L'Eclettico



Assaggi dal collezionismo USA fra XIX e XX secolo



Come una visita a casa di amici, fra impressionismo e avanguardie

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ASSAGGI DAL COLLEZIONISMO USA FRA XIX E XX SECOLO

Come una visita a casa di amici, fra impressionismo e avanguardie


Forse non di particolare interesse per gli studiosi, la mostra “Impressionismo e avanguardie” a Palazzo Reale di Milano, con prestiti massivi dal Philadelphia Museum of Art, per il pubblico è comunque un’occasione per vedere tanti bei quadri e, per il fatto che alcune sale sono una sorta di “assaggio” dalle importanti collezioni statunitensi donate al museo e che ne hanno permesso la costituzione, l’attraversarle diventa un po’ come andare in visita nell’appartamento di amici ed ammirarne le opere d’arte che lo arricchiscono.

Per due particolari, non trascurabili nel favorire questa esperienza, va elogiato l’allestimento.

Ci riferiamo innanzitutto alle didascalie. Per l’ottimo contenuto delle schede che vi sono riprodotte, ancor più per la loro collocazione in altezza e, soprattutto, per come sono state realizzate: scritte in bianco su una lastrina in plastica trasparente fissata allo sfondo chiaro delle pareti della sala, non disturbano l’occhio del visitatore con l’impatto di inopportune macchie di colore accanto alle opere che ne impediscono un’adeguata percezione. Per capirci, come invece avviene nel caso di quelle specie di “fazzoletti” stesi ad asciugare sui distanziatori che affliggono i nuovi allestimenti di Brera nell’era Bradburne.

Altra scelta indovinata è quella di non proporre troppe opere, qui “soltanto” una cinquantina, e di collocare sedute in posizioni ideali per accomodarsi davanti ai quadri che si desidera ammirare più comodamente. Peccato soltanto che questa buona idea si perda dopo le prime sale. Perché crediamo che una mostra d’arte non si possa attraversare come una galleria commerciale di cui si osservano distrattamente le vetrine. Personalmente siamo abituati a soffermarci per ore, procedendo ora avanti, ora indietro, prima osservando alcuni particolari, poi altri, poi facendo confronti… fino a venire “risucchiati” da queste opere che, ancora dopo più di 5 ore di visita, non vogliono lasciarci andare.
Perché è solo dopo aver loro dedicato del tempo, con tutta la calma occorrente, che cominciano a “risuonare”, ed allora per avviarci all’uscita bisogna davvero fare un notevole sforzo di volontà!

1. COLLEZIONE CASSAT

Forse perché Mary Cassatt era anch’essa artista di notevole personalità e fu capace di coinvolgere il fratello Alexander, ingegnere ferroviario, in questa sua passione, fra i quadri in mostra la nostra impressione è che i migliori siano proprio quelli della loro collezione, “coraggiosa” perché portò oltre oceano, decretandone la fortuna, la nuova pittura impressionista di fine ottocento che in Francia era considerata con diffidenza.

Si comincia con Edgar Degas (Parigi 1834 - 1917) La classe di danza, ca. 1880, di cui le radiografie dimostrano un’attenta costruzione con modifiche precedenti la vendita dell’opera. Quasi tutte le figure sono rielaborate e perfezionate. La donna seduta vestita di blu che ora legge “Le Neuf” Journal e, avendo lo stesso viso, sembra la sorella del maestro, era una ballerina che allacciava una scarpetta.
È aggiunto anche lo specchio, per ampliare la nostra percezione dello spazio. Ci permette infatti di vedere la terza ballerina e la città. Per quanto possiamo capirne noi non sembra realizzato correttamente: dal punto in cui si trova l’osservatore, cioè noi, si dovrebbero vedere anche le altre due ballerine.

Ed eccola all’opera (in tutti i sensi), Mary Cassatt (Pittsburg, 1845 - Le Mesnil Théribus, Oise, 1926), in Donna con collana di perle in un palchetto, 1879.
Mary studia all’Accademia di Belle Arti di Philadelphia, nel 1871 è a Parigi dove diventa amica di Degas ed altri. È l’unica artista USA che espone con gli Impressionisti, e proprio con questo quadro partecipa alla loro 4a esposizione collettiva.
In relazione alla protagonista del soggetto è importante ricordare un’affermazione di Mary Cassat che dice:

“Le donne dovrebbero essere qualcuno e non qualcosa”.

Adorna di una collana di perle, con due fiori rossi sul vestito e fra i capelli, è munita di guanti e ventaglio: accessori imprescindibili per una donna quando si presentava in pubblico.
Lo specchio strategicamente collocato alle sue spalle è uno stratagemma col quale l’artista ci mostra indirettamente la sala per suggerirci che la maggiore attrattiva in teatro è osservare ed essere osservati.
Infine il lampadario monumentale, sospeso al centro della sala e parzialmente visibile nell’angolo in altro a sinistra del dipinto, è un ulteriore elemento introdotto da Mary Cassatt con un preciso intento artistico: era infatti appassionata alla luce artificiale e, soprattutto, alle ombre nette che questa proietta ed ai suoi particolari effetti sulla pelle e sui tessuti degli abiti.

Si esce invece all’aperto, anticipando la sezione successiva, con gli ultimi tre dipinti dalla Collezione Cassatt.

Paesaggio (frutteto), 1892 di Camille Pissarro (Saint-Thomas, Antille, 1830 - Parigi 1903) è opera matura dell’artista, ambientata a Pontoise, nella periferia di Parigi, luogo che amava per la semplice vita rurale che si conduceva nella regione e ci restituisce con la presenza di due piccoli ed evanescenti dettagli: la mucca sulla sinistra ed in basso a destra un uomo che trasporta due secchi.
Pissarro dipinge più volte questa località, fino a quando decide di trasferirsi al vicino villaggio di Éragny: del quale, in alto fra le chiome degli alberi, si intravedono i tetti oltre ad una chiesa col suo campanile. In questo quadro è ben evidente, nell’effetto dato dai colori stesi a chiazze, l’elemento determinante nel decretare il successo degli Impressionisti fra i collezionisti Statunitensi.

Un paesaggio urbano, ma con importante e significativa presenza dell’elemento naturale acqua è La Zuiderkerk di Amsterdam: vista sul Groenburgwal, ca. 1874 di Claude Monet (Parigi, 1840 - Giverny, 1926). Questa veduta della Chiesa meridionale (traduzione di Zuiderkerk) è dipinta da una chiatta ormeggiata lungo il Binnen Amstel. Da essa Monet osserva la vita quotidiana della città vecchia.
Sulla sinistra vediamo la casa del traghettatore con le sue chiatte e più avanti la gru che governa il ponte levatoio: al momento abbassato ed attraversato da persone.
Il pittore però non si interessa dei dettagli di architetture e persone: i passanti sembrano, infatti, fantasmi. Con la sua pennellata irrequieta e tremolante si concentra invece sulla luce pomeridiana che si riflette sull’acqua del canale e sulle facciate del campanile e della chiesa.

Acqua che è totalmente protagonista in Marina in Olanda, 1872 di Édouard Manet (Parigi, 1832 - 1883), artista che ha sempre sentito profondamente il fascino del mare, ragion per cui più di 40 sue tele e acquerelli hanno soggetti marini.
Siamo nell’estate del 1872 e quella che vediamo è la costa colpita dai violenti venti settentrionali: come ben sa chi c’è stato… c’è sempre vento in Olanda.
Composizione audace con effetto grafico, l’opera trasmette una severa austerità. Sullo sfondo, un filo di fumo si alza dalla linea dell’orizzonte: sulla quale si scorgono moli lontani e che divide, esattamente a metà della tela, il mare grigio scuro dal cielo imbiancato dalle nubi. Un contrasto che si ripropone in primo piano, fra le vele bianca ed in ombra delle due imbarcazioni allineate sulla diagonale che dona equilibrio all’insieme e termina in corrispondenza del mulino a vento all’estrema sinistra.
Colpito da questo quadro, anche per l’uso che in esso viene fatto della vernice nera, Gauguin lo acquista quando ancora era un agente di cambio. Lo venderà nel 1885 per pagarsi l’esordio della carriera di artista. Poco dopo lo compra Alex Cassatt.

2. PAESAGGI

Con Alfred Sisley (Parigi 1839 - Moret-sur-Loing, 1899) ed il suo Le rive del Loing, 1885, torniamo nei dintorni di Parigi. Siamo nella zona sud della foresta di Fontainebleau, attraversata dal Loing: un affluente della Senna. Da questi luoghi Sisley si allontanò di rado e, nei suoi ultimi 20 anni di vita, li dipinse più volte.
Da diversi punti di vista e seguendo l’avvicendarsi delle stagioni, ma per lo più privilegiando la sola natura e senza persone sulle rive.
A ben guardare, sulla destra, di spalle, c’è una donna che conduce una mucca, ma forse questa è considerata “elemento naturale”. Come sull’acqua i riflessi azzurri e verdi chiari delle nubi e dei fusti degli alberi o, in fondo alla prospettiva dove il fiume si perde, due case con i tetti blu e rosso e un ponte. Non si tratta certo della borghesia a passeggio o ad ammirare le regate ad Argenteuil: soggetto invece caro a tanti suoi colleghi.

Eccola invece, e quanta, la folla che trabocca dalla cornice di La fiera in un pomeriggio di sole, Dieppe, 1901. Siamo nel luglio 1901 e Camille Pissarro (Saint-Thomas, Antille, 1830 - Parigi 1903) ha 71 anni ed un’infezione all’occhio destro che gli rende difficile dipingere all’aria aperta.
Risulta registrato all’Hôtel du Commerce e, dalla sua stanza nell’albergo, gode di un’ottima vista sulla piazza del mercato. Nel corso dell’estate ne dipinge 9 vivaci vedute. In questa, molto bella, cattura il rumore, il movimento, il colore dell’annuale fiera di agosto, indugiando con piacere su ogni dettaglio della folla pulsante. Partendo dal campanile nell’angolo in alto a sinistra, e procedendo in senso antiorario, scorgiamo una giostra, la processione religiosa in corso, alla cui testa il clero inalbera tre croci, e poi il mercato con i verdurai, un ombrellone rosso che catalizza lo sguardo, i banchi del pesce…

Ancora città, e questa volta la capitale, in una famosa veduta dell’anno successivo alla prima esposizione Impressionista: I Grands Boulevards, 1875.
Nuovi e larghi, fiancheggiati da facciate in pietra uniformi, sono stati realizzati da Haussmann negli anni 50-60 sul tracciato delle mura abbattute. Pierre-Auguste Renoir (Limoges 1841 - Cagnes-sur-Mer 1919) ne apprezza il trambusto contemporaneo che li riempie di traffico e passanti.
Da sinistra, in crescendo numerico: un uomo legge, altri due conversano, tre bambini sono al centro della strada nella sua parte in ombra. In secondo piano è in arrivo un corteo di carrozze e, più dietro, al piano terra dei palazzi, si notano i variopinti tendoni (oggi una rarità) che riparano dal sole le vetrine dei negozi affacciati sulla strada. Più in alto è il gioco scintillante della luce che filtra dalle cime degli alberi, e tutto è in dissoluzione.

Con Il ponte giapponese, 1895, in posizione di rilievo, al centro della sala, si torna al paesaggio naturale, sebbene artificiale perché costruito.
Questa veduta, con giunchiglie e gigli che coprono lo stagno, e nella quale la zona di ombra verde sulla sinistra in basso è l’unica eccezione al piano di simmetria quasi assoluta che lo divide orizzontalmente, è una delle prime di quasi 300 che Claude Monet (Parigi, 1840 - Giverny, 1926) dedica al suo giardino.
È il 1893 quando l’artista comincia a coltivare un terreno vicino alla sua casa di Giverny, di esso dirà:

“Il mio giardino è il mio più bel capolavoro”

e per trent’anni accosterà l’attività di orticoltore-giardiniere a quella di pittore.
Monet data erroneamente questo dipinto al 1892, quando il ponte non era ancora stato realizzato. Risulta infatti del luglio 1895 la richiesta alle autorità locali del permesso di ampliare lo stagno per realizzarvi un giardino acquatico: “per il piacere degli occhi e per avere soggetti da dipingere”.
I colori freschi e primaverili che apprezziamo in quest’opera sono stati ispirati alla sua tavolozza da un soggiorno di due mesi in Norvegia, di ritorno dal quale, per introdurre un elemento esotico nel paesaggio e per avere un punto di vista dal quale ammirare le sue ninfee, fa costruire il ponte di quercia in stile giapponese che vediamo.

È un olio su tela, ma sembra un acquerello, il Paesaggio invernale, Giverny, 1894 di Paul Cézanne (Aix-en-Provence, 1839 - 1906) di cui notiamo la firma, in piccolo, nell’angolo in basso sulla destra.
Sebbene incompiuto, esercita un’attrazione profonda e potente ed è un interessante esempio di come Cézanne costruisce le sue composizioni. Con un pennello molto fine intriso di grigio disegna i profili degli alberi, del muro, del frutteto, del vicino hotel ed i tetti degli edifici vicini. Quindi stende finemente sul terreno e sugli edifici macchie di colore chiaro, lasciando zone di tela vuote.
Paul Jacques Aimé Baudry (La Roche-sur-Yon, 1828 – Parigi, 1886) fu uno dei più celebri rappresentanti della "pittura accademica" del Secondo Impero e, per singolare coincidenza, è all’hotel Baudry (nome che non sappiamo se effettivamente dedicato al pittore o se sia un caso di omonimia) che Cézanne alloggia nell’autunno del 1894 dopo aver accettato l’invito di Monet a recarsi a Giverny per lavorare assieme.
Alle loro riunioni partecipano anche Mary Cassatt, Renoir e Rodin… ma Cézanne è timido e si trova a disagio in compagnia, per cui se ne va all’improvviso, a fine novembre, dimenticando il dipinto che il proprietario dell’hotel si tiene a saldo del conto non pagato.

In Francia il gennaio 1993 fu molto freddo. La Senna uscì dagli argini e gelò per la maggior parte del tempo. Colpito da questi eventi meteorologici estremi, in Nebbia mattutina, 1894, Monet dipinge l’acqua ghiacciata a Bennecourt, 5 km a sud est di Giverny.
È un trionfo del bianco (non restituito a dovere dalle riproduzioni fotografiche) che si distende sopra la moltitudine di lastre di ghiaccio galleggianti sull’acqua.
Irritato per il fatto che il ghiaccio comincia a frantumarsi mentre ancora sta dipingendo: così scrive all’amico Paul Durand-Ruel:

“Ho dipinto all’aperto nelle condizioni più dure, nonostante il gran freddo, ed ora il disgelo giunge troppo presto per me!”.

Queste considerazioni, lette in mostra sulla didascalia accanto al dipinto (e verificate per quanto attiene al dato meteorologico), ci lasciano però qualche dubbio di incongruenza sulla datazione all’anno successivo.

Alla parte alta del termometro ci porta, Il sentiero riparato, 1873. Rifiutando concessioni al “pittoresco”, rivela la volontà di Monet di catturare l’energia del colore e del movimento di un semplice paesaggio rurale: in una calda giornata estiva in cui, lungo una strada polverosa ad Argenteuil, un uomo cammina da solo, e la nostra impressione è che ci stia venendo incontro.
Ad animare la scena sono le pennellate di Manet ed il suo uso del colore, che ravvivano gli alberi torreggianti e riproducono gli effetti del sole di mezzogiorno su pietre e foglie.

Curiosamente la lampada che illumina il dipinto è guasta e, lampeggiando, determina il singolare effetto (per un dipinto impressionista) di proporcelo nell’alternarsi di luce di varia intensità e buio che si susseguono alle diverse ore del giorno e della notte. Un po’ come si fa nei presepi, anche se qui “l’involontario effetto” è eccessivamente rapido.
È un peccato, questa disattenzione alla manutenzione, visto che, a maggior ragione in una mostra d’arte, la cura per offrire al visitatore un’adeguata visione dei dipinti dovrebbe sempre essere massima per tutta la sua durata. Se all’inconveniente evidenziato aggiungiamo il proiettore guasto proprio nell’antisala che introduce alla mostra e chiazze di sporco sui divanetti nella sala dei paesaggi, percepiamo un poco elegante senso di “abbandono” dato dal fatto che siamo proprio agli “sgoccioli” degli ultimi giorni di apertura della mostra.

Ma lasciamo queste considerazioni sull’allestimento in scadenza ed immergiamoci nella sezione successiva.

3. RITRATTI

“Un’opera d’arte che non comincia con un’emozione non è un’opera d’arte”.

Questo pensa Paul Cézanne (Aix-en-Provence 1839 - 1906), e prova a dimostrarlo nel ritratto in mostra di Hortense Fiquet, amante e modella prima che moglie. La conosce a Parigi nel 1869, hanno un figlio nel 1872 e si sposano nel 1886 su pressione delle famiglie per legittimare il bambino. La ritrae in 44 dipinti nei quali acconciature ed abiti sono spesso simili. Constatazione che rende difficile datare questo Ritratto di Madame Cézanne, non firmato né datato. L’ipotesi di datazione (1885-87) è suggerita dall’aspetto di Hortense che sembra avere circa 35 anni.
Una sottile linea ne disegna il profilo del volto, e più spesse linee contornano il collo e l’abito. Come si faceva anticamente a Firenze e nella pittura toscana prima che questo uso si affievolisse in Leonardo (mentre negli stessi anni a Venezia prevalevano colore e prospettiva).
La testa inclinata all’indietro, con il mento sollevato, le conferisce un’aria vigile ed indagatrice. Mentre i rami di un rampicante contro un muro in alto, su uno sfondo per il resto soffuso di luce pallida, sono indizio di un’ambientazione en plein air, confermata dalla giacca pesante che indossa.

Berthe Morisot (Bourges 1841 - Parigi 1895) l’abbiamo ben conosciuta nella mostra su Manet (leggi di più in Manet e la Parigi moderna >>>), in cui abbiamo visto suoi dipinti più vicini al nostro gusto rispetto al Ritratto di bambina, 1894. Qui ci limitiamo a ricordare che, con Mary Cassatt, è la più illustre delle “Impressioniste”. Amica di Degas, dimostra un vivo interesse per i bambini e per la vita domestica delle donne. Nel 1894, verso la fine dell’anno, una bimba le si avvicina e le dice: “Sono Marcelle, una bambina”. Una bambina impertinente e sicura di sé che Berthe dipinge almeno sei volte ed alla sua morte, nel febbraio 1895, sul suo cavalletto c’è ancora Marcelle in un ritratto incompiuto.
L’impatto maggiore sullo spettatore lo danno la grande macchia verde scuro del cappotto, nella quale si perde il manicotto in pelliccia (marrone come il cappello che ha in testa) nel quale protegge le mani dal freddo e sulla quale invece spicca, per contrasto, il gran bianco del colletto increspato. Gli occhi, due puntini neri, come se l’iride occupasse tutta l’orbita, e la bocca come un piccolo segno rosso, sembrerebbe pronta ad uscire per una passeggiata se i cigni in alto a destra sullo sfondo, un piccolo dettaglio quasi invisibile che per noi è la parte migliore del dipinto, non ci facessero capire che siamo già in esterno.
In definitiva, la sensazione trasmessa dai colori stesi a lievi pennellate e dall’evanescenza dell’ambientazione sembra essere una sottolineatura della transitorietà dell’infanzia, forse anche della vita stessa.

Con una tale scabrezza contrasta la vaporosa morbidezza della Ragazza con gorgiera rossa, ca. 1896, firmata in alto a destra da Pierre-Auguste Renoir (Limoges 1841 - Cagnes-sur-Mer 1919): immagine simbolo della mostra su locandine e biglietti. La ragazza ritratta è Gabrielle Renard: lontana cugina della moglie di Renoir che arriva in famiglia nel 1894 per accudire il secondogenito Jean (futuro regista, del quale ci piace qui ricordare il film Il raggio verde) e presto diventa una delle sue modelle preferite.
In questa opera intima e spensierata, ci colpisce la sua chioma foltissima, nonostante sia raccolta, nella quale quasi si perde il paffuto visetto infantile dai lineamenti freschi e delicati; che creano un aggraziato contrasto con la pennellata vivace e l’impasto complessivo.
La dominanza rosso arancio è richiamata sulle sue gote, sulle labbra, con due tocchi sulla spalla e, naturalmente, sui profili della vaporosa gorgiera che indossa e le incornicia il viso.
Chi mai potesse usare, oltre ai clown, questo voluminoso accessorio del XVII sec. è un quesito che per noi resta insoluto. In Renoir, che aveva un baule pieno di indumenti e accessori con cui adornare ed agghindare le modelle, riteniamo ci sia in questa circostanza il desiderio di muovere lo spettatore all’ironia!

Altro clima, più meditativo, ma altrettanto desiderio di esibizione anche tecnica Renoir ce li offre nella Ragazza che fa il merletto, ca. 1906. La modella, impegnata in un’attività che richiede concentrazione e delicatezza, ha fisionomia nordica ed un cerchietto luccicante le ferma i capelli biondi raccolti. Anche le tondità vibranti del vestito creano una superficie luccicante che allude all’iridescenza del tessuto bianco. Ed il filo di seta tra le mani della giovane è affidato ad una pennellata sottile e discontinua.
Il soggetto si inserisce nel genere delle scene domestiche del 6-700, come quelle dipinte da Vermeer e Chardin (Jean-Baptiste-Siméon Chardin - Parigi, 1699 - 1779 - è stato autore soprattutto di pregevolissime nature morte e di quadri aventi come soggetto i giochi semplici dell'infanzia. Celebri anche i suoi ritratti eseguiti a pastello). Esposta nella casa di Louis E. Stern con opere di Degas, Braque, Matisse, Soutine e Vouillard, a riprova degli interessi eclettici del collezionista, la Ragazza stava accanto a sculture provenienti dall’Asia meridionale e terrecotte etrusche.

Ancora diversi ambiente e personalità della modella nel Ritratto di Isabelle Lemonnier, ca. 1877. Figlia di Alexandre Gabriel gioielliere della Corona per Napoleone III. Isabelle era detta “La Musa di Manet” (Parigi, 1832 - 1883), che la ritrae non meno di sei volte. Nell’atmosfera informale e rilassata dell’atelier di Manet, pieno di oggetti familiari ben riconoscibili, come il tavolo in stile Luigi XIV, le poltrone blu ed un vaso in vetro traslucido, Isabelle è assorta e pensierosa. Alle mani, sfarinate e dalle lunghe dita, ostenta anelli d’oro, e bracciali in oro e argento, come quello a tre spire che le avvolge l’avambraccio destro: gioielli rappresentativi della sua provenienza familiare. Attorno a lei tutto è invece veloce ed in movimento: nei tratti marroni con cui è reso lo sfondo e nei pochi verdi del disegno vegetale che spunta dalla scollatura e che si accordano con le foglie della pianta in vaso.

4. VAN GOGH E GAUGUIN

Unica sua opera in mostra, la Natura morta con rose centifoglia in un cestino, 1886 di Paul Gauguin (Parigi 1848 - Dominica, isole Marchesi, 1903) è stata dipinta dopo un viaggio in Danimarca, dove prende la decisione di dire alla moglie ed alla famiglia che li lascerà, sentendo di doversi dedicare totalmente all’arte. Rientrato a Parigi, alloggia per breve tempo presso l’amico Émile Schuffenecker, agente di cambio ed artista, al quale la dedica, come si legge sulla tela accanto alla firma: “à mon ami Sch…” P. Gauguin.
In questo stesso anno Gauguin si allontana dagli Impressionisti e lascia Parigi per la Bretagna, dove inizia a dipingere opere con significati simbolici usando colori complementari distesi su superfici dai contorni marcati. Queste delicate rose, legate con un nastro grazioso, sono ancora nella cesta con cui sono appena state raccolte in giardino ed in attesa di essere messe in vaso.

Già in vaso sono invece le bellissime margherite della Natura morta con mazzo di margherite, 1885, sulla parete opposta della sala. Molto più vicine al nostro gusto delle rose dirimpettaie appena viste, ci ricordano un classico fiammingo del XVII secolo. Con i fiori che “esplodono” dal vaso e restano innaturalmente sospesi nell’aria, visto che naturalmente cadrebbero. Il grande fiore dai petali gialli è il sole che li guida nella fuga come i compagni di Nemo scappati dall’acquario nell’omonimo cartone animato.
La datazione del quadro è incerta.
Una prima ipotesi è che Vincent Van Gogh (Groot-Zundert, Brabante, 1853 - Auvers-sur-Oise, 1890) l’abbia dipinto a Neuen, nei Paesi Bassi, perciò sarebbe del 1883/85.
La seconda è che faccia parte della serie di nature morte dipinte a Parigi nel 1886-88. Poiché nel 1982 si viene a sapere di un’esposizione del 1903 di opere abbandonate a Neuen quando Vincent partì portando con sé solo tele e pennelli, sembrerebbe accreditata la prima ipotesi. Altra conferma è il “vaso” che contiene i fiori: un boccale di birra tedesco, quindi facilmente disponibile a Neuen.

“Voglio dipingere l’umanità, l’umanità e ancora l’umanità”

Questo dichiarava di voler fare Vincent, e questo fa negli altri due dipinti in mostra.
A inizio dicembre del 1888 scrive da Arles al fratello Theo:

“Ho fatto i ritratti di un’intera famiglia, quella del postino di cui avevo già disegnato la testa -, l’uomo, sua moglie, il bambino, il ragazzino e il figlio di 16 anni, tutti personaggi e molto francesi”.

Ritratto di Madame Augustine Roulin e la piccola Marcelle, 1888, appartiene a questa serie nella quale l’uso del colore è l’aspetto più significativo. Per ogni membro della famiglia Van Gogh adopera audaci tinte primarie per i vestiti ed i corrispondenti a contrasto per gli sfondi. Qui troviamo sfumature dal verde al bianco; con contorni blu che richiamano il cloisonnisme e sfondo giallo.
M.me Roulin è figura passiva e assorta, ha il volto in ombra e una posa rilassata. Sorregge, quasi esibendola al nostro sguardo, Marcelle, nata nel luglio del 1888. La neonata, dal visetto paffuto, vestita di pizzo color gelato al pistacchio e con una cuffietta in testa, è invece un soggetto vivace e centrale, e ci guarda fissi negli occhi.

Non così suo fratello di 11 anni nel Ritratto di Camille Roulin, 1888. Lo sguardo dei suoi occhi, limpido e azzurro come il suo largo e morbido cappello, è triste e rivolto verso il basso. Anche qui i colori complementari blu e giallo arancio, verde e rosso del bottone sul davanti e dei profili risaltano a vicenda e lo legano agli altri dipinti della famiglia. Il giallo, colore prediletto dal pittore, compare sul viso del ragazzo, aggiunge accenti su berretto e giacca e crea il fondo uniforme sul quale si staglia la figura.
Vincent regala questo quadro a Roulin ed il precedente all’amico pittore Émile Bernard, il caso li riunisce a Philadelphia negli anni ’40.

5. COLLEZIONE SAMUEL S. WHITE III e VERA WHITE

Della collezione allestita da Samuel Stockton White III e dalla moglie pittrice Vera White, cominciamo col vedere uno dei due paesaggi urbani di Maurice Utrillo (Parigi 1883 - Dax, Landes, 1955) acquistati dalla coppia: Place du Tertre a Montmartre, ca. 1912.
Firmato sulla strada in basso a destra, è il suo modo di vedere la collina di Montmartre a Nord di Parigi, dove il pittore vive fino alla metà degli anni ’20. È il quartiere degli alloggi operai, dei cabaret, delle sale da ballo a poco prezzo. È il fulcro della controcultura artistica incarnata da scrittori, musicisti e pittori.
Densi pigmenti evocano le facciate corrose di una fila di piccoli edifici squadrati ed incombenti lungo Place de Tertre poco lontano dalla basilica del Sacro Cuore. Le insegne, appena accennate e semi illeggibili, aumentano il senso di fatiscenza generalizzata. Confermato dalle finestre vuote o chiuse, dal cielo cupo che amplifica la malinconia di una giornata invernale, e che le tre persone che si intravedono sulla destra, nell’andito delle porte, non riescono ad animare.
L’anno dopo aver dipinto questo quadro, Utrillo firma un contratto in esclusiva con un mercante d’arte che ne decreta il successo tra i collezionisti USA.

Sempre di paesaggio urbano si tratta, ma di paese e non della grande città, in Le quartier du Four à Auvers-sur-Oise, ca. 1873 di Paul Cézanne (Aix-en-Provence 1839 - 1906). Siamo nell’anno in cui il pittore vive a Auvers-sur-Oise, un piccolo villaggio a Nord Ovest di Parigi, dove dipinge ogni giorno in plein air assieme a Pissarro che vive nella vicina Pontoise e del quale si è prima visto il Frutteto.
Di lui dice Rainer Maria Rilke (Praga, 1875 - Muzot, Svizzera, 1926):

“tutto è semplificato, composto in piani giusti e chiari come il volto in un ritratto di Manet. E nulla è insignificante e superfluo”.

Ed infatti vediamo le strutture nel paesaggio delineate con ampi piani di colore, le case oltre il muro ocra sono riprodotte con pennellate fitte e spigolose di colore uniforme, mentre gli alberi che incorniciano la veduta sono resi con tocchi più leggeri e arrotondati. Concentrandosi su forma e colore, Cézanne si sgancia dall’interesse impressionista per l’immediatezza e gli elementi atmosferici ed il paesaggio si spezza in forme geometriche: campi con le diverse coltivazioni, tetti e facciate con porte di colori diversi.

Una frammentazione che prepara l’ulteriore scomposizione delle forme che vediamo nella Cesta di pesci, ca. 1910, un esempio del primo stile cubista ideato in questi anni da George Braque (Argenteuil, 1882 - Parigi, 1963) con Picasso nel 1910. È ancora nitido l’arco del manico intrecciato del cesto ed è riconoscibile, al centro, una coppia di pesci sovrapposti in diagonale.
Come le altre del periodo è un’opera di fragile equilibrio che segue uno schema generale dai piani sfaccettati ed ha toni smorzati nel colore. Luci e ombre non servono per dare tridimensionalità (come in Leonardo) ma si scheggiano qua e là in frammenti.

Elementi classici della natura morta eleborati in questa sua fase cubista, Braque li riprende un quarto di secolo dopo nella Natura morta con piatto di frutta, 1936. Esempio del particolare carattere ornamentale e colorato della sua pittura degli anni ’30, vi ritroviamo meccanismi di illusionismo pittorico nella rappresentazione approssimativa del legno del tavolo, imitazione dipinta delle venature naturali.
Una pera? Un limone tagliato? Dell’uva? Una mela? La frutta in primo piano sul piatto, sul tavolo e nel cesto non è granché riconoscibile. Meglio visibili sono il bicchiere di vino dallo stelo sfaccettato, ed una pipa sul davanti. Dove la vicina scritta “Le Petit” è una testata di giornale con un frammento del titolo. Ancora nel cesto una foglia seghettata richiama forme simili, in rosa e giallo, sullo sfondo nero (ed in parte verde) della carta da parati. Infine il tutto sembra inarrestabilmente scivolare a terra con la tovaglia scura, come nel tavolino su piedistallo e dal piano altrettanto vertiginosamente inclinato di qualche anno successivo (Le guéridon vert devant la fenetre, 1942) un tempo visibile a Brera ed oggi in deposito in attesa di collocazione nell’espansione della Pinacoteca progettata in Palazzo Citterio.

Completa la sala L’atleta di Auguste Rodin (Parigi, 1840 - Meudon, 1917). Modellato nell’argilla nel 1901-04, e fuso in bronzo nel 1904 è lo stesso Samuel Stockton White III, che posa come modello per Rodin nel 1901 durante un soggiorno a Parigi mentre è studente a Cambridge. Dinamicamente inclinato sulla sua sinistra, guarda a destra per compensare il piede e la gamba sinistra storti. Mentre la schiena larga e robusta diventa per lo scultore un piano di cui sfrutta rigonfiamenti e avvallamenti dei muscoli per attirare la luce.

6. SCUOLA DI PARIGI

Riprendiamo il percorso e, dopo una sala con una comoda seduta… purtroppo senza dipinti attorno da ammirare mentre ci si riposa un poco, arriviamo anche noi a Parigi, intesa come l’omonima “Scuola”: ovvero la generica sigla sotto la quale sono “catalogati” artisti, per lo più non francesi, dallo stile spiccatamente individuale ed autonomo l’uno dall’altro ma accomunati da esperienze di vita e condivisione dell’influsso esercitato su di essi dalla particolare atmosfera creativa che si percepiva a Parigi al passaggio fra XIX e XX secolo.
Non è chiaro il senso dell’ordine col quale la mostra ce li propone, dunque li prendiamo “così come vengono” e come si offrono al nostro sguardo.

Primo a catturare la nostra ed altrui attenzione, radunando davanti a sé un folto gruppo di ammiratori, è Henri Rousseau (Laval, - Parigi, 1910) con il limpido Una sera di carnevale, 1886.
Privo di formazione accademica, funzionario di dogana e per questo conosciuto anche come “Il doganiere”, Rousseau comincia a dipingere a 40 anni e, per la sua immediatezza, è apprezzato dagli artisti delle avanguardie e dai collezionisti di arte moderna.
Bello di una splendida nitidezza, che ci ricorda le atmosfere surreali di Magritte, questo suo dipinto prende il titolo dalla coppia di due personaggi in maschera che “scintillano” al centro in primo piano. Coppia che occupa per dimensioni una minima parte dell’opera, ma che tutta la pervade con l’abbacinante bianco del costume dell’uomo e della gonna della donna.
Il primo ha una posa goffa, a gambe larghe e ben piantate a terra, sulla testa porta un cappello storto e in una mano gli brilla il puntino rosso arancio di una sigaretta accesa.
È una scena fantasiosa, fatta di bei colori ed assenza di prospettiva, che evoca uno stupore innocente, sul quale aleggia una presenza inaspettata e forse minacciosa. Guardando attentamente la individuiamo effettivamente sulla sinistra: dove da un capanno sporge il viso, seminascosto dalle tavole di legno, di un terzo misterioso personaggio; improbabilmente magro e alto.
Alle loro spalle, il bosco invernale è un intricatissimo roveto di spine al piede degli alberi spogli, che si stagliano sul cielo nuvoloso e verso l’alto però si innalzano sinuosi come vene e maestosi come alberi di nave: infondendo sicurezza e sfumando, sopra il luccichio del crepuscolo del sole al tramonto che si scorge lontano all’orizzonte, nel buio di un sereno cielo notturno. Qui tre nubi, due bianche ed una più piccola nera davanti ad esse, con la loro forma asimmetrica ci danno un’idea della direzione del vento e del loro movimento. Mentre, attorno alla luna, le poche stelle che vediamo luccicare non si capisce se riproducano esattamente delle costellazioni o siano disposte “a gusto” dell’artista che, orgoglioso del suo lavoro, si firma, a destra in basso, in bella e ordinata calligrafia.

La seconda personalità che incontriamo è quella di Georges Rouault (Parigi, 1871 - 1958). Espressionista nello stile ed animato da profonda religiosità, trasmette questo suo sentire anche nel Pierrot con rosa, ca. 1936. A dire il vero, rispetto a questo dipinto, abbiamo maggiormente ammirato le sue opere grafiche esposte nel 2015 in una bella mostra nelle sale viscontee del Castello Sforzesco di Milano.
Imponente, nella cornice in legno di non particolare pregio, replicata da quella interna di fantasia lungo i bordi del dipinto di cui aumenta il lirismo, manifesta una luminosità che stride col soggetto. Questo deriva dalla tradizione della pantomima tragica per la quale il clown muto Pierrot ha sempre un destino infelice. Per Rouault, fervente cattolico, simboleggia il Cristo archetipo col quale fa coincidere l’identità del clown. Fusione esplicitata dall’evidente macchia rossa della rosa rossa dipinta in corrispondenza del cuore: simbolo della tradizione del sangue (la ferita del costato è dall’altra parte).
Sotto il profilo tecnico il bagliore traslucido che promana dall’opera le è conferito dalla stesura di spessi strati di pigmento, mentre i marcati contorni neri delle campiture di diversi colori derivano dalla sua formazione giovanile di restauratore e realizzazione di vetrate artistiche e, in un certo senso, corrispondono alla traccia delle piombature.

La Finestra sulla Promenade des Anglais, Nizza, 1938 firmata con eleganza nell’angolo sinistro in basso da Raoul Dufy (Le Havre, 1877 - Forcalquier, Basses-Alpes, 1953) è uno dei quadri che più abbiamo apprezzato di questa mostra. Il suo autore vive per molti anni a Nizza, città di cui ama la luce brillante ed il paesaggio pittoresco, e dove dipinge colorati dipinti modernisti come questo che abbiamo di fronte.
Colloca il suo atelier all’Hotel Suisse, all’estremità orientale della Promenade des Anglais, ed è da questo punto di osservazione che riprende la vista del panorama oltre la porta-finestra chiusa.
In esso esprime un’ambivalenza di sentimenti: la serenità e la gioia dei colori e della vita che intuiamo vi brulica, ma anche la cupezza suscitata dalla grande croce disegnata dall’intelaiatura centrale dell’infisso. Questa scompone la veduta in riquadri ed in due sezioni allungate in verticale e rinforzate dagli effetti della luce sulla ringhierina immediatamente al di là dei vetri: verde sulla sinistra in ombra e chiara sulla destra perché in luce.
Infine il lato mare è libero, con l’acqua, la spiaggia, piccoli edifici lontani e, più lontano ancora, le montagne. Il lato città ne mostra invece il caotico trambusto variopinto: con le palme e semplici tocchi di nero a darci la sensazione della presenza dei passanti sulla passeggiata: non si va a Nizza per il mare!
La spiaggia è invasa da fasce rosso, verde, viola, blu, forse delle luci di locali e illuminazione pubblica, mentre in alto, gli stessi rapidi segni appena visti, sono le finestre buie di altri alberghi.

Ancora una coppia, questa volta però non di fantasia ma proprio quella costituita da Marc Chagall (Vitebsk, nord della Bielorussia vicino al confine con la Russia, 1887 - Saint Paul-de-Vence, Nizza, 1985), con Bella Rosenfeld nell’abbraccio della prima notte di nozze (il 25 luglio 1915) è al centro di Nella notte, 1943, dipinto appartenente alla collezione di Louis Stern al quale Chagall scrisse: “Ero certo di poter contare sulla vostra amicizia e vi ringrazio con tutto il mio cuore”.
Anche Stern, infatti, era di origine slava in quanto nato a Balta, cittadina dell’attuale Ucraina vicina al confine con la Moldovia e sede di un’importante comunità ebraica. Trasferitosi in gioventù negli USA non perse i contatti con l’Europa e con Chagall instaurò un forte legame favorito dalla comune cultura di provenienza e dalla possibilità di parlare con lui in russo e in yiddish, visto che il pittore aveva difficoltà con l’inglese.
Dipinto durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i nazisti rimuovono tutte le opere di Chagall dai musei tedeschi, il quadro dà la sensazione di un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio attraverso i ricordi.
Quella che vediamo, attraversata dalla strada innevata verso la quale sembrano “cadere” le case sconnesse - dai tetti imbiancati e dagli infissi rossi e blu - e dove si trovano Marc e Bella (chissà perché ritratta col viso di colore verde), è la città natale di Vitebsk in Bielorussia.
Da essa il pittore si era allontanato per seguire la carriera artistica che lo portò fino a Parigi. Vi ritornò per il matrimonio ma la lasciò di nuovo giungendo ancora a Parigi, nel 1923, e quindi negli Stati Uniti, nel 1941, in fuga dalla Francia occupata dai nazisti.
Ad eccezione dei contorni in bianco di una piccola figura appena visibile nell’andito nero di una porta, il villaggio sembra disabitato e ciò che più colpisce dell’insieme è il netto contrasto fra la neve bianca e il cielo nero buio, nel quale sono accostati elementi ed oggetti interni o del paesaggio esterno.
Alcuni meno evidenti, come l’abete che sembra volteggiare in alto a destra, fuori dal villaggio e vicino alle cupole celesti della chiesa ortodossa sormontata da una croce. Altri curiosi, come il “fantasma” del cane (o bue?) trasparente sulla sinistra, del quale pochi tratti bianchi fanno emergere dalla notte il muso e la zampa destra, che appare come una mano.
Infine il giallo della falce di luna, intonato con la fiammella della lampada e della catenella dorata che la sospende al cielo sopra la coppia e che rischiara la notte con l’alone di luce che diffonde.

Ancora dalla Bielorussia, come Stern, arriva a Parigi (a piedi!) Chaïm Soutine (Smilovič, Minsk, 1894 - Parigi, 1943). Fra i personaggi più stravaganti della “Scuola di Parigi”, Soutine raggiunge la celebrità quando il collezionista Alfred Barnes di Philadelphia si reca da lui nel 1922 e gli compra più di 50 dipinti. Con questi soldi il pittore prende un taxi e si fa accompagnare fino sulla Costa Azzurra, a Nizza, a pochi km da dove dipinge l’ultimo dipinto di questa sezione di mostra: Paesaggio, Chemin des Caucours, Cagnes-sur-Mer, ca. 1924.
Quello che vediamo è un villaggio fatto di case delle favole, tutto ondeggiante come un’insalata russa di maionese fresca. Inclinandola verso l’alto, Soutine esaspera la prospettiva del tratto di strada tortuosa che dipinge. Cosicché case e alberi si ammucchiano gli uni sugli altri inducendo in chi guarda un senso di vertigine e precarietà. Obiettivo raggiunto, dunque, per l’artista, che si firma in basso, sulla sinistra, appena accennando le lettere che compongono il suo cognome. Egli voleva infatti trasmettere emozione allo stato puro, con pennellate spesse e stratificate, forme convulse e sconvolte dai colori accesi.

7. COLLEZIONE LOUIS E. STERN

Ed eccolo, dunque, un assaggio della collezione Stern in sei quadri e un bronzo. A dire il vero, nonostante il titolo della sezione, verificandone le provenienze (siamo dei maledetti pignoli!!!) ci siamo accorti che, in essa, dalla collezione Stern vengono soltanto Bonnard ed il primo Matisse che qui ci accoglie. Altri cinque li abbiamo già visti nelle precedenti: Chagall, Rousseau, la merlettaia di Renoir, Soutine, ed il ritratto di Mme. Cézanne).

Anche Henri Matisse (Le Cateau, 1869 - Vence, Nizza, 1954) , come altri che già abbiamo incontrato, è attivo a Nizza fra il 1917 e il 1921. Installato lo studio all’Hôtel de la Mediterranée qui dipinge una serie di modelle, in coppia o da sole, come la Donna seduta in poltrona, 1920. Una modella vigorosa, dal viso tristemente dolce e dalle forme scomposte, come la sua spalla sinistra che sembra “slogata”, costituisce uno degli elementi della sfida nella quale l’artista si lancia alla ricerca dell’equilibrio fra la sua tridimensionalità ed i toni opulenti del disegno di arredi ed ornamenti.
Come le decorazioni in oro su fondo bianco della tappezzeria o quelle dei ghirigori nero su rosa del pavimento sul quale sembra “librarsi”, innaturalmente verticale a sfidare la forza di gravità, il paio di scarpette bianche come la vestaglia della donna ed il suo cappello abbandonato sulla destra.
Completano l’affollato ambiente i drappi che ricoprono alcuni mobili, come quello a righe rosse sul quale troneggia la trasparenza blu di un vaso che contiene un mazzo di papaveri rossi. Colori che sulla sinistra sembrano perdere di intensità, come se fossero “slavati” per aver subito un qualche danneggiamento.
È chiaro che a Matisse non interessa affatto la prospettiva della stanza, il cui spazio è un mosaico variopinto di superfici floreali. Coerente con la sua convinzione secondo la quale

“Il dipinto deve essere costruito in modo espressivo come un mazzo di fiori”.

Questo concetto ispira grandi nature morte del 1924-25 su tavoli coperti da tovaglie dipinte. Ne è esempio la Natura morta su tavolo, 1925, in cui oggetti naturali sono accostati a fantasie costruite sui più vari supporti come tessuti, dipinti, carte da parati o altri elementi.
Anemoni in vaso, tre pesche (o prugne?) rosse, un ananas adagiato come fosse Mosé nel cesto giallo di vimini (il cui coperchio ricorda la ruota dentata del supplizio di santa Caterina d’Alessandria) e luminosi limoni “dialogano”, per reazione, con l’armonia delicata della tovaglia rosa sulla quale sono appoggiati ma anche col verde del vaso che contiene i fiori, con la fantasia a fiori fiori blu dipinta sulla tazza e sul piattino in ceramica e col motivo floreale grigio verde del paravento.
In secondo piano, in contrasto con questa molteplicità di colori, la neutralità del pavimento marrone chiaro e della parete salmone sulla quale sono appese due immagini nei toni spenti del grigio che le rende simili a riproduzioni fotografiche: una litografia di Toulouse Lautrec e, sulla destra, un nudo disteso che ricorda (anche se ruotata a specchio rispetto all'originale) l’odalisca dello stesso Matisse.
Come sopra anticipato, sebbene collocato nella sezione di mostra dedicata alla sua collezione, in realtà questo quadro non risulta essere appartenuto a Stern ma una donazione di Henry P. McIlhenny, 1964.

Continuando la rassegna di dipinti realizzati in Costa Azzurra, incontriamo l’Omaggio a Maillol, 1917, che Pierre Bonnard (Fontenay-aux-Roses, Francia, 1867 - Le Cannet, 1947), esponente del gruppo dei Nabis, dedica al pittore e scultore suo amico e vicino di casa sopra Cannes, nel Dipartimento delle Alpi Marittime.
Da questi riceve in dono, per uno scambio di opere fra artisti che era molto comune in quegli anni, la scultura “La bagnante con chignon” del 1900.
La vediamo nel quadro, dipinta in un grigio metallico che risalta sul bianco del pilastro davanti al quale è collocata ed evoca il bronzo nel quale è realizzata. Simile ad una dea greca, permea l’arte moderna con i valori della classicità mentre l’omaggio è costituito dai fiori in primo piano sul comodino in legno laccato dove trova posto anche un volume semiaperto.
Quello della stanza in cui Bonnard ci porta è un ambiente dinamico, che si anima per il contrasto fra i colori intensi dei fiori in vaso e del paravento dipinto di blu e quelli più tenui delle pareti. Una dinamicità che risulta dalla stessa forma allungata in verticale della tela: inusuale nel rapporto fra le proporzioni dei suoi lati.

Quindi ecco un secondo bronzo Il giullare, 1905, bronzo di Pablo Ruyz y Picasso (Malaga 1881 - Mougins, Alpi Marittime, 1973) diverso, rispetto alla forma scolpita di Rodin che abbiamo vista in precedenza, per le superfici con ombre mobili e luci.
Fra il 1904 e il 1906 Picasso produce tante opere che raffigurano artisti itineranti. Per l’allora giovane e povero artista sono il simbolo della libertà dalle limitazioni sociali che costringono chi vive ai margini del benessere garantito soltanto all’élite della popolazione.
Come tanti altri suoi colleghi, anche Picasso amava il circo, e si sa che questo bronzo è stato realizzato in pochi giorni, nella primavera del 1905, dopo una sera passata al Circo Medrano con l’amico Max Jacob.
Forse è proprio quest’ultimo la personalità scherzosa dall’espressione vagamente beffarda che, più che un allegro intrattenitore di corte con le sue buffonerie, con la sua tremolante figura ci ricorda l’inquietante Joker, l’avversario di Batman.

Della cerchia parigina di Picasso, prima che scoppi la Prima Guerra Mondiale, fa parte Marie Laurencin (Parigi, 1885 - 1956) pittrice che espone regolarmente con i cubisti, mondo che esprime più esperienze femminili negli anni ’20.
Ninfa e cerva, 1925, è un dipinto quasi fatto di due soli colori, ma in diverse sfumature. Tenui rosa, intonati fra loro, sono disseminati nel verde di un paesaggio boscoso: come l’arco sopra le due figure del titolo, il tempietto ed altri piccoli edifici in lontananza, fino alla linea dell’orizzonte che lo divide dal cielo.
Come altri di queste dimensioni, rappresenta scene di eroine mitologiche alle quali Marie alterna ritratti eleganti di donne. Classico e contemporaneo convivono al tempo stesso.
La ninfa suona un flauto ad una canna che presenta un rigonfiamento che lo rende molto caratteristico ma che ancora non siamo riusciti a ricondurre ad un qualche pur antico strumento conosciuto.
Quanto alla cerva, la identifichiamo perché mancante del palco di corna caratteristico dei maschi della specie. La vediamo impennare “al contrario” alzando le zampe posteriori, osservazione che ci induce a pensare che stia ballando. Pensiero legittimato dalla constatazione che la veste della ninfa ed il suo copricapo sono simili ai costumi moderni ed ai copricapi piumati che Marie Laurencin realizza, assieme alle scenografie, per lo spettacolo dei Balletti Russi Les Biches - Le cerbiatte - che debutta a Montecarlo nel 1924 su testo di Jean Cocteau e con musica di Francis Poulenc ispirata al dipinto di Jean Antoine Watteau (Valenciennes, 1684 - Nogent-sur-Marne, 1721) intitolato Le Parc aux Biches, in cui rappresenta scene pastorali ed idilliache del Settecento francese.

Dopo Matisse in apertura, la mini collezione presentata come Stern (ma che di fatto non lo è), si chiude con un altro Fauve: Maurice de Vlaminck (Parigi, 1876 - Rueil-la-Gadelière, Eure-et-Loir, 1958) La Senna a Châtou, ca. 1908, ci mostra il fiume nei pressi di questo villaggio nei sobborghi ovest di Parigi.
Vi notiamo un passante di spalle sotto gli alberi sull’argine, e nel fiume alcune barche a vela ed una canoa a due vogatori con timoniere. Questo interesse per il tempo degli svaghi festivi, è un diretto richiamo alla produzione degli Impressionisti.
Ravvivano la composizione pennellate strisciate come linee tempestose sulla superficie del fiume per rendere l’effetto del moto delle barche sull’acqua; increspata anche dal vento che spinge le nubi, agita gli alberi ed il tricolore… svettante sul pennone oltre il ponte, dove il fiume si confonde col cielo: dello stesso colore e soltanto più tormentato per la presenza delle nubi. L’effetto è una spontanea immediatezza per l’uso degli intensi blu di Prussia con luminosi accenti rossi, bianchi, gialli, ocra e verdi, caratteristici dei fauves.

8. COLLEZIONE LOUISE E WALTER ARENSBERG

Non sappiamo se risponda effettivamente al gusto di questa seconda coppia di collezionisti, però i dipinti della penultima sezione di mostra (come la precedente e la successiva purtroppo priva di sedute, quantomai necessarie a chi desideri ammirare i dipinti con la dovuta calma e quindi dal fisico provato dalle decine visti sin qui), sono per la quasi totalità esempi di artisti riconducibili (con l’ambiguità che porta con sé ogni semplificazione che voglia “incasellare” l’arte) a due delle avanguardie artistiche di inizio Novecento: astrattismo e cubismo, in ordine non cronologico ma di comparizione in mostra.

Comprova subito l’obiezione sopra riportata fra parentesi, la definizione di astrattista per Paul Klee (Münchenbuchsee, Berna, 1879 - Locarno, 1940) nel dipinto in mostra: Carnevale al villaggio, 1926 che l’artista data e firma in alto a stampatello maiuscolo KLEE 1926.
Quasi monocromo sui tono del rosso bruno, cosa che dà coerenza all’insieme, presenta i contorni di soggetti ed elementi del paesaggio realizzati in modo che li mostra simili alla tecnica a graffito insegnata ai bambini alle scuole elementari: quando con i pastelli a cera si stendevano sul foglio strati sovrapposti di colore dai quali, con una punta di spillo, si estraevano via via quelli desiderati per far emergere il disegno.
Questo si risolve nel risultato di linee sottili per i contorni dell’uomo - dai capelli rosso vivo - che tiene per mano un bambino, del cane e del personaggio mascherato alle loro spalle. Il tutto in un’ambiguità temporale fra giorno e notte: data dai colori ma anche dal fatto che sole e luna sono contemporaneamente presenti, come nei dipinti rinascimentali (ad esempio nella Crocifissione di Bramantino in Brera).

Del cubista Juan Gris, nome d’arte di José Victoriano González Pérez (Madrid, 1887 - Parigi, 1927), vediamo Lampada, 1916. A dire il vero non è che la vediamo benissimo: fra geometrie variamente composte e, forse, un bicchiere sopra un tavolo con cassetto. Potremmo più correttamente scrivere di frammenti di oggetti incasellati in uno schema a griglie inclinate, dove i colori punteggiati risaltano di energia propria mentre l’ombra trasmette una cupa tensione: siamo infatti nel pieno della Prima Guerra Mondiale.

Pienamente astratto, perché opera di Vasilij Vasil´evič Kandinskij (Mosca, 1866 - Neuilly-sur-Seine, 1944), precursore e fondatore dell’astrattismo, è invece Cerchi in un cerchio, 1923.

“Il primo dei miei dipinti a mettere sul piano il tema dei cerchi”,

scrive Kandinskij in una lettera del 1931 a Galka Scheyer (Braunschweig, 1889 – Los Angeles, 1945), pittrice tedesca e fondatrice del gruppo Die blaue Vier composto da Lyonel Feininger, Vasilij Kandinskij, Paul Klee ed Alexej Jawlensky ritratti, nell’ordine, nel collage apparso sul "San Francisco Examiner" il 1º novembre 1925. All’inizio degli anni ’20, Kandinskij comincia ad insegnare al Bauhaus e si adatta ad una maniera più geometrica anche se carica di simbologia.
Il cerchio, la figura più elementare, sintetizza infatti gli opposti in un’unica forma equilibrata. Qui ne vediamo diversi, attraversati da linee sottili e nere fino alle due grandi fasce diagonali che si incrociano ed in corrispondenza delle quali i colori, loro e dei cerchi che intercettano, risultano per sottrazione.

Agli anni 1910-12, nei quali Pablo Picasso (Malaga, 1881 - Mougins, Alpi Marittime, 1973) si dedica al “cubismo analitico”, risale Uomo con violino, 1911-12.
In questi anni dipinge solo nature morte e figure singole. Le forme si frantumano in una griglia geometrica mentre la scelta dei colori è neutra per dare risalto a linee e forme. Ecco perché riusciamo a riconoscere un orecchio ed il bracciolo della poltrona su cui l’uomo siede, parti del violino - in basso il ricciolo del manico, in alto la fascia del fondo, e dettagli della cassa armonica come i fori di risonanza a forma di f - dispersi nel caos generale: dettagli tutti che non rappresentano l’oggetto, ma lo evocano.

Completamente diverso, anche perché del triennio precedente di Picasso, è il Nudo femminile seduto, 1908-09. Per nulla attraente nella sua rigidità di donna con i capelli corti rappresentata con colori spenti ed al modo di una forma solida semplificata, come se fosse una scultura, fa parte di un gruppo di nudi seduti che presentano tutti analoghe caratteristiche: vita spessa, braccia snelle tubolari e teste inclinate di lato.

Di 10 anni precedente, totalmente diversa ed interessante per il confronto fra innovazione (non sempre e non necessariamente un valore positivo, come in questo caso) e passato, seppure recente, è la Bagnante, ca. 1917-18 di Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 1841 - Cagnes-sur-Mer, 1919). Un soggetto che dipinge spesso negli ultimi anni di vita che trascorre a Cagnes.
Fra i massimi rappresentanti dell’impressionismo in proposito Renoir dice:

“Guardo un nudo e vedo miriadi di minuscole tinte. Devo trovare quelle che faranno vivere e vibrare la carne sulla tela”.

Ed eccone sotto i nostri occhi il risultato: immerso in un paesaggio rigoglioso e abbagliante, con una cascatella d’acqua sulla destra che lo vivacizza pur non sottraendogli il senso di calma che tutto lo pervade, il nudo è l’epicentro di un turbinare di toni rosso, rosa, ocra con tenui accenni bianchi. Le forme si espandono, i contorni vibrano, pennellate lisce dipingono la pelle rosea in contrasto con i luminosi tratti verticali, gialli, verdi e arancioni di ciò che sta attorno.

Chiusa questa mini-parentesi impressionista, ecco un rappresentante di spicco del Cubismo dei Salon, di cui già abbiamo apprezzato “Tre donne” in “Vista dall'Africa, la mia Europa che dipinge” (leggi di più >>>): Albert Gleizes (Parigi, 1881- Avignone, 1953).
L’artista realizza opere imponenti con soggetti riconoscibili come Uomo al balcone (Ritratto del dottor Théo Morinaud), 1912 che fu esposto nella sala cubista dell’Armory Show di New York del 1913.
Qui, oltre il balcone, con nuvole, ciminiere, binari, travi di ponti, nonostante tutto sia scomposto in aree contornate, riusciamo comunque a scorgere anche vedute di Parigi.

A chiudere la parata cubista è Jean Metzinger (Nantes, 1883 - Parigi, 1956) con L’ora del tè (Donna col cucchiaino), 1911.
L’opera, conosciuta anche come la “Monna Lisa del Cubismo”, in opposizione all’incomprensibilità delle avanguardie restituisce alla pittura la grazia (si fa per dire!).
Dipinto con la tecnica cubista della prospettiva mobile e simultanea, mostra il busto di una donna seminuda e, solo sopravvissuto nella sua forma reale, il cucchiaino al centro del quadro.
Vertice dello studio è la chicchera, a sinistra in basso, presentata in due vedute inclinate in senso opposto, di profilo e dall’alto.

Al centro della sala si prende la scena il primitivismo astratto di Constantin Brancusi (Peștișani, Romania, 1876 - Parigi, 1957] con Il bacio, 1916 scultura in pietra calcarea con la quale Brancusi dimostra che la semplicità si raggiunge penetrando nel senso reale delle cose.
Siamo all’opposto della testa dorata (ridotta alla forma essenziale di un uovo) esposta in il Volto del ‘900 (leggi di più >>>). Le braccia degli amanti si allineano parallele ai fianchi per incrociarsi dietro le rispettive spalle. Gli occhi sono un solo unico ovale e, mentre la donna ha i capelli lunghi, scolpiti fino in basso, l’uomo li porta corti.
È la 4a versione del soggetto, la più formalmente coerente. In una lettera del 1916 l’autore invita ad esporre l’opera in modo semplice ed immediato, appoggiandola sulla sua stessa base, indicazione che non viene rispettata in mostra. In casa Arensberg era invece affiancata da sculture precolombiane.

9. SURREALISMO

Forse un po’ limitato, svolto in soli tre dipinti, il peso specifico del surrealismo in mostra. In successione cronologica di realizzazione apre la serie

Nudo, 1926, di Joan Miró (Barcellona, 1893 - Palma di Maiorca, 1983). Al centro di un quadro totalmente e profondamente nero, la figura che subito si nota è una specie di sirena nelle cui forme ci par di vedere un Beluga, una sorta di piccola balena bianca, in posizione verticale in equilibrio sulla grande pinna caudale.
Ai lati ed al di sopra di essa, tre forme riconducibili a cibarie: una rapa o cipolla sulla sinistra, una mela, parzialmente sbucciata, a destra ed in alto un uovo. Il nudo di donna raffigurato è dunque la risultante di una combinazione di oggetti diversi. La testa è l’uovo, con al centro il tuorlo come unico occhio. Come una bandiera sventola la fascia ondeggiante di capelli castani. Lo pseudo-animale è il corpo, percepibile dalla forma dell’abito attillato che si allarga sul petto ed ai piedi e si assottiglia alla vita.
Restandoci poco chiari i rimandi più diretti di frutto ed ortaggio, potremmo comunque azzardare l’ipotesi che l’artista abbia voluto proporre un’esperienza visiva peculiare suggerendo la sommatoria di due esperienze sensoriali potenzialmente sovrapponibili: il desiderio del cibo ed il desiderio erotico.

Lascia completa libertà alla fantasia dello spettatore, che vi può ritrovare quel che crede, I paralleli, 1929, di Yves Tanguy (Parigi, 1900 - Woodbury, Connecticut, 1955), pittore autodidatta che si accosta ai surrealisti nel 1925, appena dopo che questi si erano costituiti a Parigi nel 1924.
Bello per forme e colori, diversamente da tanti moderni questo dipinto lo terremmo volentieri in casa. Starebbe infatti bene in un salotto moderno… come fosse un tavolino, ma forse non disturba e potremmo accettarlo proprio perché non dice nulla. Tanguy infatti dipingeva fedele al principio dell’automatismo: una sospensione della ragione e dell’autocontrollo per lasciar fluire il flusso delle immagini dal subconscio. Il risultato è una dimensione mentale più nebulosa perché indeterminata.

Che però non lo porta a distorcere le forme della realtà come fa Salvador Dalí (Figueras nord Catalogna vicino al confine con la Francia, Perpignan, 1904 - 1989) in Simbolo agnostico, 1932.
Come in altre sue opere anche qui è in atto una metamorfosi da rigido a molle. Da una materia squadrata come fosse marmo verde, all’estremità in alto a destra, promana un cucchiaio il cui manico sottile è allungato a dismisura tagliando diagonalmente il dipinto: costituito da null’altro che una specie di pavimento marrone. Nel percorso si deforma per aggirare un ostacolo (dall’apparenza di un ceppo in legno) ed infine, all’estremità opposta, contiene nella paletta concava un minuscolo orologio da taschino con la cassa d’oro.
Cosa abbia a che fare tutto ciò con l’aver inserito nel titolo il vocabolo “agnostico” non arriviamo a comprenderlo. Del resto,

“L’unica diversità fra me e un pazzo è che io non sono pazzo”

dice di sé stesso il suo autore.

L’ultimo dipinto prima dell’uscita, e proprio brutto, è di Pablo Picasso (Malaga, 1881 - Mougins, Alpi Marittime, 1973) un dipinto che forse vuol essere un appuntamento alla successiva mostra a lui dedicata sempre in Palazzo Reale. Donna e bambine, 1961, il suo titolo.
Sebbene incostante nei suoi amori, nelle sue opere è una costante la relazione di intimità tra madri e figli, con i quali mantenne sempre un forte legame. Nello specifico di questo quadro, ricordando che venne iniziato nell’agosto del 1960 e finito nell’aprile del 1961, dopo aver sposato Jacqueline Roque (con cui conviveva da 9 anni - 1952), è ovvio dedurre che la donna è proprio lei.
Le due bambine ai suoi lati sono entrambe frutto di relazioni precedenti dei due coniugi. Alla sua sinistra sta la dodicenne Paloma, figlia di Picasso e Françoise Gilot, a destra Catherine Hutin – Blay, di 15 anni, figlia di Jacqueline Roque con il suo primo marito.
Jacqueline era la seconda moglie di Picasso che, in prime nozze, aveva sposato nel 1918 a Parigi la ballerina Olga Chochlova. Dai due nacque il primogenito Pablo, cosa che non dissuase il pittore dal tradirne la madre, si ritiene a partire dal 1927, con la diciassettenne vicina di casa Marie-Thérèse Walter.
Nonostante fosse in torto marcio, Picasso rifiutò di concedere il divorzio ad Olga, cosicché i due rimasero sposati fino alla morte della donna, nel 1955.
Intanto, però, anche il tempo di Marie-Thérèse era scaduto. Proprio nel 1935, anno di nascita della loro figlia Maya, anch’essa viene lasciata per la fotografa surrealista Dora Maar.
Altra relazione a termine, che si conclude nel 1943 col subentro nei favori di Picasso della modella Françoise Gilot e con l’avvio sulla strada della pazzia di Dora.
Françoise, l’amante che si autodefinì “l’unica donna sopravvissuta ad una relazione con Picasso”, fu anche l’unica a non essere lasciata ma ad abbandonare lei Picasso, che la tradiva con la già incontrata Jacqueline: come si è visto seconda moglie ed anche ultimo legame affettivo dell’artista fino al termine dei suoi giorni.
Anch’essa però non sfuggì alla “maledizione” che colpì le altre donne che l’avevano preceduta nel cuore del pittore, e pose fine tragicamente alla sua esistenza suicidandosi, con un colpo di pistola, nel 1986, come aveva fatto Marie-Thérèse nel 1977, impiccandosi.
Poco nota all’opinione pubblica, la donna più importante nella vita dell'artista non fu però né una delle mogli né una delle tante amanti (che riteniamo essere state in numero superiore a quelle fin qui citate). Stiamo parlando di Inès Sassier, nata in Italia ma di nazionalità francese, che probabilmente fu la sua migliore amica. I familiari di Picasso confermano che gli stette sempre vicina impersonando molteplici figure: consigliera, governante di casa, occasionalmente cuoca ed a necessità modella… ma comunque la sua più ascoltata confidente. Una delle figlie dell’artista, Maya, parla di lei come «la nostra madrina delle fiabe... più vicina di una parente, più di una nonna... Inès idolatrava mio padre. Mio padre a sua volta, l’adorava».
I due si incontrarono per la prima volta nel 1936 quando Inès e sua sorella Marinette lavoravano in un hotel a Mougins, vicino a Nizza, dove Picasso alloggiò per pochi giorni. L’anno dopo il pittore invitò le due sorelle a seguirlo a Parigi dove avrebbero potuto abitare nella stanza vicino al suo studio di Rue des Grands Augustins ed occuparsi della sua casa.
Solo Inès acconsentì e, dopo aver sposato un giovane parigino, Gustave Sassier, divenne una sorta di seconda madre per i bambini di Picasso. Durante la guerra, quando il cibo era poco, Inès era capace di cucinare piatti appetitosi con pochissimi ingredienti. Quando poi la fama dell’artista divenne mondiale e Picasso, nel 1961, si trasferì in una villa nel sud della Francia, ogni estate Inès accompagnava da lui i suoi figli e divenne curatrice e custode dello studio.

Giovanni Guzzi, settembre 2018
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