di Creta.

Teseo (Θησεύς)
Figlio del re di Atene Egeo e di Etra, ne conosciamo già la storia fino al vile abbandono di Arianna. Per contrappasso, facendo ritorno in Atene, dimenticò di mutare in bianche le vele nere issate in partenza, segnale convenuto con il padre per indicare il successo dell’impresa.
Credendo perduto il figlio, Egeo si gettò nel mare che da lui prese il nome ed è situato fra Grecia e Turchia, dove sorgeva Troia, a guardia dello stretto dei Dardanelli che conduce al Mar di Marmara.
Divenuto re di Atene, Teseo organizzò unitariamente le 12 città dell’Attica ed in ricordo di ciò istituì le feste Panatenee. Accompagnò Eracle nella guerra contro le Amazzoni, vinse e fece sua sposa la loro regina Antiope, dalla quale ebbe un figlio, Ippolito, noto per il tragico amore concepito per lui dalla seconda moglie di Teseo, Fedra.
La sua personalità mitica sembra risalire all’età micenea ed in origine è forse quella di una divinità solare. Più tardi Atene trovò in Teseo, trasformato da dio in eroe, il personaggio da contrapporre all’eroe dorico Eracle. L’arte greca lo raffigura come un eroe giovane, sia nel ciclo delle sue imprese, sia nell’amazzonomachia (il combattimento contro le Amazzoni).

Civiltà cretese-micenea
È la corrente denominazione delle culture, per molti aspetti strettamente legate, di due antiche civiltà, in parte contemporanee, che fiorirono rispettivamente nell’isola di Creta e nella Grecia preellenica (ovvero precedente la colonizzazione delle popolazioni indo europee). L’origine della civiltà cretese (detta anche minoica) risale al Neo-eneolitico (fine terzo ed inizi secondo millennio a.C.) e la sua piena fioritura ai secoli XIX-XV a.C..
Parallelamente al suo declino arriva alla sua massima espressione la corrispondente civiltà micenea del Peloponneso. Fiorita nella seconda metà del secondo millennio a.C., quest’ultima ha al centro l’antica città di Micene (Μυκῆναι) nell’Argolide. Secondo gli antichi miti vi avrebbe regnato la dinastia degli Atridi, celebre per le vicende di assassinii, adulteri e vendette da cui trassero materia i poeti epici e tragici. Ad essa apparteneva Agamennone, che guidò la guerra contro Troia.
Quando la potenza di Micene venne meno, nei secoli IX-VI a.C. perse il predominio un tempo esercitato sull’Argolide, pur restando indipendente fino alla guerra contro i Persiani, alla quale partecipò con suoi soldati che combatterono alle Termopili nel 480 a.C..
Nel 468 a.C. fu assalita da Argo ed i suoi abitanti si dispersero in centri minori dell’Argolide. Ne restano ben conservate le possenti mura ciclopiche che circondano l’acropoli (XIV sec. a.C.) e dove si aprono due porte, fra le quali la famosa, monumentale, porta dei Leoni.

Europa (Εὐρωπη)
Figlia di genitori che il mito non identifica univocamente, viene notata da Zeus poco lontana dal mare mentre, con le sue compagne, coglie fiori nelle campagne di Tiro o di Sidone.
Innamoratosi di lei, il dio si trasforma in un torello e giocosamente le si avvicina stendendosi ai suoi piedi. Molto coraggiosa, oltre che bellissima, Europa sale in groppa all’animale e vorrebbe esortare qualche sua compagna a fare altrettanto ma, non appena sente sul dorso la meravigliosa fanciulla, il toro si rialza e si lancia deciso nell’acqua.
Con grande spavento di Europa e delle compagne avanza imperterrito mentre Poseidone spiana le onde davanti al fratello maggiore. Un corteo di cui fanno parte Tritoni, Nereidi e la stessa Afrodite accompagna i due fino a Creta, dove Zeus conforta la fanciulla e si unisce a lei  presso una fonte sotto i platani nei dintorni di Gortina oppure nell’antro ditteo che le Ore hanno trasformato in talamo nuziale. Da Zeus ed Europa ha origine, come già si è detto, la dinastia minoica: i tre figli, Minosse, Radamanto e Sarpedonte vengono infatti adottati dal re di Creta Asterio o Asterione di cui diviene poi moglie. Una leggenda meno comune aggiunge ancora Carno il diletto ad Apollo. Prima di tornarsene all'Olimpo Zeus dona a Europa Talo, l'uomo di bronzo, e inoltre un cane cui nessuna preda sfugge e un giavellotto che mai fallisce il bersaglio.

Tritoni
Progenie di Tritone, figlio del dio del mare Poseidone e della nereide Anfitrite. Tritone aveva un corno di conchiglia, il cui suono calmava le tempeste e annunciava l’arrivo del dio del mare. Notissimo per l’aiuto dato a Giasone ed agli Argonauti nel trovare la rotta da seguire, Tritone veniva raffigurato con la metà superiore umana e quella inferiore a forma di pesce, mentre tutta la pelle era verde.
La sua origine è pregreca, probabilmente fenicia. I tritoni divennero servitori delle divinità marine, che trasportavano sul dorso o su carri trainati da loro stessi. Erano agli ordini di Poseidone e potevano scatenare o placare le tempeste marine, suonando un corno a forma di chiocciola, ricavato da una conchiglia.
Nelle fonti greche i Tritoni sono descritti come esseri triformi, con la testa umana, capelli e occhi verdastri, bocca larga dotata di zanne, corpo equino squamoso e terminante in una coda simile a quella di un delfino. Per questo saranno chiamati anche Κενταυροτρίτωνες, kentaurotrítōnes. Più tardi prevarrà la semplice forma umana-pisciforme e il tritone sarà considerato il maschio della sirena.

Nereidi (Νηρείδες o Νηρηίδες, al singolare Νηρείς)
Ninfe marine discendenti dal figlio di Ponto (il mare) e Gea (la terra), Nereo (Νηρεύς, Nereus): primitiva divinità marina raffigurata come un vecchio saggio, giusto e benevolo.
Omero lo chiama «vegliardo del mare» ed infatti abita in fondo al Mar Egeo ed ha la facoltà di assumere forme diverse, in particolare quella di serpente, acqua e fuoco, e di predire il futuro, caratteristiche tipiche di molte divinità marine.
Fu lui a predire a Paride tutti i mali che sarebbero derivati dal rapimento di Elena di Troia. Invece Eracle riuscì ad avere da lui le informazioni necessarie per raggiungere il Giardino delle Esperidi e raccogliervi i pomi d’oro. Madre delle Nereidi è la Oceanina Doride (Δωρίς; Dôris), figlia del titano Oceano e della titanide Teti (in greco antico: Τηθύς, Tēthýs) o Tetide, nata da Urano (il cielo) e Gea.
Considerate creature immortali e di natura benevola, insieme ai Tritoni le Nereidi facevano parte del corteo del dio del mare Poseidone e venivano rappresentate come fanciulle con i capelli ornati di perle, a cavallo di delfini o cavalli marini. Se ne contano almeno 50 fra le quali le più note sono: Anfitrite, sposa di Poseidone, Galatea, da non scambiare con la creatura amata da Pigmalione ed amata invece dal pastore Aci e dal ciclope Polifemo, che uccise il rivale per gelosia, e Aretusa, trasformata in una sorgente marina nell’isola Ortigia vicina a Siracusa.
La massima delle Nereidi e direttrice delle loro danze, alle cui nozze avevano aspirato Poseidone e lo stesso Zeus, ma che volle invece sposare un mortale, Peleo, avendo saputo che da lei sarebbe nato un figlio più forte del padre è Teti (o Tetide): madre dell’eroe di Troia Achille.

Dioniso (Διόνυσος)
È una delle grandi divinità dell’Olimpo greco. Nacque da Zeus e da Semele, figlia di Cadmo (fratello di Europa e fondatore di Tebe in Beozia) e Armonia (figlia di Ares e Afrodite): protagonisti di nozze memorabili alle quali prese parte l’intero Olimpo e fu l’ultima volta in cui dei e umani banchettarono assieme.
Il mito racconta che Semele, per volontà sua o per fraudolento consiglio della giustamente gelosa Era, avesse chiesto a Zeus di apparirle in tutto il suo splendore. Sapendo cosa questo avrebbe comportato, invano il re dell’Olimpo cercò di dissuaderla ma, avendole promesso di non negarle mai nulla, dovette accontentarla: e dalla visione Semele venne incenerita.
Ancora nel grembo materno, Dioniso fu salvato dal rogo grazie al padre che lo cucì dentro la sua coscia, da cui nacque dopo una seconda gestazione divina. Fu quindi affidato alle cure della sorella di Semele, Ino. Dopo che questa impazzì, fu cresciuto dalle ninfe del Monte Nisa. Avendo viaggiato in Egitto e Siria, giunse in Frigia presso la dea Cibele, dalla quale apprese le danze che divennero parte integrante dei suoi riti, gli orgia.
Dopo averne diffuso la conoscenza dalla Tracia all’India, giunse a Tebe, città di sua madre, dove si fece riconoscere come dio e li celebrò per la prima volta in terra greca. Il re tebano Penteo gli negò ospitalità ma pagò il rifiuto con la vita: venendo ucciso dalla madre Agave, resa folle dal dio. Dioniso mostrò la sua identità divina anche agli Argivi e sulla nave che lo portava a Nasso. Condusse infine Semele fuori dagli Inferi e con lei prese dimora sull’Olimpo.

Pan
Dio delle montagne e della vita agreste, il suo culto fu in origine nell’Arcadia. Nell’Inno omerico a lui dedicato è detto figlio di Ermete (o Hermes, il messaggero degli dei) e della ninfa Driope (mutata da Bacco in driade quindi in albero), compagno di Dioniso e delle ninfe montane, protettore degli armenti, amante della danza e della musica.
Munito di corna e di piedi caprini, ama i boschi e le sorgenti; è patrono del riposo meridiano, durante il quale è capace d’infondere il timore che da lui prende la denominazione di ‘panico’.

Fauno (Faunus)
Antichissima divinità italica. Connesso strettamente con le selve, vi esercita le sue facoltà oracolari mediante messaggi verbali che fa udire a tutti restando invisibile; questa presenza sonora e verbale di Fauno è alla base degli appellativi Fatuus e Fatuclus (da fari, «parlare»). È identificato con Pan dagli scrittori greci.
Risulta provocatore di visioni di sogno e di incubi per cui è chiamato anche Incubo.
Fauno si rivela come figura complessa di "essere" delle origini, partecipe della natura selvaggia del bosco e nello stesso tempo stimolatore di istituzioni culturali con cui, secondo Probo, avrebbe insegnato ai suoi concittadini un modo di vita più mite: sarebbe quindi da ascrivere alla categoria degli eroi culturali.
Suoi attributi erano: la corona in capo, quale re, il corno per bere e la pelle di pantera come Liber pater (il dio italico della fecondità, del vino e dei vizi), la clava come Ercole.

Satiri
Divinità con sembianze di animali (teriomorfe), nella mitologia della Grecia antica e del mondo letterario greco-romano sono una collettività di esseri (molto raramente si parla di un singolo satiro) che vivono per lo più nel bosco, circondati da una natura selvaggia, spesso insieme con le ninfe delle quali sono il corrispondente maschile. Nel periodo più antico i satiri erano immaginati dai Greci, non diversamente dai sileni, in forma umana, ma con orecchie, coda e talvolta zoccoli di cavallo.
Esiodo li definisce buoni a nulla che fanno dispetti ai mortali e, conformemente al loro aspetto semianimalesco, sono sensuali, aggressivi, ma anche vili.
Dal punto di vista storico-religioso i satiri greci rientrano in quel tipo di esseri, diffuso nelle più varie mitologie, che si definiscono convenzionalmente come ‘demoni del bosco’.
In epoca classica i satiri fanno regolarmente parte del corteo di Bacco. In un periodo più recente si assimilano nell’aspetto esteriore al dio Pan o ai pani, al plurale, altri esseri semidivini abitanti del bosco, scambiando gli originari attributi equini con quelli caprini, caratteristici del dio Pan.
Il tipo iconografico arcaico del satiro ha chiome lunghe, barba, fisionomia caricaturale, torso nudo villoso, zampe e coda equina.
Già sullo scorcio del VI sec. a.C. nella scultura e nei vasi a figure nere i tipi satireschi si umanizzano, conservando solo le orecchie e la coda equina, mentre nei successivi vasi a figure rosse viene meno anche la loro fisionomia mostruosa. Alla fine del V sec. a.C. le figure satiresche si ingentiliscono ancor più.
Prassitele rinnova il tipo raffigurando i satiri come adolescenti (s. versante, s. in riposo)], la cui origine semiferina si rivela solo nelle orecchie appuntite e nelle folte e ispide chiome. L’arte ellenistica moltiplica i tipi (s. dormiente, s. danzante). Ricco materiale offre anche la pittura ellenistico-romana. Uno dei motivi più comuni scolpiti sui sarcofagi romani sono i tiasi orgiastici o baccanali con tipi satireschi su schemi per lo più mutuati dall’arte ellenistica.

Tiaso
Nell’antica Grecia, associazione di carattere religioso; in origine era probabilmente un’associazione dionisiaca, che si dedicava specialmente al canto e alla danza orgiastica proprî del culto di Dioniso, ma talvolta si costituirono tiasi anche in onore di altre divinità (per es., Afrodite o Eracle); particolarmente importanti per la produzione poetica connessa con la loro attività cultuale (Alcmane, Saffo) furono quelli esclusivamente femminili di Sparta e Mitilene; in età ellenistica il termine passò a indicare genericamente associazioni o confraternite religiose, e in Atene anche una delle minori associazioni comprese nella fratria.

Menadi (Μαινάδες)
Donne seguaci del culto orgiastico di Dioniso, celebravano nell’ebbrezza le feste in suo onore. Analogamente, le sacerdotesse di Apollo divenivano menadi quando erano invasate dal dio. Il termine, applicato talvolta anche ad altri culti orgiastici, è sostanzialmente sinonimo di baccanti.

Ninfe (Νύμϕαι, Nymphae)
Divinità minori venerate dai Greci antichi. L’etimologia del nome è discussa; tuttavia non pare che la parola greca νύμϕη si possa separare dal lat. nubere ("sposarsi"), sicché nympha sarebbe, nel suo significato originario, la fanciulla giunta all’età matura per le nozze.
Erano immaginate e venerate come genî femminili: vergini o giovani donne, alberganti nell’acqua delle fonti, dei ruscelli, dei fiumi, dei laghi (Naiadi), oppure negli alberi delle selve (le immortali Driadi o le mortali Amadriadi), o nelle grotte dei monti (Oreadi) e personificanti, in certo modo, la vita della natura nell’elemento vegetale e nelle acque scorrenti sulla superficie della terra.
Erano benigne verso i mortali, di cui non rifiutavano l’amore. Benché talora gli dei dell’Olimpo non disdegnassero invitarle alle loro assemblee, la loro dimora ordinaria era sulla terra; qui si potevano trovare intente a tessere e filare, intonare canti, danzare o bagnarsi; spesso, anche quando gli dei si trattenevano sulla terra, le ninfe erano compagne dei loro passatempi o, comunque, della loro attività: cacciavano con Artemide, con Dioniso partecipavano alle estasi bacchiche vagando di luogo in luogo, con Apollo ed Ermete s’intrattenevano in amorosi colloquî; spesso erano in guerra con la schiera dei satiri lussuriosi.
Dai Romani le Ninfe furono identificate con divinità indigene dell’acqua e delle sorgenti (Camene, Carmenta, Giuturna). Il culto si svolgeva all’aperto o in piccoli santuari (ninfei).

Sebbene non sia mai stato in Grecia, Picasso è affascinato dai miti del Mediterraneo che abbiamo appena raccontato e da altri che vedremo. In un tempo in cui la rete internet non era ancora stata immaginata - e forse per un artista era un bene, visto che doveva trovare ispirazione in oggetti concreti e non nel mondo virtuale - ricercava le immagini dell’antichità nella lettura di riviste d’arte, in cartoline e visitando assiduamente i musei: il Louvre e, durante il viaggio in Italia che lo portò anche a Pompei, i musei Vaticani ed Archeologico di Napoli.
Questi luoghi e queste immagini che ha frequentato e l’hanno ispirato li ripercorriamo in mostra attraverso innumerevoli documenti; certo non appariscenti come può esserlo un quadro di grandi dimensioni a colori vivaci, ma interessanti per scoprire, come si è scritto in apertura, le fonti dirette alle quali il suo stile originale e sempre mutevole ha attinto. Tracciando i volti di Arianna ed Europa, di dee, di ninfe. Immedesimandosi nel dio Pan o sentendosi fratello del Minotauro. E, ancora, rispecchiandosi in vicende raffinatissime come quella di Pigmalione e Galatea narrata da Ovidio nelle Metamorfosi.

Pigmalione e Galatea
Il mitico re di Cipro Pigmalione (Πυγμαλίων), disdegnando i vizi ai quali è incline il genere femminile, viveva solitario e scolpì nell’avorio una donna di perfezione tale che la natura non avrebbe potuto eguagliare. Innamoratosi di lei ed amandola come se fosse stata una creatura vivente, durante la festa dedicata a Venere chiese alla dea “Se voi potete tutto fate che sia mia moglie” - non osando dire la ragazza d’avorio - “una che le somigli”. Venere lo esaudì e, tornato a casa, scoprì che al tocco delle sue dita la statua si trasformò in una vera fanciulla: Galatea. Pigmalione la sposò e chiamò la figlia nata dalla loro unione Pafo: dal nome della città di Cipro dove si trovava un tempio dedicato ad Afrodite. Questo tema ricorre anche nelle mitologie finnica e lituana e fu ripreso e adattato in epoca moderna dal drammaturgo irlandese G. B. Shaw nella commedia Pygmalion (1913), in cui un professore di fonetica si assume il compito di insegnare buon accento e buone maniere a una giovane fioraia. Ecco perché nell’uso comune chi assume il ruolo di maestro nei confronti di persona rozza e incolta, specialmente se una donna, plasmandone la personalità, sviluppandone le doti naturali e affinandone i modi si dice essere un pigmalione; o colui che fa da pigmalione.

Questa particolare relazione la ritroviamo in numerose opere in mostra. Il pittore e la modella, Eva Gouel, visto che siamo nel 1914. Poi ancora: il pittore, la modella e la testa scolpita della modella, quest’ultima opera effettivamente presente anche in mostra assieme ad una testa di donna di profilo in bronzo, tutti lavori degli anni trenta, in cui è quindi riconoscibile Marie Thérèse. Ed infine, L’atelier: il pittore e la modella, in pennarello di feltro su carta del 1955, quando compagna dell’artista era Jacqueline Roque.
In quest’ultimo scopriamo un altro versante dell’approccio di Picasso alla donna: non solo bacio e abbraccio ma anche riposo e vicinanza di spirito. Metafora di questo sentimento è il nudo di donna dormiente e contemplata dall’amato: tema dominante in numerosissime opere.

Modello per la postura della donna è la scultura dell’Arianna addormentata dal Louvre (III sec. d.C.): morbidamente adagiata e con un braccio sollevato a sorreggere il capo. Questo tema principale è sviluppato in due filoni. Accomunati dal fatto che la modella è quasi sempre sdraiata, con la testa reclinata all’indietro e le braccia sollevate o incrociate sopra di essa. Da cui fluisce il biondo dorato dei capelli sciolti abbandonati di Marie Thérèse. Dopo il 1920, infatti, la pittura di Picasso ha sempre forti riferimenti autobiografici ed in più occasioni rappresenta estati e scene di spiaggia.

Lo troviamo dunque - primo filone - in grandi dipinti (già visti nella mostra precedente prima citata) o semplici schizzi in cui sono più spinti il disfacimento delle forme e la loro rielaborazione che, nelle opere in mostra, prevalentemente predilige linee curve e morbide: come nel Nudo disteso, del 1932, quadro simbolo della mostra ma tornato anzitempo “a casa” e sostituito da una sua riproduzione, nel Nudo in un giardino visto di profilo, del 4 agosto 1934, in cui la donna è trasformata in una natura morta.
A volte però non disdegna forme più “angolose” come nel Nudo con bouquet di iris e specchio, del 1934, ed in disegni a matita quali la Bagnante con il parasole (1930), su busta da lettere.
O, ancora, la chiara leggibilità della figura umana come nel disegno a penna Lo scultore e la modella del 1931 o l’acquaforte Ragazzo pensieroso veglia su una donna che dorme al lume di una candela (18 novembre 1934).
Tutte opere di piccolo formato realizzate con tecniche varie e su diversi supporti.

In altri disegni in mostra la postura della modella è seduta col busto eretto ma sempre con le braccia incrociate sopra la testa: Due figure (1933), Donna con le braccia incrociate sopra la testa (1939) e Nudo che si pettina, disegno a penna del 1954. Negli ultimi due la figura è recuperata e più riconoscibile ma, frontale la prima e di spalle la seconda, entrambe non fanno mancare anche la contemporanea simultaneità di rappresentazione da differenti punti di vista che ce ne mostrano anche il lato nascosto all’osservatore.

MINOTAURI E FAUNI

“Tutte le tappe della mia vita, rappresentate come punti su una mappa e unite, riprodurrebbero il disegno del Minotauro”

afferma Picasso per spiegarne la presenza nel suo lavoro, dal 1928 fino alla morte. E nella figura del Minotauro alcuni vedono contenuta l’ossessione del pittore per Dora Maar che, come si è visto, nel 1935 soppianta Marie Thérèse. Osservazione che, intesa in senso esclusivo, ci lascia dubbiosi, visto che è la Walther ad essere esplicitamente richiamata anche nel titolo di numerose stampe di incisioni realizzate con tecniche varie che vediamo in mostra e costituiscono il secondo filone in cui troviamo esplicitato il tema del nudo di donna dormiente osservata dalla figura maschile che la veglia.
A volte è il Minotauro a contemplare una dormiente, spesso dichiaratamente Marie Thérèse delle cui emozioni, visualizzate in sogno, in altri casi la creatura mitologica è la manifestazione. In altre stampe i ruoli si invertono ed è Marie Thérèse che, come una vestale, veglia il Minotauro.
O, ancora, possono essere presenti altre figure come attori e lo stesso artista: con capelli e barba neri; ben diverso dalle foto in età avanzata che di lui conoscevamo. Siamo infatti negli anni Trenta quando ha una cinquantina d’anni.
Di questo periodo è poi la cosiddetta “suite Vollard” (1933-34) una serie di stampe alla quale appartengono molte delle opere già descritte ed altre esposte in sezioni successive della mostra.

La Suite Vollard
“La propensione di Picasso per i tratti fuggevoli penetra e converte le cose, producendo esemplari pressoché unici di calcografie lineari… Più di tutti i poeti, gli scultori e gli altri pittori, questo spagnolo ci lascia senza fiato, come un freddo repentino…” (Guillaume Apollinaire).
Dopo la sperimentazione dei primi anni del ‘900, la passione per l’arte incisoria riaffiora prepotentemente negli anni ‘30 quando il gallerista Ambroise Vollard gli commissiona la celeberrima Suite Vollard destinata ad una pubblicazione di lusso per una piccola cerchia d’estimatori d’arte.
Picasso s’immerge nell’arte grafica in maniera autonoma sperimentando tutte le tecniche incisorie e stampando da sé le opere.
Con la Suite giunge al più gran capolavoro calcografico, conferma ulteriore della sua indiscutibile maestria. Schönemberg lo consacrerà, insieme a Rembrandt e Goya, come il più grande incisore dal rinascimento. Realizzata tra il ‘30 e il ‘37, la raccolta è stata riunita ed esposta integralmente per la prima volta in Italia grazie alla concessione del Reina Sofia di Madrid.
Costituita da 100 incisioni, la Suite Vollard, si suddivide in cinque differenti tematiche: “El Minotauro”, “La batalla del amor”, “Rembrandt”, “El Minotauro ciego”, “El taller del escultor”, e tre ritratti di Vollard, eseguiti con la stessa matrice ma con differenti tecniche calcografiche.
Nella commedia dantesca il “Minotauro”, simboleggia la matta bestialitade e richiama a prima vista l’ossessione picassiana per i soggetti erotici, anch’essi presenti in mostra.
Ad un’analisi più approfondita la carica emotiva sprigionata, la pulsione violenta e la forza primigenia della natura, riflettono l’inquietudine destata dagli eventi storici, anticipando alcuni elementi che ritroveremo in Guernica.
La stessa carica espressiva è eguagliata nella battaglia dell’amore. Corpi convulsi, rilevati dalle masse muscolari fortemente plastiche, si avvinghiano tra loro contorcendosi. Intensi e drammatici contrasti chiaroscurali atti a rimarcare l’impeto espressivo non compaiono, invece, nella serie “El taller del escultor”, dove attraverso il recupero delle fonti classiche Picasso riflette sul rapporto tra l’artista e la sua opera.

Matrici dall’antico, per il tema del Minotauro e delle vicende a lui connesse, sono esemplari di vario genere.
Un bellissimo marmo dai Musei Vaticani raffigurante torso e testa del Minotauro (500-1000 d.C.).
Due celebrazioni del Teseo liberatore dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Un affresco (45 – 79 d.C.), un po’ “statico”, con l’eroe in posa solenne a ricevere l’omaggio delle scampate vittime: che lo attorniato appena uscito dal labirinto sulla cui soglia giace a terra il Minotauro abbattuto.
E, più interessante, per la vivace resa dell’episodio, un mosaico (I sec. a. C.) in cui Teseo lotta col suo avversario fra parti di corpi smembrati dal mostro a terra e sotto lo sguardo trepidante ed angosciato di tre figure che da una finestra assistono alla scena.
Infine uno skyphos a figure nere (550 a.C.) in cui Teseo con una mano tiene fermo per le corna il Minotauro mentre lo ferisce a morte colpendolo al ventre con la spada che regge nell’altra.
In altri vasi (datati attorno al 500 a.C.), sempre a figure nere - una coppa mastoide, una lekythos ed un’anfora - è Ercole, nella settima delle sue 12 fatiche, ad atterrare il toro di Creta (da cui il Minotauro era nato) afferrandolo frontalmente e piegandolo sulle zampe anteriori.
Anche qui immagini di grande efficacia di vicende e personaggi come si è visto tutti strettamente collegati nei complicatissimi intrecci dei racconti mitologici.

A proposito della decorazione di questi vasi è utile un richiamo alla pittura vascolare a figure nere e rosse nell’antica Grecia.

Antica pittura greca a figure nere e rosse

Per i Greci la pittura era la forma d’arte più importante. La grande pittura greca è però quasi totalmente perduta ed è ricostruibile solo parzialmente, grazie a pochi ritrovamenti significativi, e soprattutto integrando i dati riportati dagli scrittori antichi con lo studio della ceramica dipinta.
Quest’ultima fu tuttavia caratterizzata dalla rinuncia alla policromia e dall’interesse prevalente per disegno e composizione. Tracce del gusto per una vivace policromia infatti si ritrovano solamente nell’architettura e nella scultura.

Pittura a figure nere
A partire dalla fine del VII secolo a.C. si affermarono gli artisti attici, che adottarono la tecnica della ceramica a figure nere e la svilupparono tra il 570 e il 530 a.C.. In tale tecnica le figure erano integralmente dipinte con la vernice nera, sulla quale, dopo la cottura, erano resi i dettagli stendendo un colore sovradipinto oppure mediante linee incise,usate anche per i contorni: dove la vernice veniva graffiata emergeva il colore rosso-bruno dell’argilla. Le scene dipinte raffiguravano quasi sempre soggetti mitologici, ma anche momenti di vita quotidiana.

Pittura a figure rosse
Intorno al 530 a.C. la tecnica a figure nere aveva raggiunto il massimo della perfezione nel disegno, spingendo alcuni pittori alla ricerca di nuove tecniche. Il quartiere ateniese del Ceramico ospitava diverse centinaia di pittori e una cinquantina di botteghe, dando così origine a una vivace concorrenza che probabilmente favorì la sperimentazione di novità. Nacque allora la tecnica a figure rosse, cioè una tecnica inversa rispetto a quella a figure nere. Infatti il vaso era dipinto con la vernice nera risparmiando le figure, che restavano rosse.
L’inventore di questa tecnica, che per primo produsse anche una serie di vasi “bilingui”, ossia con un lato a figure nere e l’altro a figure rosse, fu il cosiddetto Pittore di Andocide: nome convenzionale dato ad un ceramografo attico, attivo ad Atene tra il 530 e il 515 a.C., che prende il nome dal ceramista Andocide.
La sua firma, come vasaio, ci è giunta su nove vasi, cinque dei quali decorati da uno stesso artista, che potrebbe essere lui stesso ma viene appunto chiamato Pittore di Andocide.

Per quanto riguarda, invece, le loro forme e per orientarsi almeno un poco con la relativa nomenclatura, ricordiamo le definizioni di quelli esposti, di origine greca ed etrusca. Osservando che gli Etruschi avevano una particolare passione per la ceramica greca e dunque i continui rapporti commerciali permisero l’importazione in Etruria di un notevole numero di ceramiche, soprattutto di vasi attici e corinzi, come ampiamente dimostrato dai ritrovamenti di questi manufatti tra gli oggetti facenti parte dei corredi funerari. Molti laboratori etruschi riproducevano soprattutto vasi attici, cosicché anche la terminologia utilizzata per identificare le forme rimase quella greca.

FORME E NOMENCLATURA DELLE ANTICHE CERAMICHE GRECHE ED ETRUSCHE ESPOSTE IN MOSTRA

Anfora
Più comune forma di vaso. A due anse, ed a volte anche con coperchio, serviva per il trasporto e la conservazione dei liquidi ed altri prodotti - come vino, olio, miele, granaglie, cibi marinati o in salamoia -, per attingere acqua dai pozzi e come urna per le votazioni. Una vasta produzione di questi vasi, per trasportare vino in tutto il bacino del Mediterraneo, si riscontra nel territorio di Vulci a partire dalla fine del VII secolo a.C.. Tra i vari tipi di anfore troviamo le panatenaiche, le tirreniche, le pelíkoi. Le cui forme variavano leggermente a seconda del tipo di merce che dovevano contenere.

Pelike (πελίκη)
Tipo di anfora greca la cui parte inferiore si rigonfia in modo da somigliare a un otre (gli archeologi tedeschi infatti designano questa forma col nome di anfora otriforme). Il tipo appare nella ceramica attica, sia a figure nere che a figure rosse, verso il 530 a. C. e perdura per tutti i secoli V e IV, assumendo nella ceramica italiota una sagoma sgraziatamente allungata.

Askos (plurale askoi)
Piccolo vaso per contenere liquidi oleosi, in particolare l’olio per lampade. Ha il corpo cilindrico allungato o piatto e tondo, più largo che alto; un tubo costituisce il collo che termina con un beccuccio; un’ansa arcuata si estende lungo la parte superiore del corpo e ne rende possibile l’uso. A volte il corpo e il beccuccio riproducono le fattezze di un uccello o di altro animale oppure fattezze antropomorfe.

Coppa
Recipiente a forma di calice, vaso o ciotola, usualmente senza anse, con piede tondo e corto stelo; presenza o assenza di anse, piede e stelo sono però elementi variabili. I primi esemplari (sin dall’età micenea) furono in ceramica o in metallo. Si parla di coppa mastoide quando la sua forma è simile a quella di un seno. Una variante bassa e allargata, priva di piede e di anse, è la patera.
Esistono anche altri tipi di coppa.
Kylix (plurale kylikes) o coppa attica.
Coppa da vino in ceramica creata dai ceramisti attici. Usata nei banchetti è la coppa da libagione più diffusa fino a che l’uso non fu soppiantato dal calice a volute, l’elegante kantharos (pl. kantharoi) ad alte anse a curva rilevata.
Skyphos (σκύφος, skyphos, plurale skyphoi)
Profonda coppa per bere con due piccole anse, solitamente orizzontali, impostate appena sotto l’orlo; il piede è basso o del tutto assente.

Cratere (κρατήρ, dalla radice κρα, da cui il verbo κεράννυμι "mescolare")
Grande contenitore a bocca larghissima e corpo capiente in cui miscelavano vino e acqua da servire nei banchetti. Le differenze tra i diversi tipi di cratere sono semplicemente dovute a dettagli come i manici o la forma del corpo.
Sembra abbia origine nella civiltà assira, da cui sarebbe giunto ai Greci per mezzo dei Fenici. Omero infatti (Il., XXIII, 740-749) parla d’un cratere fenicio proposto come premio da Achille nei giochi in onore di Patroclo. D’allora, fino alla fine dell’età romana, il cratere non cessò d’essere uno degli utensili indispensabili alla casa e, insieme, un arnese sacro offerto nei templi come dono votivo di gran pregio. Innumerevoli sono i passi di antichi scrittori che citano il cratere comune, gli esemplari preziosi d’oro e argento cesellato consacrati nei templi, o gli enormi crateri marmorei riccamente ornati posti a decorazione dei giardini romani (Plin., Epist., VI, 5,23).
Non abbiamo invece nessuna precisa determinazione della forma, cosìcché non possiamo distinguere il cratere dagli altri vasi che sappiamo essere stati adoperati per i medesimi scopi (dino, pito, stamno, celebe).
Si è convenuto pertanto di dare il nome di cratere a tre tipi di vasi di grandi dimensioni e ad imboccatura molto larga, usciti in gran numero dal suolo di Grecia e d’Italia.
Il primo, dal corpo agile che si apre come il calice d’un fiore è chiamato appunto cratere a calice; il secondo, dalle volute che nascendo dalle anse sormontano la bocca del vaso, è detto cratere a volute; e il terzo, dal corpo più largo, cratere a campana.
A questi si può aggiungere anche il cratere a colonnette (kelébe): provvisto di un paio di manici cilindrici per parte, uniti in alto da una piccola placchetta orizzontale congiunta all’orlo con cui forma un corpo unico.

Hydria
Grande vaso usato per attingere, contenere e versare acqua come il suo nome chiaramente suggerisce. Simile all’anfora si distingue da essa per avere oltre le due anse orizzontali, una terza, verticale, utile per sostenerla mentre si versa il liquido.

Kyathos (plurale kyathoi)
Specie di mestolo dotato di una cavità alta e capiente, con un manico ad anello lungo. Era utilizzato per attingere il vino dal cratere.

Lekythos (λήκυϑος, lecy̆thus)
Anche questa denominazione sembra si applicasse piuttosto a un tipo generale che a una forma particolare, e precisamente ad ogni recipiente a corpo grosso ed imboccatura sottile. In altri termini ad ogni vaso impiegato soprattutto per la conservazione di olii profumati ed altri unguenti adoperato per usi domestici, dagli atleti in palestra o nelle cerimonie funebri.
Nel linguaggio archeologico moderno, però, il nome di lekythos è riservato ai vasi per unguenti a collo lungo, mentre quelli a collo breve si sogliono chiamare ariballi.
Dato il suo carattere di oggetto di lusso, la lekythos assume forma e valore di oggetto d’arte prima e più compiutamente che le altre forme di vasi greci.
Il vaso lèkythos compare ad Atene già nel XII sec. a.C. ed è per questo uno dei vasi greci di più lunga continuità. Fu adottato dai ceramisti etruschi nel V-III sec. a.C..
La particolare forma di questo vaso ha permesso la sua riproduzione in vari materiali come, ad esempio, l’alabastro o il marmo.

Oinochoe
Brocca utilizzata per versare il vino o l’acqua o per prelevare i liquidi dal cratere. Se ne conoscono esemplari in metallo e in terracotta; questo tipo di vaso è stato utilizzato in tutte le epoche come si può desumere dalle diverse decorazioni presenti sui numerosi reperti: geometriche, orientalizzanti, a figure nere e figure rosse.

Pixys (plurale pyxides)
Piccola scatola cilindrica in ceramica, dotata di coperchio, con un diametro medio di 10 cm. Talvolta, all’interno di pyxides sono state trovate tracce di antichi cosmetici, mentre le decorazioni che le adornano riguardano prevalentemente scene di vita femminile.

Al torso dal Vaticano rimanda il tardo Minotauro pensieroso a matita blu (1958). Sembrano quasi una sovrapposizione a distanza le teste di Minotauro (a penna, 1937) e di Uomo barbuto (olio del 1938), ipotesi di identificazione da non escludersi alla luce dell’acquaforte su rame Autoritratto in tre forme: pittore incoronato, busto di scultore e Minotauro innamorato (1933).
Stessa tecnica, infine, per l’espressione di una dolente vicinanza dell’artista col suo alter ego nel Minotauro ferito VI (1933).
Costruzione più complessa, che riassume tutto quanto sin qui affermato, è la Minotauromachia: incisione calcografica all’acquaforte del 1935 in cui sono riuniti alcuni personaggi simbolo del repertorio iconografico di Picasso (che verranno riutilizzati anche in Guernica).
Sulla ribalta di una scena raffigurante un paesaggio marino nascosto per metà da un edificio squadrato, i protagonisti sono da destra verso sinistra: 1) il Minotauro cieco (che rappresenta Picasso); 2) il cavallo imbizzarrito; 3) la donna torero agonizzante (riversa sul dorso del cavallo) che si sta per trafiggere il corpo con una spada; 4) la bambina che con una mano sorregge una candela e nell’altra tiene un mazzo di fiori (purezza, ingenuità); 5) un uomo che fugge salendo una scala; 6) due donne (e una colomba) spettatrici della storia che si affacciano dalla finestra.
Strettamente intrecciata con le relazioni amorose dell’artista vissute in quel periodo, uno dei periodi più difficili della sua vita, la Minotauromachia presenta il dolore e la sofferenza dell’artista attraverso una mitologia personale. La fine del matrimonio con Olga, a causa della relazione con Marie-Thérèse, i cui visi ritroviamo nelle donne affacciate alla balconata, individua nella figura ambivalente dell’uomo-toro la metafora drammatica della vita di quegli anni (da Francesca Toso, Picasso, I classici dell’arte – Novecento, Rizzoli | Skira).
Una figura che, come si è visto per le incisioni della Suite Vollard e non solo, ricorrerà ancora molto spesso in tutta l’opera di Picasso a rappresentare la convivenza di una doppia natura in cui l’artista stesso si identificava: umana e razionale da una parte, bestiale e istintiva dall’altra.

Clima analogo a quello della Minotauromachia si respira in Fauno, cavallo e uccello: bella gouache dell’anno seguente (5 agosto 1936).

Gouache
Forma francese con cui è spesso indicata, anche in contesti italiani, la pittura a guazzo (intesa sia come tecnica sia come dipinto). Con l’espressione “dipingere a guazzo” o “con colori a guazzo” ci si riferisce ad una varietà di pittura a tempera in cui alla colla animale è sostituita la gomma, per cui ha minor corpo ed è di più rapida esecuzione rispetto alla tempera propriamente detta, fatto che la fa preferire, ad esempio, nella preparazione di scenografie.

La crisi con Olga si accentua, Marie Thérèse ha avuto una bambina e Picasso ha appena conosciuto Dora Maar. Tutto ciò si riverbera in cima ad un dirupo, sotto il quale le creste di altri scoscesi rilievi montuosi si estendono a perdita d’occhio: accanto ad una torre un cavallo terrorizzato calpesta con gli zoccoli delle zampe anteriori le ali di un uccello che grida al cielo il suo dolore. Accanto a loro la dolente sofferenza di un fauno, segnato al centro del petto dal segno rosso ocra di una ferita.

Con il Minotauro il Fauno, e forse ancor più il satiro, ha infatti in comune l’essere semi umano, uomo e animale. Ha orecchie, zampe e corna caprine, che nella tradizione cristiana sono attributi del diavolo e dunque lo fanno pensare al suo servizio.
Ed ecco quindi dipinti da Picasso anche fauni e satiri.
In “ritratti”, come la particolare Testa di fauno a spirale (1946).
A coppie o in piccoli gruppi con ninfe, centauri, uccelli e figure di uomini e donne: tracciati in disegni belli ed essenzialmente sintetici, fatti come sono di sole linee leggere, spesso su supporti altrettanto leggeri come la carta velina (1946), e fra i quali ritroviamo uno dei temi già visti nel Fauno seduto e ninfa dormiente.
Infine anche in scene più elaborate come il Baccanale a penna e inchiostro (settembre 1955) o il Concerto campestre (dicembre 1959) a matite, pastelli e acquerelli che ricorda La danza di Matisse.
Soggetti radicati nella processione dionisiaca, in cui il dio danza attorniato da satiri e menadi, raffigurata in antico su un Cratere a figure rosse ed una Pelike a figure nere di inizio III sec. a. C. esposti in mostra.

ALLA FONTE DELL'ANTICO: IL LOUVRE

“Da bambino disegnavo come Raffaello, ho impiegato tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino”

diceva di sé Picasso. In effetti suo padre José Ruiz (Picasso è il cognome della madre, Maria: di origini genovesi), insegnante di disegno, abbandona i pennelli quando vede come disegna il figlio: che a nove anni riproduce con abilità di artista compiuto un Ercole con la clava che la sua famiglia aveva in casa.
Da Malaga, a nord est di Gibilterra, dove nasce nel 1881, prima dei trasferimenti familiari ed individuali rispettivamente a Barcellona (dal 1895) ed a Madrid (per il solo inverno 1897-1898) dove consolida la sua arte ricevendo premi e venendo ammesso facilmente all’Accademia Reale San Fernando, Pablo comincia la sua formazione artistica a La Coruna, all’estremità nord ovest Spagna, sopra Santiago de Compostela.
Qui la sua famiglia trasloca nel 1891-1895 quando il padre prende servizio alla locale scuola d’arte, nella quale erano disponibili tanti gessi, copie della statuaria classica, che il giovane Pablo ridisegna dimostrando una precoce maestria nel disegno accademico e preferendo la virilità dell’arte romana all’estetica di quella greca.
Ne è testimonianza in mostra lo Studio di nudo su carta da zucchero grigia-azzurra del Satiro danzante (1895-6), che Picasso disegna a 14 anni rendendone alla perfezione movimento e chiaroscuro.
Possiamo renderci conto di ciò confrontandolo col marmo di analogo soggetto (100-200 d.C.) che gli è esposto accanto e proveniene dal Louvre. Alcuni lo identificano come discobolo. Ipotesi per noi non convincente, per la postura e perché i presunti dischi sono due, uno per mano, per un improbabile (a quanto ne sappiamo di questo sport) lancio multiplo. Osservando la scultura si vede inoltre che si tratta di due semisfere concave che fanno invece pensare a strumenti a percussione. Più precisamente al cembalo.

Cembalo (κύμβαλον, cymbálum o cymbála)
Strumento musicale costituito da due piastre metalliche di forma circolare, più o meno concava, e talvolta persino emisferica, che si suonavano percuotendole l’una contro l’altra. Potevano essere munite di manici o fori da cui si facevano passare nastri (come nelle odierne nacchere), mediante i quali erano impugnate e più facilmente utilizzabili dal suonatore (cymbalistes).
Il cembalo è uno strumento di origine orientale, ma che nel secolo V a. C. già era penetrato nella liturgia greca, come si desume da un frammento di Pindaro (framm. 48), da taluni esemplari in bronzo rinvenuti nel santuario di Zeus a Dodona, e da altri conservati in diversi musei e recanti iscrizioni con dediche a Cora, ad Artemide e ad altre divinità. Si tratta, in genere, di divinità che avevano relazione con i misteri dove talora questo strumento assumeva un significato simbolico.
In alcune rappresentazioni figurate i cembali appaiono talvolta appesi ad alberi sacri.
Dall’Oriente questo strumento fu poi introdotto anche nel mondo romano.
Il cembalo fu volto anche ad usi profani, e lo adoperavano danzatrici e suonatori girovaghi (agyrtai), come nel mosaico di Dioscuride del Museo di Napoli. I cembali costituiscono infine un motivo decorativo che ricorre assai frequentemente nella pittura murale.

Nonostante questa stupefacente abilità, complice anche l’invenzione, a metà del 1800, della macchina fotografica, per cui riprodurre esattamente la realtà non ha più senso o ragion d’essere, a conclusione del primo decennio del Novecento, ispirato dai suoi primi soggiorni temporanei parigini (fino al trasferimento definitivo) e dai contatti con gli artisti che vi operavano, assieme a Georges Braque si orienta verso il cubismo (poco rappresentato in mostra, come i precedenti periodo blu – 1901-03: tragico e legato al suicidio dell’amico pittore Carlos Casagemas – e rosa 1904-09: dedicato a soggetti più lievi, come il mondo del circo, anche se non privi di malinconia) che percorre in tre fasi: da quello analitico, con le figure riconoscibili, a quello sintetico, in cui la riconoscibilità comincia a perdersi, a quello astratto in cui sono del tutto illeggibili.

Inquieto nella sua arte come nella vita affettiva

“Un pittore non deve mai fare quello che la gente si aspetta da lui. Il peggior nemico di un pittore è lo stile.”

diceva Picasso, e continuava, critico verso i colleghi,

“La maggior parte dei pittori fabbrica uno stampo per le torte, e poi fa le torte. Sempre le stesse torte. Sono molto contenti.”

dopo il primo periodo cubista, nei primi anni Venti Picasso torna a opere di fattura classica nel suo cosiddetto periodo neoclassico, fatto di immagini sintetiche, con rese volumetriche monumentali e composizioni molto equilibrate.
A ciò non fu evidentemente estraneo il viaggio in Italia, fra Roma, Napoli e Pompei, compiuto nel 1917. Ne abbiamo testimonianza in mostra da cartoline e foto, come quella che lo ritrae con il coreografo Massine nelle rovine di Pompei nel marzo 1917: scattata da Jean Cocteau e che Dora Maar rielaborerà nel 1937-40 circa.
Con Massine e Cocteau, in questo periodo, collabora per spettacoli di teatro e balletti in occasione dei quali, come si è visto, conosce la sua prima sfortunata moglie Olga Chochlova sposata l’anno successivo.

Tornando all’arte, in questo viaggio visita i musei Vaticani, dove vede il torso del Minotauro che già abbiamo incontrato, ed il Museo Archeologico Nazionale di Napoli dal quale in mostra abbiamo un affresco raffigurante Marte e Venere (I sec. d. C.). La dea qui seduta, così come un’altra figura di profilo su una stele funeraria e le statuette tanagrine sono l’archetipo per l’olio su tela del 1920, Donna seduta, in mostra.
Del resto Picasso era stato chiaro nel dichiarare che la sua arte segue “il movimento della carne e del sangue attraverso il tempo”.
Siamo ai primi tempi della convivenza con Olga, che in questo quadro è ritratta - con mani e piedi enormi - pensosa e di tre quarti, quasi una letterale citazione, per postura e modo di trattare il drappeggio delle pieghe della sua veste, della statuetta nella vicina vetrina: Tanagrina seduta con tholia.

Le statuine di Tanagra
erano un tipo di statuette in terracotta greche prodotte dal tardo IV secolo a.C., principalmente nella città che ha dato il nome all’intera classe: Tanagra, nella Beozia orientale, regione della Grecia centrale che contiene anche Tebe e si trova a nord dell’Attica, la regione di Atene.
I soggetti raffigurati sono giovani donne, elegantemente vestite ed immortalate nell’immediatezza dei loro gesti quotidiani. In mostra è presente anche una figura in piedi (datata 325 - 200 a.C.) che ha in mano un ventaglio e, come l’altra, porta in testa la tholia: il caratteristico cappello di paglia a forma di cono.
(per chi volesse vederne esempi a Milano, purtroppo senza la caratteristica tholia, raccomandiamo una visita alla Casa Museo Poldi Pezzoli)

Sempre a questi richiami del passato, seppure meno immediatamente riscontrabili per lo stile pittorico tornato a scomporsi, è debitore il più tardo Nudo seduto su una sedia (1963), firmato in alto a destra e nel quale la figura è tracciata a linee verdi nella griglia nera che definisce la sedia su uno sfondo bipartito orizzontalmente fra la neutralità di parete grigio rosa e la dirompente intensità luminosa del pavimento giallo.

Completano l’assaggio del neoclassicismo picassiano La fonte e Donne alla fonte. Entrambe del 1921, sono accompagnate dai rispettivi antecedenti.
La prima, riconducibile all’estate di quell’anno, è uno sviluppo del giovanile studio sull’Ilissos del Partenone (1897): umanizzazione del dio fluviale Ilissos, la divinità che prende (o dà?) il nome del fiume che scorre ad est di Atene oltre il monte Pentelico e le successive colline che sorgono nella pianura.
Nella seconda ritroviamo invece le figure nere delle donne che portano elegantemente in testa anfore (un po’ come le modelle che si esercitano a camminare tenendovi in equilibrio un libro) dipinte su un’hydria del 510 a.C. e, negli atteggiamenti di quelle sedute, Elettra piangente sulla tomba del padre - il re di Micene Agamennone - come compare su un rilievo in terracotta in cui sembra richiedere al fratello Oreste il giuramento di vendicare l’assassinio commesso da Egisto istigato dalla madre infedele Clitennestra.

Clitennestra
Clitennestra, a sua volta figlia di Leda come Elena - poi sposa di Menelao ed origine della guerra di Troia - ed i Diòscuri – ossia “figli di Zeus” - Càstore e Pollùce (secondo alcuni Pollùce ed Elena erano figli di Zeus, mentre Càstore e Clitennestra erano figli del marito legittimo di Leda: il re di Sparta Tindaro), non aveva in effetti tutti i torti a sua volta volendo vendicare il sacrificio in Aulide della figlia primogenita Ifigenia, al quale Agamennone fu costretto per pagare un affronto che aveva rivolto ad Artemide.
Durante una battuta di caccia si era infatti vantato di essere un arciere migliore della dea. Per questa ragione, finché non avesse avuto soddisfazione, Artemide non avrebbe concesso di poter partire alla flotta greca che Agamennone stava guidando contro Troia.
In altre versioni del mito la dea si impietosisce e salva la giovane portandola come sacerdotessa nel suo tempio in Tauride.

Egisto
L’ostilità di Egisto con gli Atridi risale a quella dei rispettivi genitori, Atreo e Tieste, fratelli gemelli figli di Pelope (il conquistatore della penisola greca, che da lui prese il nome di Peloponneso, e figlio di Tantalo: il re di Lidia che tradì la fiducia degli dei ai cui banchetti era ammesso e dove servì carne umana) che si contendevano il trono di Micene sul quale si avvicendarono più volte a seguito di sotterfugi vari: come quello del vello d’oro che Tieste sottrasse ad Atreo con la complicità della moglie di questi, Erope (discendente di Minosse), che era innamorata di lui ed alla quale si concesse.
Siccome la storia, anche quella del mito, si ripete, anche Atreo, ad un banchetto al quale l’aveva invitato per suggellare una falsa riappacificazione, servì a Tieste la carne dei propri figli che aveva uccisi incurante del fatto che avessero cercato protezione nel tempio di Zeus.

A proposito della Tomba di Agamennone (conosciuta anche come Tesoro di Atreo), si può ricordare che è una maestosa tomba a tholos (ovvero con copertura a forma di cono, come evidente dalla radice del vocabolo, simile a quella dei copricapi delle tanagrine) situata nei pressi della Rocca di Micene, in Grecia e scavata dall’archeologo Heinrich Schliemann nel 1874-76.

Le tombe a thòlos (plurale tholoi),
che in greco antico significa cupola, sono monumenti funerari risalenti come tipologia alla tarda età del bronzo. Sono costituiti da un vano circolare, spesso sottostante ad un tumulo di terra e coperto con cerchi concentrici di blocchi lapidei a costituire una sezione più o meno ogivale.
Dopo il 1500 a.C. l’uso di questi monumenti si diffuse in una vasta area intorno al Mediterraneo. Tombe a tholos vennero realizzate in Egitto, in Sicilia e soprattutto in Grecia per opera della civiltà micenea.
Più in generale in archeologia si intende per tholos una sala circolare, a volte interrata e generalmente realizzata a scopo funerario, coperta con una pseudocupola formata da file concentriche di conci lapidei sempre più aggettanti verso il centro fino a chiudere il vano senza realizzare una struttura spingente come sono le vere cupole.

Concludono la sala “classica” della mostra un trittico di acqueforti del 1933 (fra cui le n. 51 e 53 dalla suite Vollard) tutte con riferimento all’attività di scultore di Picasso: Scultore a riposo con Marie-Thérèse e la sua effigie come Venere pudica, Lo scultore a riposo con la modella, anemoni e piccolo torso e Lo scultore e la sua modella con un gruppo scultoreo rappresentante un centauro che abbraccia una donna.

Del Louvre, che frequentava assiduamente, Picasso aveva seguito l’allestimento della sala di Diana ed il suo passaggio dalla versione prebellica, quando era affollata di opere d’arte, a quella successiva che la vedrà spoglia per concedere tutto lo spazio e l’attenzione necessari alla Kore di Samo ed ai Kuroi (di Azio) collocati al centro di essa. Anche questi tipi classici stimoleranno la fantasia di Picasso che ne rielaborerà a suo modo le forme.

Kòre (plurale kòrai, κόραι)
è il nome, derivato dalla traslitterazione del greco κόρη, che propriamente significa «fanciulla», con cui in archeologia è designato il tipo femminile arcaico, stante, vestito del costume ionico (chitone e imatio) o dorico-attico (peplo), creato dall’arte greca insieme con il tipo maschile (kùros) per le statue votive e funerarie; famosa è la serie delle kòrai della seconda metà del VI sec. a. C. trovate nell’Acropoli di Atene.

Chitone (χιτών - ῶνος)
Vestito di origine orientale introdotto in Grecia dagli Ioni, confezionato con un telo di stoffa leggera cucito come un sacco senza fondo, stretto alla vita da un cordone e fermato alle spalle da due fibbie, corto per gli uomini, lungo per i personaggi d’alto rango e per le donne.

Imàtio (o imàtion) (ἱμάτιον o εἱμάτιον, dim. di ἱμα o εἷμα «veste»)
Vestito di lana (più tardi anche di lino) originario e nazionale dei Greci antichi, di solito bianco, ma anche colorato o con fasce di colore lungo gli orli; consisteva in un mantello drappeggiato che, per lo più, partendo da una spalla, girava dietro il dorso e tornava sul davanti, ed era portato dagli uomini spesso come unico vestito, dalle donne sopra al peplo o al chitone.

L’Hera di Samo
è una scultura in marmo (h. 192 cm), databile al secondo quarto del VI secolo a.C. e conservata nel Museo del Louvre a Parigi. Si tratta di una delle sculture greche più antiche, dedicata alla dea Hera, nel santuario di Samo, da un membro dell’aristocrazia ionica di nome Cheramyes, come indicato dall’iscrizione incisa lungo il bordo del velo (epiblema).
Dal 1881 è conservata al Museo del Louvre dove è registrata con il numero di inventario Ma 686.
La κόρη (kòre), che rappresenta la dea Era o una giovane sacerdotessa che reca offerte al tempio della dea, è formata da una base cilindrica sulla quale si posa il busto nascosto da un himation dal quale esce solo un braccio (è pervenuta acefala e senza il braccio sinistro).
Le scanalature sul chitone e quelle sull’himation, da cui nasce l’idea della colonna scanalata del tempio greco, mostrano come la luce si identifichi con la materia nel momento del contatto con questa.
La statua riassume in sé tutte le caratteristiche della scultura ionica: la forma quasi cilindrica della figura viene enfatizzata dalle pieghe verticali e dritte del chitone ionico, mentre il mantello obliquo è animato dal movimento del braccio che viene portato al petto, attributo della dea.
Nonostante la forma cilindrica, simile a una colonna, la struttura compatta è ingentilita dalla sinuosità della linea di contorno ed i volumi suggeriti dalle vesti eliminano l’idea di immobilità, conferendo alla figura un’aria di ieratica maestà. La mano sinistra sollevata, scomparsa, in antico teneva probabilmente un dono votivo, in questo caso si pensa un melograno.

Samo o Samos (Σάμος)
è un’isola greca dell’Egeo orientale, ubicata tra l’isola di Chio a Nord, le isole del Dodecaneso, in particolare Patmo a Sud e poco lontano dalla costa della Turchia (l’antica Ionia). Dal punto di vista amministrativo costituisce un’unità periferica e comune nella periferia dell’Egeo Settentrionale. Samo è la patria di Epicuro, Aristarco, Pitagora ed Escrione.

Kouros
è un giovane in posizione eretta. La sua nudità evidenzia il corpo, esprimendo le forze fisiche e intellettive. In genere presenta testa eretta, braccia lungo i fianchi, mani con i pugni serrati e gamba sinistra in avanti, come per accennare un passo.
La parola kouros rimanda a un uomo nello splendore del suo sviluppo fisico e interiore, facendo nascere, così, il concetto di “kalos kai agathos”, ovvero bello e buono, che sarà il modello ideale della cultura greca.

Evoluzione di queste figure “stanti” sono frammenti di statue e statuette in marmo e terrecotte esposte in mostra e che rappresentano pastori - giovani imberbi o adulti barbuti - e divinità come Ermes che portano in braccio e in spalla varie specie di ovini come agnelli, arieti, pecore e capre.

Il motivo dell’uomo che porta un animale sulle spalle, un vitello (μόσχος - moschos) o un capretto (κριός - crios) compare nell’arte greca fin dal VII sec. a. C. (del resto le prime popolazioni che colonizzarono la penisola greca erano dedite alla pastorizia) ed ha una notevole diffusione sia, soprattutto, nel periodo arcaico, sia nei secoli posteriori e nell’ellenismo. Passando successivamente nell’arte romana ed, infine, in quella cristiana con la figura del buon pastore.

Moschophoros
Il moscoforo (e similmente il crioforo) è dunque di fatto un kouros con un vitellino sulle spalle e rappresenta un giovane con l’intenzione di portare al tempio una sua offerta o di ricevere l’animale come premio ad una gara.
Le braccia dell’uomo e le zampe della bestiola formano una grande X, conferendo una simmetria dell’insieme: questa tecnica scultorea è basata sull’andamento degli arti secondo il chiasmo χ, una lettera dell’alfabeto greco.
La testa del vitello, le braccia e la gamba sinistra in avanti dimostrano la frontalità della scultura, che costituiva l’elemento tipico di queste raffigurazioni.
L’uomo non è nudo, ma porta una chlaina, un mantello posto sopra il chitone, che mette in risalto la muscolatura maschile.
La sua testa è di forma ovoidale e presenta i capelli ondulati raccolti in trecce, una barba liscia senza i baffi, gli archi del sopracciglio, le labbra, l’ombelico e le perline sulle trecce; vi è inoltre il sorriso arcaico, una caratteristica tipica delle sculture greche, che, in questo periodo, non hanno la funzione di esprimere i sentimenti del personaggio raffigurato.
Questi dettagli sono stati realizzati con estrema cura e grande tecnica, ricorrendo a figure geometriche semplici.
Alcune di queste sculture, come noto, mostrano tracce di colore sugli occhi, sui capelli, sul corpo e sul vitellino. Ciò dimostra che, in origine, venivano dipinte, come se venissero utilizzate come oggetti votivi o rappresentazione di dei o di defunti. Il principale esempio di moscoforo arrivato ai nostri giorni è oggi conservato ad Atene nel Museo dell’Acropoli.

È dunque questa statuaria dei portatori di agnelli o vitelli che Picasso recupera, nel bronzo di Uomo stante (1932) e nello Studio per uomo con agnello, a penna e inchiostro (1943), in cui non manca il sorriso arcaico ed enigmatico al quale sopra si è accennato. Dunque un nuovo tema ricorrente rinvenibile anche in fanciulli del suo periodo rosa e nell'altro tema ricorrente di fauni o altre figure con un capretto.

IL LOUVRE DI PICASSO: TRA GRECI, ETRUSCHI E IBERICI

“Io non mi evolvo, sono. In arte non c’è né passato né futuro. Chi vede correttamente la forma umana? La fotografia, lo specchio o il pittore?”

Afferma perentoriamente, e retoricamente domanda, Picasso. Ed aggiunge:

“Arte non è applicazione del canone della bellezza, ma ciò che istinto e cervello elabora dietro ogni cosa. I geni sono rari: complicare le cose in modo nuovo è facile. Vedere le cose in modo nuovo è molto più difficile”.

Qual è la fonte di ispirazione per Les Demoiselles d’Avignon? Opera del 1907 considerata il quadro che dà avvio alla stagione del cubismo ed in cui sono dipinte cinque prostitute in un bordello di calle Avignon, a Barcellona. A questa domanda si prefigge di rispondere la quarta sezione della mostra “il Louvre di Picasso, tra greci, etruschi e iberici” argomentando artisticamente nelle diverse sale in cui è suddivisa.

Dal 1904 al Louvre era stata allestita la sala iberica che Picasso, abituale frequentatore del museo ben conosceva. In più, nel 1906, in compagnia di Fernande, aveva visitato un villaggio spagnolo incastonato lungo i Pirenei, Gósol, dove aveva conosciuto la statuaria iberica preromana, che non badava alle proporzioni, alla prospettiva o all’armonia. Scoperta quindi non estranea, secondo alcuni storici dell’arte, alla nascita del nuovo concetto estetico il cui nome deriva dal severo giudizio di Matisse, che stigmatizzò i paesaggi di Braque definendoli «composti da piccoli cubi», ripreso anche dal critico Louis Vauxcelles quando parlò di «bizzarrie cubiste» riferendosi ai lavori degli animatori di questa corrente espressiva.

Fino agli anni ’90 dell’Ottocento questi manufatti in bronzo erano poco considerati. Si trattava principalmente di ex voto: statuine di oranti dei secoli dal IV al II a.C. raffiguranti personaggi in preghiera o che portavano offerte.
Picasso ne possedeva un’ampia raccolta che venne scoperta alla sua morte in un armadio nella sua villa di Cagnes.
Da questa sua collezione in mostra è esposto un campionario diversificato per differenti caratteristiche.
Dall’abbigliamento: assente o costituito da corte tuniche, veli, copricapi a mitria anche in varie combinazioni fra questi elementi.
Alla postura, principalmente definita dalle braccia disposte in tre posizioni: a squadra verso il basso come ballerini di break dance, distese in avanti con le palme aperte verso l’alto come per la preghiera del Padre Nostro nelle chiese cattoliche di rito ambrosiano, infine distese lungo i fianchi.
Accompagnano questa selezione altri tre piccoli bronzi di oranti.
Due che definiremmo “tipo missile” in cui si riconoscono a malapena il viso e la mitria calzata sulla testa mentre il corpo è un’unica forma piatta e allungata.
Il terzo invece con tutti gli arti ben distinti, così come anche la tunica e la sua decorazione (o forse una collana) attorno al collo, appoggia al petto la mano sinistra aperta mentre non è chiaro cosa faccia con la destra.

A queste, come a figure analoghe relizzate dall’arte etrusca, di cui si è vista in mostra un Bronzo di donna orante (125-75 a.C.) con gli avambracci protesi in avanti, completamente e strettamente avvolta dalla tunica e tanto esile ed esageratamente allungata nelle proporzioni verticali quando viceversa erano tozze le corrispondenti iberiche, Picasso si ispirò realizzando più di 90 opere lignee. In mostra ne vediamo tre del 1930: due donne sedute ed una stante, in legno di abete e che fanno immediatamente pensare alle sculture ed alle figure dello svizzero Alberto Giacométti (Stampa, Grigioni, 1901 - Coira 1966).

Altra diretta corrispondenza con l’arte etrusca, nello specifico uno specchio del 350-300 a.C. col Giudizio di Paride, sono i Tre nudi (primavera 1907) incisi e tracciati a matita su un disco con manico in legno di faggio.

Paride (Πάρις)
Mitico eroe di origine frigia, figlio del re di Troia Priamo e di Ecuba, causa prima della guerra e della caduta della città. Dopo un sogno premonitore, avuto durante la gravidanza (le era parso di generare una fiaccola che appiccava il fuoco al palazzo reale), Ecuba fece esporre il neonato sul Monte Ida.
Raccolto dai pastori, Paride fu da essi allevato e chiamato Alessandro. A lui si rivolsero le dee che si contendevano il primato della bellezza: Era, Atena e Afrodite. Che nel giudizio fu favorita avendogli promesso la più bella donna del mondo, mentre Era gli aveva offerto il dominio dell’Asia ed Atena saggezza e invincibilità in battaglia.
Ritornato poi a Troia per una gara, Paride vinse i fratelli e fu riconosciuto da Cassandra e dal padre Priamo che lo accolse nella reggia.
Recatosi a Sparta, con l’aiuto di Afrodite riuscì a sedurre e a rapire Elena.
Durante la guerra di Troia che ne seguì, combatté come arciere; ma nell’Iliade è presentato per lo più come dedito al canto e all’amore. Le azioni più importanti che il poema omerico narra di lui sono il duello con Menelao ed il fatto che, con una freccia diretta da Apollo, uccise l’invincibile Achille colpendolo nel suo unico punto vulnerabile, il tallone, prima di essere a sua volta ucciso da una freccia scoccata da Filottete.

Ai visi dei tre nudi, come ai volti delle Demoiselles d’Avignon, sembrano non essere estranee anche due teste in pietra calcarea, di uomo e di donna con fattezze orientali (IV - III sec. a.C.).
Picasso ne era entrato in possesso acquistandole dal segretario di Guillaume Appollinaire, che le aveva rubate al Louvre. Dove sono poi rientrate dopo che, durante le indagini per il furto della Gioconda, viene scoperta anche questa sottrazione “minore”.

Spostandosi ancor più verso oriente, alla ricerca della fonte ispiratrice delle “Demoiselles” percorrendo le grandi penisole che si protendono nel Mediterraneo dalla sua sponda settentrionale, arriviamo a trovare non più ipotesi ma certezze condivise nelle ceramiche del Dipylon: impropriamente identificato in mostra come il quartiere dei vasai di Atene. Questo per la verità era il Keramikos, che si trovava nel centro nord della città.
La porta monumentale del Dipylon dava invece l’accesso ad una necropoli dove però sono stati trovati vasi ai quali inequivocabilmente si ispirano i disegni preparatori per le Demoiselles.

Dopo una testa ed una statuetta a figura intera in terracotta di donne dalla capigliatura scarmigliata e piangenti (325-300 a. C.), la seconda con le braccia protese davanti a sé, arretriamo nel tempo e troviamo altre donne in pianto.
Dapprima un’altra statuetta in terracotta di Donna piangente (625-600 a.C. circa) che, disperata, porta le mani alla fronte, ed infine, due frammenti di cratere in stile geometrico con figure nere piangenti (750-725 a.C.) in cui le braccia sono incrociate sopra la testa con i gomiti alti.

Siamo così giunti ad una delle soluzioni cercate. Facendo proprio questo schema delle “demoiselles del Dipylon”, anche Picasso, in modo sintetico e geometrico, riduce la donna a pittogramma caratterizzato dalla vita a punta di triangolo e con le braccia in una posizione che già abbiamo incontrata nelle prime sale e che l’artista amava evidentemente molto ed assegna a due delle cinque Demoiselles d’Avignon (e parzialmente ad una terza).
Lo dimostrano tutte le opere presenti in questa sala. Innanzitutto due figure in piedi: l’olio su tavola Piccolo nudo di spalle con le braccia alzate (studio per Les Demoiselles d’Avignon) (1907) e lo Studio di nudo con volto ieratico e le braccia incrociate al di sopra della testa (1908) a penna e inchiostro seppia su carta da spolvero beige.
Meno chiaro è, in questo contesto (perché, viceversa, è evidente la sua somiglianza con la donna all’estrema destra delle Demoiselles), il senso della presenza di un Piccolo nudo seduto (olio su tavola dell’estate 1907) nella curiosa posa di una donna che tiene in mano un piede.

Ritorna invece prepotente la citazione dell’antico nelle due, più tarde (del 1946), coppie di disegni a matita su carta velina. La fila di figure in Studi di nudo con le braccia al di sopra della testa e Nudi di profilo, del 22 giugno, uno angoloso uno con linee morbide.
E le figure isolate dei due Nudi stanti, di pochi giorni successivi (28 giugno), nei quali 3 sole linee sottili, tracciate in colori diversi, verde, rosso, giallo e viola, ed ancorate su una base, rispettivamente rossa e blu, sono sufficienti per rendere l’idea di quel che rappresentano.

Uno svuotamento delle forme riscontrabile, e portato ancor più all’estremo, spostandosi geograficamente ancora più ad est, nel Mare Egeo, fino ad un arcipelago costituito da circa 220 isole, di conformazione montuosa e dalle coste alte e frastagliate, situato fra Peloponneso e Dodecaneso: le isole Cicladi.

Cicladi (Κυκλάδες)
Il nome di queste isole deriva dal vocabolo greco κύκλος che significa «cerchio» ed identifica la parte centrale dell’arcipelago egeo alludendo, in origine, alla posizione di queste isole: disposte in tre serie concentriche intorno a Delo (Rēneia), che in realtà è invece piuttosto eccentrica ma che, nell’antichità, era considerata il loro centro religioso.
La denominazione è in opposizione a Sporadi (“disseminate”), con cui si intendevano tutte le altre.
Talora le Cicladi furono dette, semplicemente, isole (νῆσοι), o anche Dodecanneso ed il numero delle unità di cui si riteneva composto l’arcipelago variò secondo i tempi.
Le isole principali sono Andro, Tino, Amorgo, Nasso e Paro. Di queste ultime due sono noti i marmi, così come le pozzolane di Santorino: materiale piroclastico incoerente, emesso dal vulcano nella fase esplosiva e come tale costituito principalmente da piccolissimi granuli vetrosi, più o meno porosi, a cui si accompagnano piccoli cristalli di minerali diversi.

A partire dal III millennio a.C. nelle Cicladi si sviluppò una fiorente civiltà, di ispirazione anatolica, che si è poi evoluta in forme proprie, le cui fasi sono rintracciabili in particolare a Melo, dove sono state messe in luce tre cittadelle successive (le ultime due fortificate) e dove sono state ritrovate ceramiche minoiche.
Le necropoli delle isole mostrano varietà di strutture: le isole meridionali presentano per lo più tombe a cista per seppellimenti collettivi, in quelle settentrionali sono più numerose le sepolture individuali in tombe a grotticella. La massima fioritura della civiltà cicladica è databile a poco prima del 2000 a.C..

Caratteristica di questa civiltà è la produzione di statuette, in marmo di Nasso e Paro, raffiguranti figure femminili stanti e a braccia conserte, secondo una concezione astrattizzante della figura bidimensionale dalle superfici lisce e polite, totalmente scevra di particolari anatomici, il cui volto è una superficie ovoide dove è accennato il naso.
La maestria esecutiva si avverte anche nell’elegante lavorazione dei vasi in pietra, pissidi, brocche a becco obliquo, askoi, ornati a incisione con spirali ricorrenti o a spine di pesce.
Tipici di questa civiltà sono i dischi fittili muniti di manico (cosiddette ‘padelle’), decorati sulle superfici con complicati motivi geometrizzanti, in alcuni dei quali sono inseriti anche motivi figurativi.
Intorno alla metà del II millennio a.C.  la civiltà cicladica perde ogni caratteristica autonoma per entrare definitivamente a fare parte del mondo miceneo.

Forme femminili dunque disprezzate, da parte degli scultori delle Cicladi, le cui donne sono simili alle dee antiche ma con tratti identificativi appena accennati per cui, svuotate dalla loro pienezza, non rappresentano più la fecondità: non hanno più ventre e sono stilizzate come puro segno.
Di tutto ciò in mostra vediamo:
due statuette femminili in marmo a braccia incrociate appartenenti al gruppo di Syros e corrispondenti ai tipi Chalandriani (testa e corpo a triangolo con la punta in basso e braccia appena accennate) e Spedos (testa ovale, corpo più realistico e maggiore evidenza di braccia e gambe);
una testa (gruppo di Syros, tipo Spedos) ridotta a semplice ovale su cui risalta solo il rilievo del naso;
ed una statuetta tipo Kusura, priva di qualsiasi riferimento fisico.

Tutti marmi risalenti al 2700-2300 a.C. ai quali fanno seguito esempi di come quest’arte si è evoluta col trascorrere dei secoli perdendo la sua specificità e venendo assorbita dalla cultura micenea.
Innanzitutto una Statuetta micenea del tipo a Phi (1325 a.C. circa) in terracotta dipinta con semplici linee sinuose che ne seguono le forme. Poi ancora altre due terrecotte con pitture più elaborate e definite.
Un Idolo campana in stile geometrico (700 a.C.), sul cui collo, sempre esageratamente allungato, si notano evidenti tre piccole svastiche (antico simbolo del sole) che ruotano in senso opposto a quello che conosciamo dal simbolo del nazismo, con preziose decorazioni della veste, al cui bordo inferiore scorre una teoria di figure femminili ed al di sotto delle quali spuntano due esili gambette: anch’esse accuratamente dipinte per mostrare i lacci di cuoio che fasciano i polpacci e fissano le calzature.
Ed una Statuetta piatta con testa a becco d’uccello (560-550 a.C.) dipinta con forme geometriche sul corpo (informe e sagomato come per rendere comodo impugnarlo) e con figure umane sedute sul busto all’altezza delle spalle.

Di questi manufatti d'arte Picasso dirà che “per tutti sono brutti idoli a violino” mentre lui li ammira e, come raccontando una favola, ne dice

“c’era una volta un omino delle Cicladi che credeva di fare una dea. Non resta nulla di lui ma ha voluto una scultura”.

Ed André Malraux (Parigi, Francia, 3 novembre 1901 - Créteil, 23 novembre 1976) in “Picasso. Il cranio di ossidiana” Meditazione sulla morte di Picasso e sulla vita delle Forme gli attribuisce queste parole:

“Solo nell’omino scultore di quelle isole c’è l’audacia che non ho visto in Brancusi. Mai nulla di altrettanto essenziale”.

Tutti questi riferimenti, ex voto iberici, pitture vascolari e statuette cicladiche, sono contenuti nel Nudo seduto su fondo verde, pittura oleoresinosa su piastra centrale del 1946.
A prima vista non immediatamente riconoscibili, così come le forme del corpo umano. Ma a ben guardare, dopo un po’ che si osservano i suoi dipinti - inclusi quelli di meno immediata lettura - e, per così dire, “ci si fa l’occhio”, si impara anche a riconoscere il modo in cui Picasso stilizza la testa, il busto, le gambe…
Anche lui in fondo, per quanto, come si è letto, rivendichi la sua originalità e rifugga l’essere incasellato in uno stile ripetitivo, una sua “tipica maniera” in definitiva la ha!

Ancora un decennio dopo, l’osservazione di questi idoli e forme d’arte primitive lascerà il segno in altre sculture di Picasso, anch’esse altrettanto essenziali ed analogamente dipinte ed incise sul corpo come i tre Bagnanti dell’estate 1956, costruiti con parti di mobili ed altri materiali di recupero prima di realizzarli in bronzo. Di questi sono presenti in mostra L’uomo con le mani giunte e L’uomo-fontana, mentre, al momento in cui l’abbiamo visitata, La tuffatrice era forse rientrata al Musée National Picasso di Parigi, o già ripartita per altra mostra temporanea.

Piccola appendice di questa sezione è una considerazione sulla generale convinzione, sulla quale effettivamente non si può che concordare, che l’arte di Picasso, così come quella di diversi suoi colleghi a lui contemporanei, abbia ascendenze nell’arte nera africana.
Accostamento che tuttavia l’artista rifiuta: sostenendo la sua autonomia artistica sulla base del fatto che

“Nessuno ha mai realizzato un naso di profilo su un volto di fronte, nell’arte nera avete mai visto maschere di fronte con il naso di profilo?”.

ANTROPOLOGIA DELL'ANTICO

Al contrario dichiarava

“Cerco sempre di fare quel che non sono capace di fare per imparare come farlo”.

Volontà che gli vale la definizione di artista proteiforme: che può prendere qualsiasi forma, ovvero abile in ogni tecnica.

Le ultime sale della mostra ci presentano allora la relazione di Picasso con ceramica e terracotta. Come si è sin qui visto, sebbene non abbia mai visitato di persona la Grecia, le forme e le figure dell’arte di questa terra hanno sempre irresistibilmente attratto l’artista andaluso che le ha trasposte in pittura e scultura.
Mai però, prima del 1946, nella materia alla quale dobbiamo le uniche testimonianze arrivate ai nostri giorni della pittura greca: la ceramica.
Per il pittore, ormai affermato e di età non più giovane, l’occasione di accostarsi anche a questa tecnica arriva infatti nell’estate di quell’anno quando, a Vallauris (comune nel dipartimento delle Alpi Marittime, nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra, a nord-est di Cannes), conosce Suzanne Douly (Lione, 13 gennaio 1905 - 12 giugno 1974): una celebre ceramista più nota, in questa veste, col cognome del marito Georges Ramié.

CURIOSITÀ

È curioso come gran parte degli articoli in rete che trattano di questa parte di mostra scrivano il cognome da sposata di Suzanne aggiungendovi un’inesistente “r” finale!
Errore chiaramente indotto dall’esigenza di rapida scrittura e pubblicazione, che fa ritenere pratica superflua il verificare con un minimo di accuratezza quel che si scrive, non accontentandosi dei copia-incolla: efficacissimi nel propagare errori.
Qualcuno potrebbe obiettare che “al lettore o al visitatore della mostra non interessi poi tanto se Suzanne si chiamasse Ramié o Ramier”.
Noi siamo convinti che, invece, almeno ai lettori de L’Eclettico questo interessi, e per questa cura editoriale lo premiano numerosi dedicandogli il loro tempo e la loro attenzione.

Picasso scopre dunque l’atelier Madoura (acronimo composto dalle prime lettere dei nomi della bottega e degli artisti che vi lavorano: “Maison Douly e Ramié”) e considera Suzanne sua maestra nella lavorazione dell’argilla. Oltre al lato artistico l’atelier Madoura è per Picasso un luogo importante anche dal punto di vista affettivo. È qui, infatti che, dopo un soggiorno in Africa col suo primo marito (l’ingegnere André Hutin) e la separazione da lui con ritorno in Francia, nel 1950, accetta di venire a lavorare Jacqueline Roque, cugina di Suzanne che diventerà la seconda moglie di Picasso.
I due si incontrano nel 1952, e risulta che Pablo abbia corteggiato Jacqueline disegnando col gesso una colomba sulla sua casa e portandole una rosa al giorno finché lei, sei mesi dopo, non accettò di concedergli un appuntamento.

“Principale nemico della creatività è il buon senso”,

affermava Picasso, desideroso di una totale libertà espressiva. Libertà che la ceramica gli accorda: diventando un ricettacolo di emozioni nel gioco di manipolazione dell’argilla; che dall’iniziale forma cilindrica può essere torta e lavorata assimilando la vita dell’artista ma nella quale, dopo la cottura, viene fermata una traccia irreversibile del suo segno.
Il risultato sono le oltre 4000 opere in ceramica, vasi, anfore, piatti, piastrelle, ma anche figure di grandi dimensioni… che realizza negli anni seguenti; riprendendo Greci, Etruschi e Romani per soggetti e forma dei supporti: che sempre però rielabora autonomamente nella decorazione.

In mostra ne troviamo un discreto campionario che, purtroppo, a nostro avviso, appare per lo più esposto secondo un criterio che sembra più adattarsi alla conformazione degli spazi disponibili anziché consentire al visitatore una più logica ed agevole comprensione d’insieme.
Per quanto possibile proviamo allora ad offrirne qui una personale rilettura: riordinandolo in primo luogo cronologicamente ma tenendo anche conto di tipologie ed affinità di soggetti e, sempre, mantenendo il confronto con i riferimenti dal passato.

Due piatti da pesce greci, con tre grossi pesci l’uno (360-50 a.C.), e con pesci, piovra e conchiglie il secondo (340-20 a.C.), di cui si possono vedere esemplari anche al Civico Museo Archeologico di Milano, nell’arte di Picasso diventano innanzitutto un dipinto: La granceola (1940).
Una “natura morta” ambientata sul banco di un pescivendolo: fuori scena ma del quale si vedono le braccia – dall’aspetto di arti meccanici – che stanno pesando un grosso pesce tondeggiante su una stadera.
Più sotto un’altra varietà di pesce, di forma invece allungata e dalla bocca irta di denti, ed un intreccio di tre anguille blu.
A dettare il titolo è però, appunto, la granseola, o granceola: un grosso granchio dal carapace a forma di cuore con lunghe zampe che terminano con robuste chele. Questo squisito crostaceo (conosciuto anche come spider crab o granchio ragno) - particolarmente apprezzato per il suo sapore delicato viene solitamente utilizzato in cucina per arricchire primi piatti o raffinati antipasti -, scomposto in triangoli ed altri poligoni irregolari gialli, rossi e bruni, sembra quasi librarsi e roteare nell’aria come un sole dai raggi dardeggianti nel cielo.

Molto più tardi (del 1957) sono un piatto spagnolo in ceramica con un grande occhio al posto dell’omphalos (l’incavo dove si raccoglievano le salse e i condimenti) e cinque sagome nere di tori disegnati attorno in senso antiorario. La decorazione (a ingobbio e incisioni sotto invetriatura parziale a pennello) è presente, con una testa di toro, anche sul retro.

Decoro a ingobbi
Gli ingobbi sono dei colori fatti con argille che vengono prima essiccate, poi mescolate ad acqua e infine finemente setacciate in modo da ottenere un liquido abbastanza denso. Questo liquido colorato andrà applicato agli oggetti in argilla finché sono ancora allo stato crudo, comunque si possono applicare anche su oggetti già secchi o addirittura cotti, in questo ultimo caso l’ingobbio andrà molto diluito.
Lavorando con gli ingobbi può sorgere il problema del ritiro eccessivo che potrebbe far sì che l’ingobbio in fase di essicazione si stacchi dal supporto, perciò è sempre meglio provare su dei cocci le compatibilità tra ingobbi ed i supporti che si vorranno usare.
Altra tecnica per avere degli ingobbi colorati è quella di aggiungere a un ingobbio bianco dei coloranti come ossidi o colori per ceramica.

Sullo stesso soggetto, poco distante, dipinta in nero su bianco, è un’anfora-toro con banderillas gialle (17 aprile 1957). Realizzazione pratica degli schizzi per tori, studi di ceramica (matita su carta) e, chissà?, debitori – piatto e anfora – alla statuetta in marmo raffigurante il Ratto di Europa sul toro (475-450 a.C.), episodio già sopra ricordato, o all’affresco del supplizio di Dirce (40 d.C.).

Dirce (Δίρκη)
Moglie di Lico, re di Beozia, per molti anni tenne prigioniera come schiava Antiope: sulla quale il mito non indica con certezza se fosse figlia (o moglie) del medesimo Lico o di suo fratello, Nitteo, signore di Tebe, o, ancora, del dio fluviale Asopo.
Amata da Zeus, per la circostanza mutato in satiro (o da Epopeo, re di Sicione), venne resa madre dei gemelli Anfione e Zeto che, per salvarne la vita, abbandonò sul monte Citerone, dove vennero trovati e allevati da un pastore.
Perseguitata da Lico e Dirce, dopo molti pericoli, riuscì a fuggire presso i figli, dai quali venne riconosciuta quando stava per essere uccisa legandola alle corna di un toro selvaggio.
Dopo averla liberata i gemelli la vendicarono ponendo al suo posto Dirce, di cui fecero strazio e gettarono infine il cadavere in una fonte che da lei prese nome.

Un secondo piatto a figure rosse con testa di donna di profilo (350-325 a.C.) di provenienza greca, è invece il collegamento con il frammento di terracotta sul quale Picasso ritrae Françoise con chignon floreale in sembianze di antica etrusca (o greca).
Datato 14 settembre 1950, è coevo ad una serie di altri manufatti in mostra, quasi tutti realizzati nell’ultimo periodo di convivenza con la donna (dai testi della mostra erroneamente definita moglie, ma che sappiamo non esserlo stata).

Fra i loro soggetti troviamo uccelli.
Come il Gufo rosso striato (22 febbraio 1953), versione molto semplificata e schematizzata dei due splendidi reperti che lo accompagnano: uno Skyphos a figure rosse raffigurante una civetta (470-440 a.C. circa) ed un Aryballos a forma di civetta (640 a.C. circa).
Ed un porta fiori a forma d’anatra (1950-1951), molto somigliante, anche per la presenza del manico a ponte, con l’askos a forma di anatra (330-310 a.C. circa). Su di esso si notano i fori di sfiato per la cottura, che Picasso mantiene affinché questi vasi siano inutilizzabili come oggetti ed assolvano all’esclusiva funzione di “pura” opera d’arte. Curiosa poi, lateralmente in corrispondenza delle ali, la presenza di due grandi mani, come fossero quelle di una persona che afferra l’anatra dal basso.

Ad una sintesi fra una Kore (550 a. C. circa) ed una Placca votiva raffigurante una dea che indossa un polos (640 a. C. circa) è riconducibile la Donna con la mantiglia (1949): pezzo tornito e modellato in argilla bianca con decorazione a ingobbio dove la mantiglia spagnola prende il posto dell’antico polos: ornamento per la testa, chiuso nella parte superiore, di forma e altezza variabili, sferico e cilindrico ma anche quadrangolare, introdotto dall’Oriente nel mondo greco antico, dove appare come copricapo caratteristico di alcune divinità, soprattutto femminili, o di donne impegnate in cerimonie di culto.

Una brocca smaltata con nudo e vasi fioriti (11 gennaio 1954) è il tramite che, sfuttando l’analogia fra la forma di un vaso e le forme femminili, dà corpo ad un’altra visione di Picasso che, sul tema, dice:

“Prendo un vaso e ne faccio una donna usando una vecchia metafora la sfrutto in direzione opposta, le do nuova direzione e vita”.

È così che il vaso tripode dell’antico “pittore di Monaco” (2300 - 2000 a.C.) sembra essere l’esatto modello per un’assorta terracotta sulla cui lucida superficie bianca, attorno al manico - naso, Picasso dipinge Volti di donna (1950) con grandi occhi sbarrati e trasforma i due “piedi” anteriori in gomiti ed avambracci sulle cui mani, aperte a coppa, il volto appoggia il mento.

Infine viene ancora dalla tradizione Attica di pentole e pignatte il rosso dell’argilla su cui risalta il disegno a matita del Frammento di pignatta decorato con un viso (1950). Una specie di falso reparto archeologico come il coccio di vaso in terracotta su cui Picasso dipinge le Figure antiche (settembre 1950) di uomini-satiri che sembrano essere la riproduzione di un frammento della decorazione di uno Skyphos raffigurante menadi e satiri (350-325 a.C.) inframmezzati da un festone floreale dal quale pendono grandi tralci d’uva.

Una scena dionisiaca presente anche nelle figure di donne su altri due vasi. Il piccolo Baccanale (giugno - 25 agosto 1950) ed il grande Vaso con danzatrici o Baccanale (24 luglio 1950) a figure rosso beige su fondo bianco dove una donna balla facendo ondeggiare i lunghi capelli mentre due musici suonano rispettivamente i flauti diritto e traverso ed un terzo uomo acrobata fa la “verticale” reggendosi, a testa in giù, sulle mani.

Continua la serie musicale un musico seduto a gambe incrociate che suona il flauto a due canne e con in testa una corona d’alloro. Presente però come bozzetto in legno di medie dimensioni e non nella definitiva terracotta del 1956, come indicato sulla vetrina. Forse l’originale che era inizialmente presente è stato rimosso senza correggere la didascalia.

Scendendo nelle dimensioni, ma non proporzionalmente in qualità artistica, anzi (!), ritroviamo questa stessa figura praticamente identica (tranne in un caso in cui è di profilo e, trascinato dalla musica che suona, solleva verso l’alto la testa e lo strumento) in tre piastrelle realizzate nei primi mesi del 1957 dove è ancora protagonista il baccanale di ascendenza etrusca.
Nella prima, quadrata (16 gennaio 1957), ad ascoltarne le note c’è un astante, appoggiato ad un muro, nel quale scorgiamo qualche somiglianza con i Dioscuri degli affreschi presenti ad inizio della stessa sala (dei quali non siamo riusciti a trovare altro nesso con le opere di Picasso in mostra).

Diòscuri
Rispetto a quanto già di loro si è sopra scritto, Càstore (in greco antico: Κάστωρ, -ορος - Kástōr, in latino: Castōr, -ŏris) e Pollùce o Polideuce (in greco antico: Πολυδεύκης, -ους - Polydéukēs, in latino: Pollūx, -ūcis) sono conosciuti anche come Càstori. Erano considerati protettori dei naviganti nelle tempeste marine e sempre uniti nel compiere le loro gesta. Vengono talvolta considerati anche patroni dell’arte poetica, della danza e della musica ed ognuno di essi aveva una propria specificità: Pollùce era valente nel pugilato mentre Càstore era domatore di cavalli, quindi, vista la presenza dell’animale in entrambi gli affreschi in mostra, è sempre lui la figura ritratta.

Passando alla seconda piastrellina, di forma stavolta ad esagono irregolare (con più lunghi i lati paralleli superiore ed inferiore) e datata sul fianco 28 gennaio 1957, un danzatore si inserisce fra chi suona e chi ascolta, sulla destra del quale la scena si amplia con un interno dal quale una finestra permette di vedere fuori.

Infine sulla terza (6 marzo 1957), di forma identica alla precedente, il danzatore non è più frontale ma di spalle (a tre quarti), il musico si sposta sul lato opposto e si presenta di profilo, e ne prende il posto un bevitore semisdraiato che inneggia ai compagni sollevando il boccale.

La tecnica con cui tutte sono realizzate è una decorazione a pastello e ingobbio nero sotto invetriatura, con superfici graffite e incise su argilla chamottata rossa.

Argilla chamottata
All’impasto di argilla, che per essere considerato refrattario deve resistere ad alte temperature, fino a 1500° C, di solito viene aggiunto un riempitivo, in francese detto “chamotte”, che consiste in un impasto già cotto e macinato. Questo aumenta di molto la sua porosità e la sua resistenza allo shock termico, inoltre ha minore tendenza ad “imbarcarsi” ed a rompersi durante l’essiccamento; temendo poco anche la presenza di piccole bolle interne.
Tutte queste qualità, unite alla ottima plasticità lo fanno molto adatto alla preparazione di grosse sculture anche da esterno. Molto usato anche come rivestimento di stufe data, oltre alla sua resistenza agli sbalzi termici, anche la capacità di trattenere ed immagazzinare calore.
Ha però una scarsa decorabilità con colori sotto la superficie cristallina, sia per il suo colore sia per la sua notevole ruvidezza, comunque anche a questo si può ovviare con la preparazione di una buona base a ingobbio o a maiolica.
Si presta bene invece al decoro a smalti e ossidi.

Consapevole di queste specificità Picasso con questa medesima tecnica realizza gli altri due suonatori di flauto in mostra: entrambi del 1958 e molto grandi.
L’uno, frontale in piedi suona il flauto a una canna, l’altro seduto, di profilo, in posizione più consona per un atleta intento ad un esercizio di rafforzamento dei muscoli addominali che comoda per un musicista che deve al suo fiato la possibilità di emettere suoni, pratica diteggiature sui fori di un flauto a due canne.
Da notare il fatto che il primo è costituito da 15 lastre assemblate, il secondo da 12.

ANTICHITÀ METAMORFOSI

Sul tema del baccanale e della rappresentazione di suonatori di flauto si chiude questa nostra passeggiata attraverso le metamorfosi picassiane. Restandoci oscura la relazione di quelle esposte nell’ultima sala con il filo conduttore delle citazioni dall’arte antica in quella di Picasso che abbiamo sin qui individuato e seguito.
Nesso, forse, in questo caso più “letterario” trattandosi di 19 tavole del 1931, acqueforti di prova per le Metamorfosi di Ovidio, e di uno studio per la morte di Orfeo, dal libro II della medesima opera.

Più chiara è l’assenza della scultura in ferro La donna in giardino primavera (1930), particolarmente assonante con il piccolo bronzo Statuetta di cerva che allatta il suo cucciolo. Lo si evince dalle rispettive immagini sull’elenco delle opere fornito alla stampa, ma non lo si può verificare dal vero perché, così come una parte del pubblico alle partite di calcio lascia lo stadio prima del fischio finale per potersi allontanare prima di essere coinvolto dalla calca della massa dei tifosi, evidentemente anche alcune opere (almeno 2 e forse 3 in Picasso Metamorfosi), quando le mostre sono “agli sgoccioli”, abbiamo visto che preferiscono andare altrove!

Giovanni Guzzi, febbraio 2019
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