L'Eclettico



Manet e la Parigi moderna



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MANET E LA PARIGI MODERNA

Una dimora regale per una “maestà” della pittura


Due dimore regali lombarde e due musei per “Due Maestà” della pittura: Édouard Manet (Parigi, 23 gennaio 1832 - 30 aprile 1883) e Claude Monet (Parigi, 14 novembre 1840 - Giverny, 5 dicembre 1926 / 1840-1926). Monet l’abbiamo incontrato in Villa Reale a Monza, nell’ambito della mostra con dipinti della Johannesburg Art Gallery: che a dire il vero lo esibiva come richiamo sul manifesto ma poco, e malamente visibile, in sala (Vista dall’Africa: la mia Europa che dipinge - Leggi di più >>>). Una mostra che però, per la sintetica panoramica presentata su artisti a lui coevi, si è rivelata utilmente propedeutica a quella, intitolata a Manet, contemporaneamente proposta a Milano in Palazzo Reale.
Qui, con tele provenienti dalle collezioni del Musée d’Orsay di Parigi, l’ispiratore degli Impressionisti è stato collocato nel contesto artistico e sociale che vedeva la capitale francese evolversi verso la modernità.

I MANET E LA SUA CERCHIA

Nella prima sezione, Manet ci presenta, innanzitutto, i suoi genitori: che ritrae seduti in poltrona in ambiente domestico tracciandone a sanguigna su un foglietto quadrettato le linee fisionomiche essenziali Ritratto dei genitori di Manet, 1859-1860.

Quanto all’artista, lo conosciamo, sorridente con gli occhi e la bocca socchiusa sotto i baffi e la folta barba, nel ritratto in bombetta e giacca bianca dipinto nel 1880 ca dall’amico Carolus-Duran, pseudonimo di Charles-Èmile-Auguste Durant (Lilla, 4 luglio 1837 - Parigi, 17 febbraio 1917).
Quest’opera, dalla pennellata libera e ben distinguibile, è testimonianza dello scambio dei reciproci ritratti che i due, amici da vent’anni, si dedicano vicendevolmente.

Ancora di Carolus-Duran è il ritratto di profilo di Zacharie Astruc del 1861 (Angers, 20 febbraio 1833 - Parigi, 24 maggio 1907). Critico, scultore e poeta, ci è presentato come un bohémien: spettinato, con la barba lunga e la camicia aperta. Una sua serie di serenate, dedicate alla ballerina spagnola Lola de Valence, è illustrata con litografie di Manet del quale fu grande amico e per il quale, nel 1865, organizzò il viaggio in Spagna sulle tracce di Velázquez (XVII sec.) le cui testimonianze pittoriche troveremo più avanti.
Personalità certamente interessante, ma non così rilevante da giustificarne la presenza in apertura di questa recensione, se ve lo troviamo è perché in una sua poesia Manet aveva scoperto il nome Olympia, che gli era piaciuto e perciò se ne era servito per battezzare una sua celeberrima opera del 1863 che aveva suscitato scandalo quando fu esposta al Salon del 1865: il nudo in cui la sua modella preferita, Victorine Meurent, è distesa a gambe elegantemente incrociate mentre una serva di colore le porge i fiori offerti dal cliente.
A prendere le difese dell’artista e di questo quadro, che definì “capolavoro degno del Louvre”, fu lo scrittore e “giornalista letterario” Émile Édouard Charles Antoine Zola (Parigi, 2 aprile 1840 - Parigi, 29 settembre 1902), che per questa ragione venne licenziato dal giornale per cui lavorava.

L’amicizia con Zola che nacque dopo questo episodio fu per Manet seconda solo a quella per il poeta (e brillante critico d’arte) Charles Pierre Baudelaire (Parigi, 9 aprile 1821 - Parigi, 31 agosto 1867) presente in mostra con suoi brani a commento delle diverse sezioni) ed a documentarne l’omaggio riconoscente per l’essersi schierato pubblicamente al suo fianco è il ritratto che gli dedica (Émile Zola, 1868) e che domina in posizione centrale la prima sala della mostra.
Artista che dipinge sempre e solo in studio, attrezzandolo in funzione del ritratto o del soggetto (come si è già visto altrove nell’“Odalisca dai calzoni rossi”, e prediligendo i colori nero e bianco giustapposti rinunciando al chiaroscuro, Manet non viene meno a questi suoi caratteri identificativi anche in quest’opera nella quale Zola è seduto in poltrona, assorto e con lo sguardo rivolto davanti a sé con in mano un libro aperto.
Sul tavolino in secondo piano diversi oggetti rimandano a lui: un vaso laccato che contiene una pipa, il calamaio per l’inchiostro con infilata una penna, e dietro ad essi, fra numerosi libri disposti alla rinfusa, spicca soprattutto la copertina azzurra di un volumetto che riporta come autore Zola ed intitolato Manet!
Un colore che il pittore non sceglie a caso: è infatti proprio quello delle pubblicazioni legate alle mostre al Pavillon de l’Alma - dal nome dell’omonima piazza parigina presso la quale si trovava (celebre per il monumento del 1989 che replica la fiamma della Statua della Libertà ed a sua volta così chiamata per la vicinanza al ponte intitolato alla città vicina a Sebastopoli dove la coalizione di Francia, Inghilterra e Turchia vinse la prima importante battaglia contro i Russi nella Guerra di Crimea) - dove nel 1867, a margine dell’Esposizione Universale di quell’anno, Manet allestì a proprie spese una “personale”.
L’iniziativa ebbe il sostegno di Zola che, l’anno precedente, aveva manifestato pubblicamente la propria indignazione per il fatto che la giuria del Salon aveva rifiutato di ammettere due tele di Manet: Il pifferaio (che vedremo più avanti) e L’attore tragico.
Di tutto ciò non ci si deve però stupire: le regole del Salon erano chiare: riprendere l’arte del Rinascimento italiano, i Veneti, i Classici, con la loro pittura ben definita e fatta di prospettiva, chiaroscuri ed ombre. Di ciò fecero le spese anche gli Impressionisti, a loro volta non accettati perché accusati di dipingere in maniera confusa (ancora in Vista dall'Africa: la mia Europa che dipinge leggi di più >>>).
Alle sue spalle, sulla sinistra un paravento che rimanda agli stili allora in voga delle chinoiserie e del giapponismo, evocato, dalla parte opposta, da una stampa giapponese Ukyo-e: il lottatore di Utagawa Kuniaki.
Dietro ad essa, seminascosta, è la riproduzione di un’incisione: un particolare tratto dal “Trionfo di Bacco” di Velázquez, a rimarcare l’interesse di Manet e della sua cerchia per la cultura ispanica.
Ed infine, emblematica col suo sguardo che rivolge verso Zola con riconoscenza, una riproduzione proprio de L’Olympia!

Altro letterato che ebbe un grado di confidenza con Manet molto elevato è il poeta, drammaturgo, professore di lingua inglese e traduttore degli scritti di Edgard Allan Poe, Stéphane Étienne Mallarmé (Parigi, 18 marzo 1842 - Valvins, 9 settembre 1898). I due si conoscono nei primi anni ’70 dopo che Mallarmé aveva pubblicato due lunghi articoli che celebravano Manet come maestro e caposcuola di una pittura autenticamente moderna sia per la tecnica innovativa sia per l’approccio intellettuale.
In quello del 1874, Le Jury de Peinture pour 1874: et M. Manet, Mallarmé reagisce al fatto che il Salon di quell’anno abbia accettato La ferrovia ma rifiutato Le rondini, entrambi dipinti l’anno prima.
Nel suo ritratto del 1876, con una pennellata precisa e spontanea, Manet ci mostra tutta la disinvolta, indolente, eleganza dell’amico scrittore. Mollemente accomodato su un divano davanti ad una tappezzeria a fiori, sulla quale risalta il blu della giacca a doppia fila di bottoni, tiene la mano destra in tasca mentre con la sinistra fa scorrere quasi inconsapevolmente alcuni fogli bianchi appoggiati su un libro e regge fra le dita un sigaro acceso il cui fumo azzurrognolo sale nella stanza quasi fosse segno dell’ispirazione che il poeta va cercando con lo sguardo perso nel vuoto.

Personalità di rilievo nell’ambito delle frequentazioni di Manet, e che ritroveremo più volte in mostra è Berthe Morisot (Bourges, 14 gennaio 1841 - Parigi, 2 marzo 1895): sua modella in numerosi ritratti dal 1868 con il primo, Il balcone (anch’esso in mostra), quando è ancora una ragazzina, fino al 1874, dopodiché non ve ne saranno più altri. Nel dicembre di quell’anno, infatti, Berthe sposa Eugène, il fratello di Édouard Manet.
Ed è proprio del 1874 il dipinto che vediamo in mostra, Berthe Morisot con il ventaglio, nel quale la vediamo vestita a lutto per la recente morte del padre davanti ad uno sfondo screziato dal verde delle foglie di piante da appartamento.
Bellezza “spagnola” dai lineamenti affilati e raffinati, con i capelli raccolti a scoprire l’orecchio proteso e lo sguardo per distacco rivolto altrove, siede su un sofà bianco a fiori che risulta essere un dono di nozze e con un delicato gesto della mano sinistra (ben studiato dal pittore) apre il ventaglio sollevando il dito mignolo in modo da mostrarci l’anello nuziale.
Non solo modella (che incontreremo di nuovo in questo ruolo in altri due dipinti di Manet nell’ultima sezione della mostra dedicata all’universo femminile) ma a sua volta pittrice (nella VII sezione, delle feste parigine, vedremo un suo dipinto), in un tempo in cui l’uomo poteva essere pittore per mestiere mentre la donna poteva dedicarsi a quest’arte soltanto per hobby, è l’unica rappresentante del suo genere nel gruppo degli Impressionisti alla cui mostra del 1880 esporrà con 14 altri autori.
Nel 1868 al Louvre, dove lei si trovava a disegnare, grazie a Fantin Latour che li presenta, conosce Manet che vi passeggiava e che, dall’incontro con la forte personalità di Berthe, dagli anni Settanta in poi verrà indotto a modificare lo stile della sua pittura portandolo a praticare anche la pittura all’aperto (en plein air), peculiare degli Impressionisti. Infatti nel 1870 si avvicina a Monet e Renoir e con loro lavora ad Argenteuil arricchendo la sua tavolozza di una nuova luminosità.

Nel proseguire la conoscenza degli artisti frequentati da Manet, Carolus-Duran continua in mostra ad essere il principale anfitrione che ce li presenta. Anche in ritratti di coppia, come nel quadro del 1861 in cui riconosciamo sulla destra Ignace Henri Jean Théodore Fantin-Latour (Grenoble, 14 gennaio 1836 - Buré, 25 agosto 1904), celeberrimo per i suoi vasi di fiori (che vedremo più avanti nella IV sezione della mostra, dedicata alla Natura inanimata), e sulla sinistra il pittore, caricaturista, illustratore ed incisore Henri-Charles Oulevay (a sinistra), (Drancy, 19 luglio 1834 - ? 1915).

Fino a proporci sé stesso in Il convalescente (1860 ca.). Questo dipinto, di poco posteriore al trasferimento a Parigi da Lille dell’artista nel 1853, anno a partire dal quale assumerà lo pseudonimo col quale è conosciuto, è in realtà uno dei due frammenti superstiti di una composizione di maggiori dimensioni: La visita al convalescente. Opera grazie alla quale ottiene una borsa di studio per l’Italia vincendo, nel 1861, il concorso Wicar di Lille: istituito da Jean-Baptiste Wicar (1762-1834), pittore neoclassico, collezionista e benefattore del museo di Lille, per sollecitare gli artisti a dimostrare le proprie conoscenze nel campo della prospettiva, dell’anatomia, della pittura e dell’espressione.
Per la sua fattura vigorosa e la luminosità dei colori, col rosso scarlatto della camicia che spicca sul bianco del cuscino, di nuovo ripreso dalle cuciture dei profili di colletto, polsini e cannoncino (la fascia anteriore nella quale sono ritagliate le asole), Il convalescente è una delle opere più riuscite di Carolus-Duran e dimostra con evidenza come il riferimento dell’artista fosse la corrente del realismo, sostenuta da Zacharie Astruc, amico suo come di Fantin-Latour e Alphonse Legros, che a loro volta l’hanno incoraggiato a perseguire questa strada.
E non sfugge a nessuno l’influsso di Courbet e del suo Uomo ferito: che Carolus-Duran aveva potuto ammirare nel 1855, nel padiglione del Realismo, eretto da Courbet durante l’Esposizione universale.
La distribuzione compositiva del quadro, che crea un’inquadratura originale alla Degas, ne accentua la modernità. Ed è forse proprio questa la ragione che spiega il perché, nonostante il successo ottenuto, Carolus-Duran non fosse soddisfatto dell’opera originale, al punto da tagliarla a pezzi per conservarne soltanto un cane bianco e questo Convalescente. Del quale, a riprova di quanto appena affermato, esiste anche una variante (con i colori rosso e bianco invertiti per importanza) intitolata L’uomo assopito, che l’artista ha donato al museo di Lille nel 1862.
Che, infine, si tratti di un autoritratto lo dimostra il confronto con l’immagine di Carolus-Duran dipinta da John Singer Sargent: uno degli allievi che frequentavano il suo atelier.
Erano in media circa 25, due terzi dei quali inglesi ed statunitensi, e Carolus-Duran si dedicava a loro con puntuale regolarità il martedì e il venerdì. A parte le spese per il riscaldamento dello studio ed il compenso alle modelle, l’insegnamento era gratuito e consisteva nella sola correzione dei lavori degli studenti senza dire loro neppure una parola.
«Esprimere il massimo con il minimo mezzo» era l’obiettivo di Carolus-Duran, secondo il quale il ritratto doveva essere realizzato senza uno schizzo preparatorio ma aggiungendo direttamente sulla tela i dettagli via via costruiti a partire dall’abbozzo delle cinque o sei parti principali del viso; che dovevano essere dipinte immediatamente: evitando di fonderle tra loro e ponendo la maggiore attenzione sugli effetti di luce anziché sulla costruzione delle masse e dei volumi.
L’atelier era poi aperto al pubblico il giovedì mattina, dalle 9 alle 11, quando il maestro vi accoglieva i visitatori, per lo più suoi clienti dell’alta società. In proposito, quando la pittura francese evolveva nell’impressionismo, gli si rimproverò – come fece Camille Pissarro - di non aver utilizzato il suo talento a servizio di un’arte più sincera e meno accondiscendente verso i desideri del pubblico facoltoso.
Émile Zola disse di lui: «Rende Manet comprensibile ai borghesi, s’ispira a lui solo fino al punto in cui piace al pubblico. Aggiungete che è un tecnico molto abile e sa piacere ai più».
In effetti, Carolus-Duran seppe destreggiarsi tra l’accademismo d’un Cabanel e le novità portate dai suoi contemporanei: fu il pittore del cosiddetto «bel mondo», il ritrattista dell’aristocrazia e dell’alta borghesia della Terza Repubblica francese.

Una critica simile venne rivolta a Giovanni Boldini (Ferrara, 31 dicembre 1842 - Parigi, 11 gennaio 1931). Anch’egli amico di Manet, e celeberrimo per le sue donne della Belle Époque, gli si avvicina stilisticamente per i neri, grigi e bianchi che vediamo nel Ritratto di Henry Rochefort - 1882 ca. Una rarità che ci sorprende trattandosi di uno dei soli tre ritratti maschili dipinti dall’artista ferrarese. Per chi ne conosca un poco la veemente pittura, la ragione della scelta potrebbe essere colta nell’energia di pensiero che traspare dalla vivacità dello sguardo del soggetto: che Boldini capta e ci restituisce.
Victor Henri Rochefort, marchese di Rochefort-Luçay (Parigi, 30 gennaio 1831 - Aix-les-Bains, 30 giugno 1913), è stato infatti un letterato, autore di teatro, giornalista polemista e uomo politico di idee radicali (noi dobbiamo accontentarci di Sgarbi!).
Siamo nel tempo del Secondo Impero di Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, meglio noto con il nome di Napoleone III (Parigi, 20 aprile 1808 - Chislehurst, 9 gennaio 1873) e Rochefort è uno dei pochi capace di opporsi al suo potere. Un carattere ribelle che lo porta ad avere una vita rocambolesca costellata di duelli e processi culminati, dopo la Comune di Parigi, nel 1871, ad una condanna all’esilio ed ai lavori forzati in Nuova Caledonia.

Assieme ad alcuni compagni, riesce tuttavia a fuggire nel 1874 ed a tornare in Francia dove pubblica la storia romanzata “L’evadé, roman canaque” ed ispira a Manet il dipinto La fuga di Rochefort - 1881 ca. Quest’opera è uno studio che Manet dipinge ricordando il mare quando per le sue condizioni di salute non vi si può più recare di persona.
Il mare che in gioventù, l’aveva attratto al punto di fargli tentare per due volte l’ammissione all’École navale: nel 1848-49 e nel 1850. Dopo il primo insuccesso si imbarca su una nave scuola per Rio de Janeiro, dopo il secondo rinuncia a questo sogno e “ripiega” sulla carriera artistica.
Ma il mare continua ad esercitare su di lui il suo fascino, come vediamo in questo dipinto: che riempie quasi del tutto risalendo in alto fino quasi a raggiungere il limite superiore della cornice. È una massa d’acqua fatta di pennellate veementi di diversi colori, blu e verde, solcata al centro da una piccola barca che lascia dietro di sé la scia bianca dei remi affondati fra le onde nel suo dirigersi verso l’orizzonte. Qui, seminascosto nella sottile striscia scura della notte e riconoscibile per il colore nero un poco più intenso con cui è dipinta, si intravede la sagoma del veliero in attesa dei fuggiaschi: pronto a prendere il largo per ricondurli in Europa. In mostra l’opera è collocata più avanti, nella III sezione Sulle Rive, noi la anticipiamo qui perché, avendo in mente il suo ritratto di Boldini, sebbene Manet ce lo presenti di spalle, riusciamo a riconoscere Rochefort nella prima figura sulla destra fra gli occupanti della scialuppa in primo piano.

Se fino ad ora abbiamo visto i modelli ritratti in ambiente domestico o su fondo astratto, con i due dipinti che chiudono la sezione entriamo finalmente all’interno degli atelier. Sotto una luce lineare, non molta per la verità, Edgard Degas (il cui nome completo eda Gas-Hilaire German Edgar; Parigi, 19 luglio 1834 - 27 settembre 1917) dipinge una coppia di amici di Manet intenti al lavoro. È il Ritratto dell’incisore Desboutin e del pittore Lepic - 1876-1877).
Sulla sinistra, rosso in viso con la pipa in bocca e il cappello in testa, il bohemien Marcellin Desboutin (1823-1902) si riconosce perché appunto intento ad incidere su una lastra di rame un soggetto che sta osservando fuori scena. Probabilmente un’opera del pittore Ludovic Lepic (1839-1889) che gli siede accanto: dall’aspetto “anarchico” per lo sguardo spiritato e la carnagione livida.

L’Artista al cavalletto - 1865 ca. del pittore ed incisore Théodule-Augustin Ribot (Saint-Nicolas d’Attez, Eure, 1823 - Colombes, Seine, 1891) è infine il lavoro di un impressionista, ironico nel presentarci, disegnato a spatolate di colore, il suo protagonista di cui lascia emergere dall’oscurità generale due punti luminosi: il bianco della fronte ed un naso rosso nel contesto di forti contrasti di chiari e di scuri dai quali anche in quest’opera, ma ancor più chiaramente nei quadri religiosi, si avverte l’influsso che questo seguace di Courbet subì dallo studio in particolare di Josepe de Ribera (conosciuto anche come José de Ribera o Spagnoletto; Xàtiva, 17 febbraio 1591 - Napoli, 2 settembre 1652) - dai contemporanei fu infatti denominato “Il nuovo Ribera” - oltre che dai maestri spagnoli del XVII secolo anche per la dignità che sapevano riconoscere ai miserabili.

A riprova di quanto affermato, anticipiamo qui un altro suo dipinto esposto in mostra nella sezione dedicata all’esperienza spagnola di Manet: il San Sebastiano martire - 1865 ca. In seguito acquistato dallo Stato Francese al prezzo di 6.000 franchi per il Musée du Luxembourg, fu esposto al Salon del 1865 contemporaneamente al Gesù deriso dai soldati e L’Olympia di Manet. In questo realismo dei seicenteschi, fatto di chiaroscuri e di rifiuto della bellezza ideale Ribot ci propone una “nuova” (per chi scrive) versione della vita del santo. Che come è noto (non a tutti, abbiamo di recente letto uno svarione in proposito proprio da parte di chi non avrebbe dovuto commetterlo!) non morì per essere stato bersagliato dalle frecce degli arcieri dell’imperatore Diocleziano (III secolo) ma per un martirio successivo. Dalle ferite causate dai dardi guarì grazie alle cure prestategli da pie donne romane, secondo la tradizione latina, o da angeli, secondo la tradizione nordica (come si è visto in Rubens, l'Italiano leggi di più >>>). Qui a medicarlo sono, invece, due monaci. Uno dei quali si guarda attorno particolarmente preoccupato di essere scoperto da qualcuno e subire la stessa sorte del santo.

II PARIGI CITTÀ MODERNA

La vie parisienne est féconde en sujets poétiques et merveilleux. Le merveilleux nous enveloppe et nous abreuve comme une atmosphère; mais nous ne le voyons pas. Charles Baudelaire

La via di Parigi è feconda in soggetti poetici e meravigliosi. Il meraviglioso ci avvolge e ci disseta come un’atmosfera; ma noi non lo vediamo.

La prima immagine di Parigi che incontriamo è quella vista da un olandese: Johan Barthold Jongkind Johan Barthold Jongkind (Lattrop vicino a Rotterdam Olanda meridionale, 3 giugno 1819 - La Côte-Saint-André, 9 febbraio 1891) trasferitosi a Parigi per dedicarsi alla pittura e che ci propone La Senna a Notre-Dame de Paris - 1864 come la si può vedere in lontananza all’altezza di St. Michel. Pre-impressionista, apre al paesaggio ed all’uso di colori vivaci il gusto del pubblico. Manet lo considererà il più grande paesaggista.
Nelle sfumature del cielo, che occupa per buoni due terzi la tela, si colgono i cambiamenti atmosferici attorno a Notre-Dame, che vediamo nel nuovissimo (all’epoca) panorama di Parigi. Liberata, come altri luoghi celeberrimi (ad esempio il Louvre), dagli edifici che le erano immediatamente a ridosso e ne impedivano la visione in lontananza.

Artefice di questo intervento urbanistico fu il Barone Haussmann (Georges Eugène Haussmann, Parigi, 27 marzo 1809 - 11 gennaio 1891): politico, urbanista e funzionario francese che ricoprì l’incarico di prefetto del dipartimento della Senna dal 23 giugno 1853 al 5 gennaio 1870 ed è soprattutto noto per aver creato, a prezzo di impietose demolizioni di innumerevoli edifici anche storici (fra essi tanti teatri), i grandi boulevard che oggi caratterizzano la capitale francese e che furono voluti per potervi muovere velocemente le truppe impegnate a contrastare i moti insurrezionali che avevano caratterizzato gli anni precedenti e per impedirvi la costruzione delle barricate che in queste vicende avevano svolto un determinante ruolo strategico.
Sotto le direttive dell’Imperatore Napoleone III il funzionario stava dotando la metropoli di nuovi edifici pubblici (scuole, municipi, chiese…) ristrutturando radicalmente interi quartieri. Fra i quali l’Île de la Cité dove creò un grande centro amministrativo, di cui fanno parte la prefettura di Parigi, il palazzo di giustizia e l’ospedale Hôtel-Dieu.

Dal suo centro simbolico e spirituale ci spostiamo verso altri luoghi, quelli che Manet ama frequentare. Alcuni non interessati dai lavori, come la collinetta di periferia, oggi arciconosciuta come nome ma anonima nella rappresentazione di Sanislas Lépine 1835-1892 (Caen, dipartimento Calvados Normandia, nord della Francia, 3 ottobre 1835 - Parigi, 28 settembre 1892): Montmartre, rue Saint-Vincent - 1875 ca.
L’atmosfera è ancora campestre, la strada sterrata e polverosa in primo piano è vuota e vi si nota sul lato sinistro in ombra la canaletta destinata agli scarichi a cielo aperto delle zone non servite dalle opere di urbanizzazione. Al centro un cagnetto si prende la scena e, col gruppo di donne sulla sinistra e l’uomo in camicia bianca poco più lontano dalla parte opposta, definisce le proporzioni della prospettiva inquadrata dagli edifici che fiancheggiano la strada in discesa e si contrappongono dinamicamente ad essa elevandosi verso il cielo. Come i grandi alberi dall’imponente massa fogliare verde che serve da passaggio cromatico fra il cielo e il bruno chiaro delle facciate: quasi un’anticipazione della loro ulteriore semplificazione che anni dopo si potrà vedere in Giorgio Morandi (Bologna, 20 luglio 1890 - 18 giugno 1964). [SI, AGGIUNGI IMMAGINE].
Per il suo stile Manet lo invita ad esporre con gli Impressionisti, quanto a chi scrive, in questo suo dipinto ci pare di riconoscere la stessa luce bruciante del suo coetaneo italiano Telemaco Signorini (Firenze, 18 agosto 1835 - 10 febbraio 1901).

Con altri artisti torniamo invece in pieno centro. Di nuovo sulla Senna, nel 1875, anno in cui Paul Gauguin 1848-1903 (Parigi, 7 giugno 1848 - Hiva Oa, Hawaii 8 maggio 1903) lavora come agente di cambio e colleziona quadri degli Impressionisti cominciando a dipingere soggetti di Manet e Renoir. Colui che sarà tra i maggiori interpreti del Post - Impressionismo, in questo suo Tempo nevoso si mostra debitore verso i suoi ispiratori, e non immune dal realismo di Courbet, esibendo una bravura consumata nel restituirci il cielo plumbeo e la vita che si svolge sul fiume accanto alle banchine innevate sotto i muraglioni: testimoniata dai fuochi accesi a riva e dal filo di fumo che si solleva dalle imbarcazioni attorno alle quali ci si affaccenda nello scarico del legname.
Siamo in un luogo oggi simbolo di Parigi, guardando da ovest le cinque campate ad arco in pietra del ponte Iéna che collega il Trocadéro (sulla riva destra) alla Torre Eiffel (sulla riva sinistra) che però al tempo del dipinto non era ancora stata costruita. Sarà infatti inaugurata soltanto il primo aprile 1889, appena in tempo per celebrare la decima edizione dell’Esposizione Universale (la quarta che si svolse a Parigi dopo quelle del 1855, 1867 e 1878).

Il ponte invece fu voluto da Napoleone nel 1807, per commemorare la vittoria sui Prussiani nella battaglia di Jena dell’anno prima e si lavorò alla sua costruzione dal 1808 al 1814. Le alterne vicende della storia offrirono successivamente un’occasione di rivalsa proprio al generale Blûcher. Coinvolto nel disastro di Jena (dove però non era al comando) avrebbe obbligato Gauguin a scegliere un altro soggetto, o a dipingere un paesaggio differente, se avesse dato seguito alla sua intenzione di farlo saltare quando arrivò ad occupare Parigi dopo la vittoria di Lipsia nel 1813. Tuttavia Luigi XVIII, insediato dal 1814 sul trono di Francia, si oppose e il ponte fu salvato. Fu però rinominato Pont de l’École Militaire e solo dopo la fine dell’occupazione riprese il nome originale.

E dalla parte opposta del ponte, l’anno dopo, grazie al caposcuola degli Impressionisti Claude Monet, successivamente divenuto amico di Manet ma in un primo momento offesosi quando un giornalista lo confuse con il collega quasi omonimo. Le Tuileries, del 1876, nella visione del pittore che studiava la luce alle diverse ore del giorno e dipingeva solo in plein air senza far uso del nero e del bianco, sono un giardino che ci appare come un luogo quasi selvaggio e sembra aver dimenticata la sua origine pertinenziale alle residenze imperiali (di cui più oltre in mostra vedremo un interno). Ripreso da un piano alto, presenta una diversa pennellata fra gli alberi in primo piano e quelli oltre il laghetto, con una composizione a spirale che sfuma fra le linee oblique del cielo nel quale riconosciamo in lontananza la cupola d’oro degli Invalides.

Con Paul Signac (Parigi, 11 novembre 1863 - 15 agosto 1935), che diede vita, assieme a Georges Seurat, al Puntinismo e alla tecnica del Divisionismo, lasciamo il centro monumentale e torniamo a registrare la “città che sale”. Influenzato da Monet e Sisley, Signac ci piace per l’allegria ed i colori che infonde nei suoi paesaggi. La strada di Gennevilliers, del 1883, è un luogo vicino a casa sua, fra la stazione di Asnières e il mercato, che negli anni ’70 aveva ispirato gli Impressionisti e dove lo stesso Manet aveva il suo famoso giardino in cui coltivava fiori.
Senza dare un giudizio morale, ma solo per mostrarci come il paesaggio evolve, l’artista fotografa lo stato dell’urbanizzazione in corso. In quelle che sono, ancora per poco, campagne, sono già tracciate (e denominate, come indica il cartello) le strade che dividono i lotti.
Qualche albero, rado nell’impianto come nella vegetazione che sembra faticosa, proietta trasversalmente alla carreggiata la sua ombra blu e già prefigura l’odierna “eterna” contesa di spazio fra le necessità della natura e la città con le sue fabbriche: che qui non c’è ancora ma che avanza sulla linea dell’orizzonte come la foresta di Macbeth in un’aggiornata, lapidea, profezia.

Una città che cresce e che in mostra è documentata da disegni tecnici di edifici civili, sacri e residenziali progettati e realizzati dalla metà degli anni ’60 fino al 1880. Ed è proprio in questo periodo che si diffonde ed afferma l’architettura del ferro: a partire dal progetto per la biblioteca Sainte-Geneviève in cui Henri Labrouste prevede una struttura metallica che dalle fondamenta sale fino al tetto dell’edificio.
I principali esempi di queste innovazioni architettoniche sono legati alla prima ed alla terza delle Esposizioni Universali tenutesi a Parigi.

Di Max Berthelin (Francese 1811 - 1877), vedute in prospettiva ed in sezione del Palazzo dell’Industria (1854): alto 48 m, fu costruito per superare i 22 m del Cristal Palace della prima edizione dell'Expo di Londra (1851), ma la sua struttura non resse e crollò.

Di Juste Lish (1828 - 1910) le facciate principale e laterali della Stazione Champ-de-Mars per l’Expo 1878 documentano come sia arrivata a trionfare la tendenza di realizzare fabbricati con travi di ferro a vista e rivestimenti colorati in maiolica o terracotta dipinta.

Una modalità costruttiva proposta anni prima come documenta la Casa a graticcio metallico con rivestimento in piastrelle - 1871 di Eugène Viollet-le-Duc (Parigi, 27 gennaio 1814 - Losanna, 17 settembre 1879), noto per la controversa azione di restauro di edifici medievali, in particolare Notre Dame a Parigi e la cittadina di Carcassonne in Linguadoca.

III SULLE RIVE

Un primo contatto della relazione fra Manet e l’acqua già l’abbiamo avuto anticipando osservazioni su La fuga di Rochefort, che in mostra trovava però coerente collocazione assieme ad altre sue opere particolarmente suggestive alle quali la accomunavano l’ambientazione notturna e la luna piena.

Nel 1869 Manet si stabilisce a vivere per qualche tempo con la famiglia sulle coste del Nord della Francia, in un albergo con vista sul porto di Boulogne-sur-Mer e qui, guardandolo dalla finestra, dipinge il Chiaro di luna sul porto di Boulogne - 1869. Con la poesia “in blu” (il colore dell’anima) delle luci e delle ombre delle barche sotto la luna avvolta dalla foschia e le stelle, le botti sulla banchina a definire il primo piano ed il gruppo di donne che in piena notte attende il ritorno dei pescatori per aprire il mercato del pesce.

Su tutto incombe un’atmosfera drammatica e misteriosa, che ritorna anche nei due disegni in bianco e nero tracciati ad inchiostro di china diluito e grafite in cui ci mostra sé stesso alla finestra, ed il mare aperto solcato dalle vele, veloci sotto la spinta del vento come sono veloci i tratti essenziali che definiscono la scena in Alla finestra - 1875 e Marina con vele al chiaro di luna - 1875 e che ritroviamo ancora, più placida, in acquerello: Marina - 1868 ca.

Maestro in questi paesaggi è stato senz’altro Eugène Boudin (Honfleur, dipartimento Calvados in Normandia, 12 luglio 1824 - Deauville, 8 agosto 1898). Un poco più a sud, la Normandia è la meta comune per gli artisti francesi del tempo, che si incontrano a dipingere nei dintorni di Le Havre ed a Honfleur. Qui Boudin possiede una cartoleria in cui espone le opere dei pittori di passaggio. Nel 1858 ha così l’occasione di conoscere il giovane Claude Monet, che accompagna a dipingere dal vero avviandosi così a sua volta alla pittura.
Di lui ci è qui però proposta non una marina ma La colazione sull’erba - 1866 meno deflagrante rispetto al Dejeuner sur l’herbe col quale Manet provoca scandalo al Salon des Refusées del 1863.
Non poteva essere altrimenti: in questo schizzo dal vero troviamo donne elegantemente vestite e non nude anche perché si tratta della famiglia del fratello di Édouard, Eugène, come comprendiamo dalla dedica in basso a destra: alla Sig.ra Eug. Manet 10/10/’66, Berthe Morisot.

I nudi li ritroviamo in Pastorale 1870 o Idillio di Paul Cézanne (Aix-en-Provence, 19 gennaio 1839 - 22 ottobre 1906), soggetto già incontrato, nella versione in bianco e nero, nelle collezioni della Johannesburg Art Gallery (già prima più volte richiamata leggi di più >>>).
Due amanti, una grande montagna sullo sfondo di un paesaggio con acque ed una natura sensuale e con accenti fantastici, come i corpi delle donne nude che circondano l’uomo vestito… Qui sì ritroviamo il Dejeuner di Manet. Capofila della pittura moderna Cézanne sviluppa una pennellata più sciolta ed diverso stile compositivo che non si cura delle proporzioni, come vediamo delle dimensioni della bottiglia e del bicchiere abbandonati sul prato.
A Manet però è debitore e proprio il desiderio di confrontarsi con lui lo indusse a trasferirsi nel 1860 dalla Provenza a Parigi dove i due si incontravano al Café Guerbois.

Tutt’altro stile, solo l’anno successivo, nelle Variazioni in viola e verde - 1871 di James McNeill Whistler (James Abbott McNeill Whistler; Lowell, Massachusetts, 10 luglio 1834 - Londra, 17 luglio 1903).
Inizialmente figurativo passa a questo genere di soggetti dopo aver visto le stampe di Hiroshige (1797 - 1858, Ukiyo-e immagini del mondo fluttuante, leggi di più >>>).
Come in queste non ci sono ombre, il primo piano è vuoto, lo scafo della barca è dipinto con due tocchi di pennello e la cornice è decorativa. Quest’opera risulta dipinta sul Tamigi, mentre il sole vi tramonta durante un gita in battello a vapore assieme alla madre.
Attratti, come si è visto, dallo studio della luce e dei suoi mutamenti, i pittori sono istintivamente affascinati dall’acqua dei fiumi e del mare. Ma è proprio Whistler che, prima di altri, apre la strada al rinnovamento indicando, a partire dai titoli delle sue opere e dalle loro composizioni, che il soggetto deve essere sottomesso agli “accordi”, alle “variazioni” di colore immaginate dall’autore.

Infine, anche in questa sezione è documentato l’Impressionismo in senso stretto con Argenteuil - 1872. In questo sobborgo di Parigi, meta di gite domenicali, Monet vive dal dicembre 1871 al 1877 quando ritorna in Francia dopo un soggiorno a Londra. Sono gli anni che vedono la fioritura dell’Impressionismo e Monet vi viene raggiunto da Renoir, Sisley e Caillebotte, ciascuno alla ricerca del proprio stile.
Joris-Karl Huysmans (Charles-Marie-Georges Huysmans; Parigi, 5 febbraio 1848 - 12 maggio 1907), che influenzò il decadentismo, scrisse che l’acqua ha diversi colori, non è sempre soltanto blu ma ha toni verdi e grigi, e riflessi, camoscio e ardesia…
E così fa Monet: osserva il cielo e l’acqua, gli effetti fugaci della luce, così l’acqua riprende i colori del cielo e, per contrasto i verdi diversi: scuri e chiari della vegetazione. Questi infiniti riflessi dell’acqua, trattati in modi molto diversi, la Senna e le barche a vela sono i soggetti che predilige in questo periodo.

IV NATURA INANIMATA

Dalla natura in esterni alle nature morte, che il critico Thoré definisce “dipinti di natura inanimata”, per Manet il passo non è lungo. Sebbene non sia per lui un soggetto frequente, negli anni tra il 1864 e il 1865 espone nella galleria Martinet e Cadart una serie dedicata alle peonie, che sono apprezzate.
La peonia, a volte sommariamente abbozzata, è il suo fiore prediletto: una pianta di lusso, giunta da poco in Europa e apprezzata da una clientela agiata, che l’artista coltiva nel giardino di Gennevilliers.
Dai suoi fiori promanano al medesimo tempo malinconia - evidente allusione alla caducità ed alla morte - ma anche leggerezza e voluttà.
Lo dimostra in Ramo di peonie bianche e cesoie - 1864. Resi solo con un colore, con il verde dello stelo che è come se non ci fosse, in questi fiori, anche se la natura è inanimata, c’è vita!
Sono ancora traboccanti di vita i fragili petali, accanto ai quali le cesoie appoggiate sul tavolo danno un accento drammatico sottolineando il momento di passaggio vita-morte del fiore.

Più tardo è L’asparago - 1880 in cui l’artista confonde il primo piano del ripiano in marmo con lo sfondo ed equilibra le masse con la firma. Curiosità di questi anni sono i giochi di pittura-scrittura di cui vediamo un segno in alto.
Questo quadretto (di circa 17x22 cm) è un ironico divertimento di Manet. Per il critico e collezionista Charles Ephrussi (24 dicembre 1849 – 30 settembre 1905) aveva infatti in precedenza dipinto un mazzo di asparagi (su fondo scuro) per il quale aveva richiesto il pagamento di 800 franchi. Poiché l’acquirente gliene aveva invece voluti pagare 1.000, Manet gli inviò questo omaggio accompagnato da un biglietto sul quale aveva scritto: “al suo mazzo ne mancava uno”.

E non è l’unico caso in cui, ormai molto malato, il pittore si limita a rappresentare un singolo soggetto. A volte invia agli amici piccole tele, mentre delicati acquerelli impreziosiscono spesso le sue lettere.

Infine, giunto quasi al termine della sua vita, quando il venir meno delle forze non gli consente di sostenere la fatica fisica necessaria per dipingere grandi composizioni, dopo la prima esperienza a metà degli anni ’60, Manet torna ai piccoli formati e dipinge piccole tele di nature morte con frutti e fiori dei quali coglie intensità, splendore e vitalità, fermando la vita nelle manifestazioni più caduche e rifacendosi al filone della vanità caro alla pittura olandese.
Fiori in un vaso di cristallo - 1882 sono la bellezza leggera delle rose ma anche l’intreccio degli steli nell’acqua torbida che la trasparenza del contenitore ci permette di vedere. Il quadro riporta la dedica al dott. Thomas W. Evans, che lo acquista direttamente dall’artista. Nella polemica che suscitava la sua arte questi dipinti costituirono un caso a parte. Zola riferisce infatti che i nemici più acerrimi del talento di Manet riconoscono che sa dipingere bene gli oggetti inanimati! E questo anche nei suoi dipinti che più hanno suscitato scandalo. Che bello il tempo in cui il dibattito pubblico era incentrato su temi culturali come la pittura. Oggi purtroppo…

Sicuramente più rassicurante, l’avevamo anticipato incontrandone il ritratto in apertura fra gli amici di Manet, il pittore che ancora forse più colpisce lo spettatore per come dipinge le nature morte con fiori è Henri Fantin-Latour. Il suo Vaso di fiori - 1873 è tutt’altro dall’analogo soggetto di Manet appena visto.
Il modo in cui restituisce la brillantezza del cristallo del vaso a forma di calice è uno dei più limpidi da Caravaggio ai giorni nostri. Anche qui troviamo rose, non appariscenti ma sobrie e delicate, con un bocciolo di tulipano: fiore per il quale andavano pazzi nell’Inghilterra Vittoriana.
Per la qualità della sua pittura Fantin-Latour può avvicinarsi all’Accademia e nobilita anche in Francia questo soggetto, espressione della caducità della vita, prima poco considerato perché la maggiore importanza era attribuita alla pittura storica.

In Garofani - 1877 troviamo invece un fiore profumato e caro ai pittori di nature morte perché in esso si specchia l’allegoria dei cinque sensi. L’autore li dispone in tutte le fasi vegetative, dal bocciolo alla piena fioritura, su fondo cupo per dare risalto alla varietà di forme e colori. Qui il vaso, invece, quasi scompare sullo sfondo granuloso: realizzato con la tecnica dello sfregazzo nella quale, con un pennello dal pelo grezzo e rado, si sovrappongono uno strato di colore chiaro ed uno strato scuro.

Fantin-Latour inizia a dipingere le nature morte tanto ammirate da Zacharie Astruc negli anni sessanta dell’Ottocento, dopo un soggiorno in Inghilterra che gli dà modo di farsi apprezzare dalla clientela britannica.
Astruc dedica a Fantin-Latour un lungo articolo di elogio in occasione del Salon del 1863. Sebbene il pittore non abbia inviato alcuna natura morta, il critico scrive:

“I suoi fiori sono altrettante meraviglie di gusto, arte, impiego del colore. Sono interessanti quanto seducenti, si potrebbe addirittura sostenere che siano commoventi. Sono sorprendenti sequenze ritmiche di toni, freschezze, abbandoni e vivacità. La loro bellezza conquista. Quei delicati mazzi di fiori rappresentano la natura con tutte le sue morbidezze, i suoi languori, il suo passeggero splendore [...] Fantin è il poeta dei fiori in pittura; le espressioni di dolcezza costituiscono la natura stessa della sua arte”.

Bisognerà però attendere gli anni settanta dell’Ottocento perché il mercante Durand-Ruel acquisti le prime tele del pittore, che tuttavia già riscuotevano un certo successo in Inghilterra.

E sempre un Impressionista chiude anche questa sezione. Auguste Renoir (Pierre-Auguste Renoir; Limoges Francia centro occidentale dipartimento dell’Alta Vienne, nella regione Nuova Aquitania, 25 febbraio 1841 - Cagnes-sur-Mer, vicino a Nizza, Costa Azzurra, 3 dicembre 1919), considerato tra i massimi esponenti di questa corrente artistica.
Mazzo di fiori su una sedia - 1878-1880 ca. Sono rose bianche, una massa rotonda fatta di brevi pennellate nervose le cui linee contrastano con l’omogeneità della carta leggera che le avvolge. Non è facile capirlo senza esservi indirizzati, ma siamo all’Opéra, nel contesto delle feste in maschera che vi si svolgevano. E questi fiori sono un bouquet in omaggio per un’elegante spettatrice, adagiati sulla poltroncina in velluto rosso di un palco del teatro. Teniamolo a mente, più avanti capiremo perché.

V L’HEURE ESPAGNOLE

Fin dai suoi esordi in pittura Manet fu attratto sia dalla pittura antica, con frequenti riferimenti ai maestri italiani, in particolare Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1488/1490 - Venezia, 27 agosto 1576), sia dal mondo spagnolo. Già da giovane si ritiene che ne studiasse la pittura visitando la “galleria spagnola” di Luigi Filippo, ospitata al Louvre dal 1838 al 1848, che comprendeva circa quattrocento dipinti in seguito dispersi a Londra.
Provava poi a replicarne le suggestioni nelle sue opere. Lo fece con Il bevitore di assenzio, ma non fu compreso dalla critica perciò pensò che avrebbe avuto migliore sorte con soggetti esplicitamente ispirati alla Spagna e al suo folklore. Arrivò così al Chitarrista spagnolo del 1860, esposto con grande successo al Salon l’anno seguente. Lodato per il suo realismo a dire il vero contiene un notevole errore perché, siccome il modello (francese) era mancino, la chitarra risulta imbracciata al contrario e con le corde gravi verso il basso: dunque insuonabile!

Convinto di aver trovato la chiave del gusto del pubblico e di poter replicare il successo del chitarrista esponendola al Salon del 1863, nel 1862 Manet dipinge Lola di Valencia - 1862.
La protagonista, Lola Melea, amica madrilena del pittore, era una stella del balletto spagnolo che andava in scena a Parigi nel 1862 e nel quale si esibiva col nome d’arte che dà il titolo al dipinto.
La composizione trova evidente ispirazione in Francisco Goya, Lola è infatti ritratta nella stessa posa della sua Duchessa di Alba oggi presso la Hispanic Society of America di New York.
In origine lo sfondo era nero, con i colori appena accennati, successivamente il pittore aggiunge le quinte della scenografia, rappresentando la ballerina nel momento in cui sta per entrare in scena: nel sottile spiraglio lasciato sulla destra si vedono infatti due clown che attendono la sua entrata e, in lontananza, i palchi del teatro carichi di pubblico. Vero protagonista è il vestito, elegante e sontuoso, arricchito da gioielli come il bracciale d’oro e la collana di corallo ed accessori come il ventaglio e la mantiglia… tutti concorrenti ad evocare il folclore di Spagna che tanto successo conobbe in Francia fra fine Ottocento e inizio Novecento in ogni campo artistico. Ricordiamo che Carmen debutterà nel 1875, mentre L’Heure espagnole di Ravel arriverà solo nel 1907: dunque, seppur linguisticamente efficace, il titolo di questa sezione è un po’ anacronistico e sembrerebbe rivelare una non precisa competenza musicale dei curatori della mostra.

Se da un lato il dipinto scandalizzò la critica, dall’altro suscitò le ferventi ammirazioni di Charles Baudelaire, fra i maggiori scrittori del tempo, destinato a divenire uno dei maggiori protettori del Manet nel corso della sua carriera. Baudelaire dedicò a Lola de Valence versi con esplicite allusioni erotiche:

« Entre tant de beautés que partout on peut voir, / Je comprends bien, amis, que le désir balance; / Mais on voit scintiller en Lola de Valence / Le charme inattendu d’un bijou rose et noir » « Tra tutte le bellezze che ovunque si possono vedere / capisco bene, amici, che il desiderio oscilla / ma in Lola de Valence inatteso scintilla / l’incanto di un gioiello nero e rosa ».

Questa quartina non fece tuttavia che suscitare l’ilarità maligna del pubblico, considerata la bellezza decisamente mascolina di Lola, che mal si sposa con l’«incanto» celebrato da Baudelaire.

Nell’autunno del 1865, dopo le critiche e lo scandalo provocati dalla presentazione di Olympia al Salon, l’amico Zacharie Astruc raccomanda a Manet (e gli organizza) un viaggio in Spagna.
Meravigliato da ciò che vi scopre, scrive da Madrid a Fantin-Latour:

“Velázquez [...] da solo vale il viaggio; i maestri di tutte le scuole che lo circondano al museo di Madrid e sono molto ben rappresentati sembrano tutti degli impostori. È il pittore dei pittori: non mi ha sorpreso, mi ha estasiato”.

Tornato in patria, Manet si riallaccia al pittoresco immaginario dell’arte spagnola di cui sono testimonianza altri tre suoi dipinti di questa sezione.
Combattimento di tori - 1865-1866 è una tauromachia che origina da uno schizzo dal vero di una corrida in cui il toro si avventa sul cavallo di un picador atterrandolo. Colpiscono l’aspetto vibrante della folla scossa dall’episodio che sta avvenendo sulla sabbia dell’arena sulla quale il nuvoloso cielo scuro concentra la luce che accende il quadro.

Sotto una luce cruda, reggendo in mano un ventaglio dai nastri rosa è Angelina - 1865.
Il titolo è di Gustave Caillebotte che l’acquista, quello originale era Dama alla finestra.
Così da scena di genere diventa il ritratto di una dama spagnola di età indefinita.

Oltre che nella scelta dei soggetti, Manet ribadisce la propria inclinazione spagnoleggiante accogliendo la lezione di virtuosismo tecnico offerta da Velázquez. Agli sfondi neutri e all’aria che circonda le figure ritratte dal maestro di Siviglia rimanda anche l’immagine simbolo della mostra: Il pifferaio - 1866 destinato al Salon del 1866 che, ancora una volta, lo rifiuterà.
Provocatorio non per il soggetto, un membro dei Volteggiatori (corpo creato da Napoleone nel 1810 a partire dai cacciatori) della Guardia Imperiale, ma per la radicalità del trattamento pittorico, il dipinto fonde in sé due tradizioni.
Quella spagnola, con esplicito riferimento alle serie di ritratti di nani e buffoni di Velázquez, i cui soggetti avevano tutti posture identiche a quella del Pifferaio di Manet.
E quella giapponese, tanto cara a molti pittori del tempo, evocata soprattutto per il “peso” dato alla figura: che risalta netta, per i colori della divisa (il tricolore di Francia) e del viso dalle gote rosse, rispetto allo sfondo astratto, molto scarno e povero di dettagli.
I colori sono stesi con naturalezza per campiture piatte, non c’è prospettiva e non ci sono ombre, ad eccezione di quella tenue del piede destro. La critica disse che è un dipinto che sembra una carta da gioco!
Zola lo cita, Gauguin lo ammira, assieme ad esponenti del cloisonnisme per Expo del 1889, come una testimonianza del talento di Manet “fatto di semplicità e armonia”.

Il cloisonnisme (compartimentismo, divisione in compartimenti) è una tecnica pittorica che consiste nel racchiudere le campiture cromatiche entro il limite netto di un contorno, senza effetti chiaroscurali, creando in questo modo delle stesure compatte di colore. Il termine, utilizzato la prima volta dal critico d’arte Édouard Dujardin, richiama la tecnica, risalente al medioevo, di costruzione delle vetrate dove i contorni delle figure formano dei compartimenti (cloisons) i quali contornano i singoli pezzi di vetro colorato; un effetto simile lo si ottiene con la tecnica dello smalto su metallo, dove a ogni colore è riservato uno spazio che viene riempito con polvere di vetro, il manufatto è poi sottoposto ad alte temperature che fondono il vetro, andando a formare colori compatti e privi di effetti chiaroscurali. Scrisse Dujardin che « questi quadri danno l’impressione di una pittura decorativa, un tracciato esterno, un colore violento e di getto richiamano inevitabilmente l’imagerie e le giapponeserie. Poi, sotto il tono ieratico del disegno e del colore, s’intuisce una verità sorprendente che si libera dal romanticismo della passione, e soprattutto, poco a poco, la nostra analisi viene richiamata sulla costruzione intenzionale, razionale, intellettuale e sistematica [...] il pittore traccerà il disegno con linee chiuse entro cui porrà diversi toni, la sovrapposizione dei quali darà la sensazione della colorazione generale ricercata, poiché colore e disegno si compenetrano a vicenda. Il lavoro di questo pittore è qualcosa come una pittura per compartimenti simile al cloisonné, e la sua tecnica risulterà una specie di cloisonnisme » Il cloisonnisme fu elaborato dai pittori Émile Bernard e Louis Anquetin nel 1887 come reazione al naturalismo luministico dell’impressionismo, la tendenza a prendere l’ispirazione creativa non più sulla sensazione ma sulla ideazione e su una visione incentrata su zone piatte di colore intenso e fu ripreso da Paul Gauguin nella sua celebre Visione dopo il sermone e dalla scuola di Pont-Aven. Una decisa polemica insorse fra Gauguin e Bernard, perché quest’ultimo riteneva di essere stato scavalcato e messo in ombra pur essendo stato l’ideatore della tecnica.

XII LES FEMMES ET LES FILLES

Sur un fond d’une lumière infernale ou sur un fond d’aurore boréale, rouge, orangé, sulfureux, rose (le rose révélant une idée d’extase dans la frivolité), quelquefois violet (couleur affectionnée des chanoinesses, braise qui s’éteint derrière un rideau d’azur), sur ces fonds magiques, imitant diversement les feux de Bengale, s’enlève l’image variée de la beauté interlope.

Su uno sfondo di luce infernale o su uno sfondo di aurora boreale, rossa, arancione, solforosa, rosa (rosa che rivela un’idea di estasi in frivolezza), a volte viola (il colore affettuoso dei colombi, le braci che sfumano dietro una cortina di azzurro), su questi sfondi magici, imitando variamente i fuochi del Bengala, si rimuove la variegata immagine della bellezza interiore.

Baudelaire Le Peintre de la vie moderne, Calmann Lévy, 1885, Œuvres complètes de Charles Baudelaire, tome III (p. 104-110).

Tornando con Baudelaire a Parigi, la città non è solo architettura, urbanistica ed i suoi paesaggi. Ma è persone che ci vivono. Fra i luoghi prediletti dagli artisti, per incontrarsi fra loro e discutere anche in maniera accesa, c’erano i caffè e le birrerie. Caffè e brasserie erano inoltre tra i pochi luoghi in cui era possibile incontrare, mescolata, l’umanità dei diversi gruppi sociali, senza distinzioni di classe.
Manet frequenta il Café Tortoni in Boulevard des Italiens, il Café Guerbois in Avenue de Clichy, La Nouvelle Athènes di Place Pigalle, o ancora la Brasserie Reichshoffen sul Boulevard de Clichy.
Ed è proprio in un caffè-concerto, un locale molto alla moda, che Degas e Manet scoprono i soggetti più interessanti, cui lavoreranno con spirito assai differente: graffiante in un caso, vivace e minuzioso nell’altro.

Su questo tema, l’arte di Manet mostra uno spiccato interesse per il basso popolo come per la ricca borghesia. Lo vediamo in due disegni del 1878 ca su carta quadrettata: Scena in un caffè a matita nera e grafite ed un bozzetto ad inchiostro di china diluito e grafite, con appunti per i colori dell’Interno di un caffè.

Ed in La cameriera della birreria - 1878-1879 in cui sono a diretto contatto, nel piano basso del quadro, il cilindro del ricco borghese ed il basco calzato in testa dal popolano che sta fumando la pipa. Fianco a fianco, ma ciascuno isolato nel proprio mondo, il borghese e l’operaio compiono il medesimo gesto in un’atmosfera venata di malinconia.
Contestualizzata in questo modo la scena di genere diventa però ancora ritratto. Lo scrittore e critico d’arte Théodore Duret racconta che a Manet l’idea di questo quadro venne per essere stato catturato dallo sguardo che seduce i clienti e dal virtuosismo di questa cameriera tanto abile nel servire loro boccali di birra.
Così la chiama a posare in studio e stringe l’inquadratura non lasciando allo sfondo che pochi spazi nei quali tutto risulta tagliato: il lampadario, l’artista sul palco, la tenda…

Un’altra Scena di festa (o cena di festa alle Folies - Bergère) - 1889 ca. ce la dipinge Giovanni Boldini dieci anni dopo. Trasferitosi a Parigi definitivamente dal 1871 è il pittore della mondanità. Che vediamo fotografata in questa sua tela, purtroppo molto rovinata e molte parti della quale sembrano solo in abbozzo.
Il colore rosso vi è onnipresente, sulle pareti e richiamato in particolari come i fiori, la sciarpa e le gote rosa della donna in primo piano: in braccio ad uno degli spettatori in disparte nella sala e disinteressati allo spettacolo che si svolge sul palco lontano.
A chi ha occhio attento non sfuggirà la somiglianza di quest’uomo, che sta sorseggiando un liquore, con lo stesso pittore: che sembrerebbe quindi essersi autoritratto in questo luogo in cui tutti sono in equilibrio instabile e che la pennellata vigorosa e dinamica risulta ben adatta a restituirci assieme agli atteggiamenti irruenti di festa e libertà degli avventori che lo animano.
Siamo infatti al caffè-concerto, dove diventano meno rigide le regole sociali che più avanti vedremo condizionavano la vita a teatro. Qui si incontra tutto l’universo maschile: banchieri, grandi e piccoli borghesi, artisti, scrittori. Nel 1897 a Parigi vengono censiti trecentoventisei caffè-concerto.

Tutto è invece immobile in L’attesa - 1885 ca. di Jean Béraud (San Pietroburgo, 12 gennaio 1849 - Parigi, 4 ottobre 1935). Pittore di scuola impressionista ed autore di molte scene urbane con una capacità di resa dei dettagli che lo fa accostare agli scrittori naturalisti, qui ci porta in Rue de Chateaubriand, nel quartiere signorile de L’Etoile.
Nella strada deserta sembra quasi stia per svolgersi un duello fra i due personaggi: la donna, in primo piano dallo splendido vestito nero, e l’uomo, dalla posa rigida, piccolo ed appena accennato in lontananza sotto al lampione.
Questa tela si completa con una seconda dal titolo “La proposta” grazie alla quale la situazione diventa esplicita.

Infine c’è ancora un’altra realtà, poco poetica e finora non ancora vista, ma che probabilmente era prevalente in una società ed in un tempo che da decenni continua senza fine a registrare guerre. Nel 1854, quando Alfred Stevens (Bruxelles, 11 maggio 1823 - Parigi, 24 agosto 1906) dipinge Ciò che viene chiamato vagabondaggio, la Francia, alleata con Inghilterra, Regno di Sardegna ed Impero Ottomano, è impegnata nella guerra di Crimea (all’epoca detta Guerra d’Oriente) contro l’Impero Russo il cui pretesto era la disputa tra Francia e Russia per il controllo dei luoghi santi in territorio ottomano.
Fra i tanti amici pittori di Manet, Stevens, giunto a Parigi dal Belgio nel 1844 e che lo inviterà al Salon di Bruxelles nel 1879, dipinge qui una vicenda accaduta a Parigi nel 1851: l’arresto di donna e dei suoi tre figli rei di aver violato il divieto di chiedere l’elemosina.
È il crimine di non avere un tetto per ripararsi né di un focolare per scaldarsi: che accomuna più gruppi sociali che condividono la sorte di esssere gli esclusi dallo sviluppo economico del II Impero.
Ne troviamo rappresentati diversi in una scena stretta orizzontalmente dai tagli in alto ed in basso dal bianco della neve accumulata a bordo strada ed adagiata sul muro grigio che fa da sfondo neutro alla scena.
Un bianco sul quale emergono, come “variazioni”: il ramo che si protende oltre il confine sulla destra, dal lato opposto i due uccelli a terra a cavallo fra la parte di neve grigia per il calpestio e quella immacolata, ed il mantello di velluto rosso scuro (dal quale spunta il bianco del vestito sottostante) della generosa passante che allunga un portamonete verso l’arrestata.
Questo suo movimento diagonale (equilibrato dalla punta del piede che spunta in basso) innesca tutti gli altri che fanno prendere vita alla composizione. Un soldato la rimprovera puntandole contro il dito accusatore, il bambino che si tiene attaccato alle vesti della madre (che regge in braccio la sorellina, dalla posa forse malata) piange nascondendo il viso con la mano che porta agli occhi per asciugarne le lacrime, mentre un carpentiere di passaggio (riconoscibile come tale per la sega che porta sottobraccio, quasi a guisa di stampella) si volta ed anche lui sembra portare la mano alla tasca.

Il convulso e radioso progresso cittadino si appoggia dunque su un’illusione perversa, perché è sulle fatiche e le lacrime dei poveri che si fonda la prosperità della capitale e si crea l’aspra disarmonia sociale, focolaio di violenze, colta nei dipinti e nei disegni di questa sezione, che lasciano scorgere le difficoltà della vita, l’indigenza, la prostituzione, la miseria morale che si nascondono sotto la maschera della festa.
Il Secondo Impero aveva conosciuto momenti bui, inondazioni catastrofiche, epidemie e scioperi, ma lo sviluppo economico sembrava illimitato e aveva dato a tutti modo di sperare. Nel 1870 la disfatta di Sedan, fulminea quanto inaspettata, impressiona profondamente la popolazione parigina. E alla sconfitta contro la Prussia si viene a sommare la tragica vicenda della Comune: il 18 marzo 1871, sulla collina di Montmartre, scoppia una sommossa. Adolphe Thiers, capo del governo provvisorio della Repubblica, fugge a Versailles e dà inizio all’assedio della capitale che determinerà l’avvento della Comune rivoluzionaria. Il 24 maggio 1871, demoralizzati dall’avanzata dell’esercito all’interno della capitale, i federati decidono di incendiare gli edifici pubblici, emblemi del potere. La repressione sarà sanguinosa.

VII L’OPERA

Ma l’attenzione per la società meno abbiente, almeno in mostra, fa solo una breve comparsa. Ad attrarre gli artisti (e forse più attrattiva anche per il pubblico, dei committenti di allora e contemporaneo che visita le esposizioni d’arte) è ciò che fa sognare. E dove si può sognare di più se non a teatro? Ecco quindi l’Opéra di Parigi come l’hanno vista Manet ed i suoi contemporanei.

Intanto l’edificio. Siamo nel 1861 quando il concorso per costruire a Parigi un nuovo Teatro per l’Opera viene vinto dal giovane architetto, allora semisconosciuto, Jean-Louis-Charles Garnier (Parigi, 6 novembre 1825 - 3 agosto 1898) che vi lavorerà per 14 anni, fino all’inaugurazione nel 1875.
Nell’intento di creare un’opera d’arte totale, Garnier definisce l’intero programma iconografico e ne affida la realizzazione ai maggiori artisti, pittori e scultori, dell’epoca.
L’Opéra di Garnier, anche conosciuta proprio col doppio nome di Opéra Garnier, diventa un punto di riferimento: ne riprendono forme e disposizione un buon numero di teatri in Francia ed all’estero, addirittura in Brasile.

Anni prima, nel 1851, a Villa Medici in Roma (sede dell’Académie de France) Garnier incontra Paul Baudry (Paul Jacques Aimé Baudry; La Roche-sur-Yon, 7 novembre 1828 - Parigi, 17 gennaio 1886) che in Charles Garnier - 1868 lo ritrae nel suo studio fra gli strumenti di lavoro. Elegante, con bene in vista la catenella d’oro per l’orologio da taschino, e lo sguardo rivolto fuori scena, quasi sognando le sue architetture, in questo magistrale ritratto pervaso dall’armonia dei bruni e dal carattere non ufficiale (per la posa) Garnier, erede dei grandi del Rinascimento e del Barocco dal temperamento febbrile ed inquieto, ci è presentato consapevolmente fiero per le sue capacità e per il prestigioso incarico ricevuto.
Il dipinto è un successo anche per Baudry perché è accolto con entusiasmo al Salon del 1869.

Dall’atelier di Garnier accompagna il dipinto un modellino in legno (bosso, ciliegio selvatico e pero) della nuova Opéra di Parigi. Di cui vediamo anche acquerelli che la vagheggiavano nei decenni precedenti e progetti realizzati per il concorso da altri autori.

Oltre al foyer, dipinto proprio da Baudry, l’altro luogo più bello e spettacolare del nuovo teatro era la sua grandiosa scalinata. La vediamo in La scalinata dell’Opéra di Parigi - 1880 ca. dove la monumentale scala è resa a tutta ampiezza con estrema precisione e realismo. Gli stessi personaggi raffigurati su di essa sembrano ammirarla! Fra questi la famiglia affacciata al balconcino sulla destra.
Ne è autore Victor Navlet (Châlons-sur-Marne, 8 novembre 1819 - Parigi, 3 marzo 1886), pittore specializzato nel dipingere architetture d’interni e prospettive, oltre che vedute di Parigi dall’alto.
Fece fortuna elogiando l’attività “edilizia” di Napoleone III, per gusto personale ma anche, forse, per calcolo, visto che questa attitudine gli permise di assicurarsi numerosi incarichi.

Per decorare la cupola della grande sala del teatro, illuminata dal grandioso lampadario di cristallo che vi è sospeso, Garnier invitò un altro suo amico Jules-Eugène Lenepveu (Angers, 12 dicembre 1819 - Parigi, 16 ottobre 1898) che vi raffigurò Le Muse e le Ore del giorno e della notte - 1872.
Punto focale dell’affresco è il carro del sole sormontato dall’Aurora. Con il giorno sul lato del palco e la notte da quello opposto.

Esaltato come il ritorno al virtuosismo barocco nel trompe l’oeil, negli anni ’60 viene rifiutato non corrispondendo più al gusto contemporaneo e l’allora Ministro della Cultura, André Malraux, commissiona a Chagall una nuova decorazione che, nel 1964, viene sovrapposta all’antica su un telaio rimovibile.
Il nuovo soggetto sono le opere di 14 famosi compositori.

All’esterno invece è tutta una parata di statue, in pietra ed in bronzo dorato, di figure allegoriche, la Fama, Apollo la Danza e la Musica, L’Armonia, la Poesia… dei quali la mostra offre al visitatore modelli provenienti dagli atelier dei loro artefici.
Fra le altre Il Genio della danza dello scultore Jean-Baptiste Carpeaux (Valenciennes, 11 maggio 1827 - Courbevoie, 12 ottobre 1875).

Est-t-il rien de plus vivant que le group de la danse de Carpeaux sur la facade de l’Opéra? Comme cette modernité détonne au milieu de ce que l’entoure et comme on voudrait pouvoir enlever tout ce qui est derrière.

Non c’è niente di più vivo del gruppo di danza Carpeaux sulla facciata dell’Opera? Come questa modernità esplode in mezzo a ciò che la circonda e come si vorrebbe poter rimuovere tutto ciò che c’è dietro di essa.

Ne scrisse Antonin Proust.

Senza alcun legame familiare con Marcel Proust, Antonin discendeva da una famiglia di ricchi notabili di Niortais e fu introdotto alla pittura dall’amico d’infanzia Édouard Manet, conosciuto al Collège Rollin. Dedicatosi poi al giornalismo ed alla politica prese parte come corrispondente per Le Temps ai primi giorni della guerra franco-tedesca ma, dopo Sedan, ritorna a Parigi, dove diventa segretario personale di Leon Gambetta e sovrintende ai rifugiati. Nel 1889 cura l’Esposizione universale di Parigi (nel centenario della Rivoluzione) organizzando l’Exposition du centenaire de l’art française, in cui presenta quattordici dipinti di Manet, tra cui la “scandalosa” Olimpia, prestata dalla vedova e che l’anno seguente entra per decreto nelle collezioni del Musée du Luxembourg. La fine della sua vita è essenzialmente dedicata a rendere omaggio all’amico Manet, che ne fece diversi ritratti. Organizzò una grande mostra retrospettiva sulla sua carriera e pubblicò una raccolta di ricordi relativi in particolare ai loro anni comuni al Collège Rollin.
Nel 1882, quando divenne ministro delle Belle Arti, gli ordinò le allegorie delle stagioni, ma Manet, morto l’anno successivo, non poté produrre che Le Printemps et L’Automne, dove compare l’attrice Anne-Rose Louviot (1849-1900), conosciuta come Méry Laurent, che fu amante del generale Canrobert, governatore di Nancy, poi del ricco Thomas Wiltberger Evans, dentista americano della famiglia imperiale e grande collezionista, e infine di Stéphane Mallarmé. Diversi piatti dipinti da Manet e cotti dalla scultrice e ceramista Cornelia Marjolin-Scheffer (1830-1899), decoravano le pareti del suo appartamento. Proust, compromesso per un certo periodo dallo scandalo di Panama, fu assolto nel 1893. Nel marzo 1905, affetto da una malattia incurabile, si sparò alla testa e morì due giorni dopo; si sosteneva che la vera causa fosse, oltre ad un possibile trauma psicologico a seguito di questa vicenda, una lite con la ballerina Rosita Mauri, con la quale cenò due giorni prima. Il suo busto di marmo, posto su un alto piedistallo ad un’estremità dei vicoli Jacques Fouchier a Saint-Maixent-l’Ecole (Deux-Sèvres), fronteggia quello di Léon Gambetta; segno di una tenace vendetta locale - e forse di una certa gelosia sociale - verso di lui, il giorno dopo l’inaugurazione del monumento questo busto è stato sormontato da un panama.

Sempre a proposito dell’ Opéra Proust disse:

C’est Degas qui aurait du peindre le foyer de l’Opéra. Il aurait fait là une série d’oeuvres imperissables.

È Degas che avrebbe dovuto dipingere l’atrio dell’Opera. Vi avrebbe realizzato una serie di opere imperiture.

Attratto dalla modernità promossa da Baudelaire e dai soggetti inediti, Degas osserva meticolosamente la sua epoca. I suoi temi preferiti – i musicisti e la danza – affiorano alla fine degli anni sessanta dell’Ottocento. Il pittore stringe amicizia con gli orchestrali, e nel corso di un quarto di secolo esplora tutti gli spazi del teatro e si assicura soprattutto l’accesso – tramite la “porta di comunicazione” che separa la sala dal palco e conduce dietro le quinte – al foyer della danza che visita persino durante le rappresentazioni.

Lo vediamo in Il foyer della danza al teatro dell’Opéra - 1872 In realtà quello che vediamo è però il vecchio teatro d’opera di Rue Le Peletier. Inaugurato nel 1821, declinerà dopo l’avvento della nuova e verrà distrutto da un incendio nel 1873 subito dopo la prova di danza immortalata da Degas che non vi fa mancare le sue innovazioni compositive come l’ampio vuoto in primo piano, ancor più accentuato dal fatto di avervi collocata una sedia vuota.

L’arte di Degas è poi richiamata nel taglio dell’inquadratura, da istantanea fotografica, de Il ballo dell’Opéra - 1886 di Henry Gervex (Parigi, 10 dicembre 1852 - 7 giugno 1929). Emblematico di quanto si svolgeva nel teatro dal ‘700 in poi per Carnevale: balli in costume e incontri galanti fra gli appartenenti alla ricca borghesia, qui ostentata dai pesanti anelli d’oro massiccio e dal monocolo. Il ballo dell’Opéra, insieme al corteo del bue grasso che percorre i boulevard, costituiva infatti l’evento principale del carnevale parigino del tempo.

Sebbene concerti, serate da ballo e balletti siano i temi che, come per i suoi contemporanei, affascinano maggiormente anche Manet, in questa sezione l’artista compare solo con un piccolo, veloce ma espressivo disegno a inchiostro nero, pennello e grafite su carta da lucido in cui ritrae i Musicisti dell’orchestra - 1879 ca. fra i quali il ricciolo nero del contrabbasso emerge a dare quel vivido tocco che permette di riconoscere il contesto.

VIII PARIGI IN FESTA

Ma Parigi non era solo l’Opéra. Boulevard, grandi magazzini, vetrine, luminarie, stazioni, giardini pubblici, piccoli e grandi mercati coperti, caffè, teatri dell’opera e di prosa, circhi, ippodromi, per non parlare dei balli e delle serate mondane, e naturalmente del demi-monde di mantenute e prostitute: la nuova Parigi pullula di luoghi di piacere e di evasione che diventano osservatori privilegiati della vita di una città in trasformazione. Innumerevoli teatri la costellavano, e quelli abbattuti dalle riprogettazioni urbanistiche di Napoleone III e Haussmann per la creazione dei boulevard vennero ricostruiti nel centro della città. Questo avvenne per i due teatri di Place du Châtelet, per il Théâtre de la Gaîté di Alphonse Cusin, o ancora per quello del Vaudeville realizzato da Auguste Magne lungo i nuovi boulevard.
In mostra vediamo alcuni di essi nei disegni di progetto o negli alzati delle facciate.

Intanto il mondo dello spettacolo si rinnova profondamente con l’avvento dell’operetta, di cui è indiscusso maestro Jacques Offenbach, e lo sviluppo dei caffè-concerto, degli spettacoli circensi e delle marionette. Rispondendo al crescente interesse per le esibizioni del circo e degli acrobati, che anche Degas, Renoir e Manet mostrano di apprezzare in dipinti e disegni, l’architetto ed archeologo Jacques Ignace Hittorff (Colonia, 1792 - Parigi, 1876) realizza il Circo d’inverno ricorrendo a un raffinato uso della policromia.
Ne vediamo il prospetto della facciata principale Circo Imperiale a Parigi da lui stesso disegnato e colorato ad acquerello.

Ovunque si svolgevano feste, soggetto che permetteva agli artisti di esercitare la propria abilità ed agli acquirenti di dare forma, concreta e permanente, ai propri sogni.
Ritroviamo Jean-Baptiste Carpeaux che, questa volta nel ruolo di pittore, ci annovera fra gli invitati al Ballo in maschera al palazzo delle Tuileries - 1867 dove assemblea riverente accoglie l’ingresso in sala di Napoleone III con al braccio l’imperatrice Eugenia. La composizione è classica, ma la pennellata si frammenta sotto la luce dorata in cui è tutta immersa la scena. Un momento di festa a corollario dell’Expo del 1867.

Altra festa, un decennio più tarda di quella appena vista, ed altro ritorno (di Jean Béraud già conosciuto per L’Attesa) per Una serata - 1878 che andrà al Salon di quell’anno.
Una scena che noi, “poveri” estranei al mondo dell’alta società, possiamo solo un poco intuire grazie alle recenti mostre dedicate all’abbigliamento di alta sartoria che il Museo di Milano di Palazzo Morando ha proposto e sta continuando a proporre in questi mesi. Ed anche grazie alle sale che le ospitano, ed ai loro arredi.
Macchie di colore, i fiori rossi, che orlano i vestiti dai colori delicati e dai lunghi strascichi o ornano le acconciature, si intonano con i tendaggi di velluto alle pareti. Ovunque è uno sfavillio di sete, paillettes cucite sui tessuti e gioielli. Ma anche dorature delle parti in legno di sedie, mensole ed altri oggetti domestici. Il tutto sotto la pioggia di gocce di cristallo dei due grandi lampadari e con la luce orizzontale delle coppie di lampade a globo davanti agli specchi che dilatano lo spazio. Qua e là vasi preziosi contengono palmette ed altre piante ornamentali d’appartamento completano l’insieme: un po’ quel Temps Perdu oggetto della Recherche di Marcel Proust.
Un bellissimo dipinto, che ci appare quasi tridimensionale, quasi una fotografia, e che, soffermandosi a guardarlo, ci induce a pensare che, da un momento all’altro, i personaggi raffiguranti si animeranno e prenderanno vita.

I teatri restano tuttavia osservatorio privilegiato sulla mondanità parigina, che conosce il suo momento di massimo fulgore durante il Secondo Impero, e della quale offrono uno spaccato eccellente. I palchi, affittati annualmente, sono luoghi in cui la buona società fa mostra di sé, si scruta vicendevolmente, tratta i propri affari. Il bon ton prescrive di arrivare in ritardo, parlare a voce alta, osservare con il binocolo le belle ragazze sedute in prima fila avvolte negli scialli.

Grazie ad Eva Gonzalès (Parigi, 19 aprile 1849 - Parigi, 6 maggio 1883), considerata una delle più sensibili interpreti del movimento impressionista, il nostro sguardo si posa su Un palco al Théatre des Italiens - 1874 ca. La dama che vediamo ha lo sguardo perso nella sala. Forse il suo pensiero va a qualcuno che ha visto poco prima col binocolo rivestito di madreperla che regge in mano. Per questo ignora l’uomo che le sta accanto. Alla sua destra, appoggiato sull’imbottitura in velluto della balaustra c’è invece un bouquet. Evidente citazione del dipinto di Renoir visto nella sezione della natura inanimata. Sono citazioni anche la perla sospesa al nastro nero che porta al collo.
Eva Gonzalès si dichiarava allieva di Manet e, proprio perché era così evidente la loro estrema vicinanza con quelle del maestro, anche le sue opere subirono la sorte di essere rifiutate al Salon. Con questo non bisogna incorrere nell’errore di considerarla una pedissequa seguace di Manet. Lei, infatti, non lo emula semplicemente. Tra i due s’instaura invece uno scambio reciproco, dimostrato dal fatto che entrambi arrivano ad avvicinare dipinto ed osservatore annullando lo spazio che li divide.

Da un’altra donna pittrice, e quale donna e quale pittrice, abbiamo il punto di vista su una Giovane donna in tenuta da ballo - 1879. Ne è autrice Berthe Morisot che qui dunque non vediamo come modella ma abile a maneggiare tavolozza e pennelli. Davanti ad un fondale neutro, sebbene non anonimo ma fatto di grandi fiori bianchi e del verde dei loro steli, colori delicati ed intonati al suo vestito, vediamo il ritratto-tipo di una giovane ai primi balli. Abiti e gioielli che indossa sono sobri e raffinati, le mani sono infilate in leggeri guanti bianchi ed un elegante nastro le avvolge il collo al di sopra delle spalle scoperte: studiato espediente per farsi notare. Ma non dà mostra di ricercare gli sguardi degli ammiratori, assumendo un contegno distinto e rivolgendo lo sguardo fuori scena. Come in Madame Bovary, che Berthe Morisot aveva letto dieci anni prima.
Questo bellissimo quadro è stato inizialmente di proprietà di De Nittis, passando successivamente a Duret.

Ma il vertice artistico di questa sezione (almeno per il gusto di chi scrive, forse banale ma senza dubbio condiviso da più d’uno) è raggiunto da Il ballo - 1878 ca. di Jacques Joseph (detto James) Tissot (Nantes, 15 ottobre 1836 - Chenecey-Buillon, 8 agosto 1902) che in quest’opera, curatissima in ogni dettaglio, “tradisce” l’attività di incisore condotta in parallelo a quella di pittore.
Dai particolari della riga fra i capelli bianchi sulla nuca dell’uomo, al pouf con motivi giapponesi di pesci ed altri disegni travolto dal tripudio di balze del vestito che occupa l’intero primo piano, fino al “grandioso” ventaglio, è tutto un crescendo di virtuosismi ai quali è impossibile restare indifferenti.
Appassionato di moda, si sa di Tissot che alle sue modelle faceva indossare abiti acquistati da lui stesso. Dipinto su commissione il quadro è rappresentativo di quel “monde et demi monde” nel quale uomini anziani si accompagnavano giovani ragazze! Cosa non infrequente, come ci raccontano le cronache, neppure ai giorni nostri.

L’UNIVERSO FEMMINILE. IN BIANCO

Autore che comincia la sua attività dedicandosi a soggetti storico letterari, Tissot scopre la vita moderna nel Salon del 1864. Dunque è ancora al limite della sua prima fase artistica quando dipinge Le due sorelle - 1863, opera che ci accompagna verso la conclusione della mostra dedicata alla donna.
Dapprima “in bianco”, soggetto che, dagli anni ‘60 dell’Ottocento, appassionò i pittori alla ricerca di nuovi temi espressivi.

L’abito bianco, in mussolina o cotone, era allora molto in voga e considerato particolarmente adatto alle passeggiate estive. Le donne alla moda amano indossare questo colore per il suo effetto sull’incarnato, ma il bianco ha anche una forte connotazione sociale e di genere perché simboleggia la purezza e rimanda a uno stile di vita distinto e svincolato dall’attività fisica. In effetti la lussuosa semplicità e la delicatezza del bianco impongono alle donne che lo indossano di muoversi con cautela, evitando sforzi fisici per preservare il candore immacolato della propria mise.

Forse per i riflessi proiettati sugli abiti dal verde degli alberi all’ombra dei quali sono in posa, su un prato dipinto con estrema cura in cui occhieggiano margherite, l’opera è soprannominata Le signore verdi. E richiama Whistler e Ingres per il dettaglio con cui, in una virtuosa resa dei tessuti, riproduce gli abiti alla moda e gli immancabili accessori che li completavano. Dal cappello nero, ornato da una fascia rossa con piume e nastri, tenuto in mano dalla grande a controbilanciare il bianco del vestito, al fiocco nero che adorna il capo della piccola. E poi ancora i fiori, infilati nella fascia che cinge la vita, la borraccia, l’ombrellino parasole ed il cestino per il pic nic, fino a scendere alle calzine a quadretti neri e bianchi ed alle scarpe nere con bottoncini... nulla si lascia sfuggire l’occhio dell’artista per riconsegnarcelo con assoluta fedeltà.

Meno didascalico, ma altrettanto affascinato dal bianco, come già abbiamo visto per la neve che incorniciava l’arresto della famigliola mendicante, e viceversa più di Tissot interessato ai sentimenti ed alle emozioni che un dipinto può trasmettere, ritroviamo Alfred Stevens con due opere dalle quali emerge che la sua sensibilità non è circoscritta alla miseria umana ma lo appassionano anche le giovani donne vestite alla moda in interni eleganti.

In La lettera di rottura - 1867 il bianco del vestito risalta sulle campiture monocromatiche giallo-brune e verdi delle pareti sullo sfondo di quelli che sembrano un vano scale e la stanza in cui la donna sta entrando.
Qui, a terra e seminascosti dalla porta a vetri, un vaso di fiori rossi e gialli ed il quadro che vi è appoggiato davanti ci inducono a percepire il sentimento di abbandono vissuto dalla protagonista e la sua tristezza conseguente alla lettura della lettera che regge nella mano: anch’essa non per caso abbandonata lungo il corpo, mentre porta l’altra a sostenere il respiro che viene meno. E meno male che, a quel tempo, chi non aveva il coraggio di lasciare una persona dicendoglielo di persona almeno le scriveva una lettera… Oggi i galantuomini se la cavano in due parole sul telefonino, che tristezza!

Un’aura poetica per un sogno ad occhi aperti forse destinato a miglior sorte, anche se non fa sperare per il meglio il fatto che siano rivolte verso il basso le rose bianche che la protagonista regge con un dito appoggiate al bordo della vasca, pervade invece Il bagno - 1873-74.
Qui il colore bianco è complemento alla carnagione chiara della donna ed è funzionale a farcene percepire il languore. È, quella in cui ci troviamo, un’atmosfera esaltata da tutti i dettagli che il pittore colloca con attenzione alla loro funzione cromatica ma anche di significato. In primo luogo l’importante fonte di luminosità che viene dall’angolo in basso a destra. Dato dall’insieme degli abiti svestiti, sopra i quali è appoggiato un libro che sembra sul punto di scivolare a terra, e delle sue stesse pagine aperte: una delle quali è rimasta semisollevata facendoci pensare che anch’esso sia stato abbandonato nel mezzo della lettura, per un pensiero che questa ha suscitato o per un altro sopravvenuto.
Questa importante campitura bianca è poi ripresa in maniera puntiforme nei boccioli bianchi dei fiori e nella ceramica del portasapone, nel quale è curiosamente contenuto un prezioso orologio.
Altre curiosità sono il fatto che la donna non solo si immerga con bracciale al polso, anello e labbra dipinte di rossetto, ma indossando una sottoveste di cui si nota una bretella sulla spalla destra. Interessante dettaglio indicativo di un’abitudine per noi oggi sorprendente ma un tempo dettata da convinzioni morali.

Sono, questi dipinti, un risposta alla sfida pittorica lanciata da James McNeill Whistler con Fanciulla in bianco (Sinfonia in bianco n. 1) - 1862 (Washington, National Gallery of Art). Presentata al Salon des Refusés nel 1863, provoca quasi altrettanta impressione del Déjeuner sur l’herbe di Manet.
Si tratta del ritratto a grandezza naturale di una giovane donna vestita completamente di bianco, davanti alla candida tenda di una finestra e con in mano un giglio. Privo di un soggetto chiaramente identificabile, questo quadro misterioso ha grande risonanza presso la comunità artistica per la capacità dell’autore di tracciare le sottili sfumature che compongono il ton sur ton dei bianchi.

Manet in questa sezione è presente con due disegni: uno Schizzo di tre gatti - 1868 a matita nera, che sembrerebbe fuori tema e forse vuole darci una sensazione di familiarità domestica. E Donna di spalle al pianoforte. Un bel disegno a lapis grigio e grafite nel quale lo strumento non si vede ma si intuisce per la postura della donna.

Forse la moglie del pittore, Suzanne Leenhoff (Delft, 30 ottobre 1829 - Parigi, 8 marzo 1906), pianista olandese che sposò nel 1863 dopo che, diciannovenne, fu assunta nel 1849 dai Manet, ricca famiglia alto-borghese parigina, per dare lezioni di pianoforte a Édouard, che allora aveva 17 anni, ed a suo fratello Eugène di 16 anni. Nel 1852 Suzanne diede alla luce un figlio, Léon, che Édouard riconobbe come proprio. Ma il fatto che il matrimonio venne celebrato solo un decennio dopo, e solo dopo la morte, nel 1862, del padre dell’artista, il giudice Auguste la cui condotta morale era risaputo non essere irreprensibile, apre un campo di indagine ai biografi.

Sia come sia, madre e figlio sono ritratti assieme in La lettura. Iniziato nel 1865 nella sua parte centrale, dove il bianco è prevalente ed indica la purezza dei sentimenti dell’artista, quasi un decennio dopo (nel 1873) vede l’aggiunta, nel riquadro sullo sfondo, del profilo di un giovane uomo che legge. I due diversi stili che riconosciamo nel trattamento dei volti non fanno venir meno la sensazione generale di un fiume di bianco dal quale emergono dettagli come l’orecchino, la collana con due giri di perle nere, la cintura del medesimo colore e le braccia nude di Suzanne sotto il velo delle maniche dalle quali escono e sono poste bene in vista le mani da pianista con le lunghe dita… ma tutto l’insieme sembra approntato soltanto per lasciare tutto lo spazio ai suoi pensieri! Che le foglie lanceolate di una pianta d’appartamento sulla sinistra sembrano voler ghermire, come fossero lunghi artigli verdi di una mano gigantesca.

Anche Manet, come abbiamo visto, raccoglie dunque la sfida di Whistler e, come l’amico Alfred Stevens, dipinge spesso le sue “donne in bianco” in un contesto domestico. Esse appaiono in vestaglia o semplicemente sprovviste degli accessori che è indispensabile indossare per uscire, come ad esempio guanti e crinolina. Gli abiti da camera rafforzano infatti il carattere intimo della scena e accentuano lo stato trasognato o introspettivo in cui le figure femminili sembrano immerse.

E sono ancora i pensieri a dominare l’ultimo quadro dedicato alla donna in bianco: Il balcone - 1868-1869.
Le due donne in vista sul davanti, l’uomo con la vivace cravatta blu in piedi dietro di loro ed il bambino seminascosto nella penombra della stanza dalla quale si accede al balcone, che fa pensare ad un’ambientazione in Spagna, si presentano come una scena di genere - nella quale si percepisce l’influenza di Goya - e non un ritratto di gruppo. Tuttavia, le sue grandi dimensioni (170 x 125 cm) e la non leggibilità complessiva del soggetto, inducono a considerare ogni personaggio isolato nei propri pensieri. Sensazione rafforzata dallo sguardo assente che, invece, li accomuna tutti.
Presentato al Salon del 1869, il dipinto lascia perplessi pubblico e critica per il colore acceso dei verdi, della ringhiera in ferro del balcone, delle persiane e dell’ombrello che ha in braccio la donna in piedi, e per il fatto che vi manca un chiaro soggetto. I personaggi sono infatti tutti come “sfuocati” ad eccezione della giovane seduta in primo piano: appoggiata alla ringhiera ha ai suoi piedi un cagnetto, a dire il vero bruttino nonostante il tentativo di ingentilirlo legandogli un fiocco in testa, e regge in mano un ventaglio rosso.
Dallo sguardo fiero, da donna fatale, e dai capelli neri che le scendono ai lati del viso e contrastano con il luminoso candore dell’abbigliamento, chiunque intuisce che non è una persona qualsiasi. Si tratta infatti della giovanissima e da poco conosciuta Berthe Morisot, che fa la sua prima comparsa su una tela di Manet.

X E NERO. LA PASSANTE E IL SUO MISTERO

Con chi, dunque, meglio che con Berthe, si poteva aprire l’ultima sezione della mostra? Ecco allora Berthe Morisot con un mazzo di violette - 1872.
Una fra le migliori tele in mostra, anche perché non è solo un ritratto visto che Édouard e Berthe condividono lo stesso talento di pittore e c’è fra loro complicità artistica. Ed alla vivacità della modella, il cui sguardo è al tempo stesso profondo ed enigmatico, allude la rapidità di esecuzione del nero dal quale è circonfusa. Per lo più è un “nero intenso” ed assoluto il colore scelto da Manet per magnificare la bellezza “spagnola” di Berthe, ma non mancano anche variazioni nelle sue sfumature, che solo un grande artista è in grado innanzitutto di vedere e poi di riprodurre. Lavorare con il nero comporta infatti per i pittori la necessità di coniugare virtuosismo nella pennellata e maestria nella scelta delle tonalità scure della tavolozza.
Paul Valéry, nipote acquisito della modella, così descrive questo ritratto: “Mi ha catturato soprattutto il Nero, il nero assoluto, il nero di una veletta da lutto [...] quel nero che appartiene solo a Manet”.
Da notare il fatto che, per esigenze cromatiche, i capelli scuri di Berthe qui diventano castano chiari.

Meno avvincente, almeno per il nostro gusto, è il Ritratto di Nina de Callias - 1874 ca., una gouache su legno di ridotte dimensioni (9,5 x 7 cm) forse più interessante come esempio di questa tecnica.

In italiano guazzo: una varietà di pittura in cui la tempera è resa più pesante ed opaca con l’aggiunta di un pigmento bianco (per esempio biacca o gesso) mescolato non più alla colla animale ma alla gomma arabica (un tempo era preferita la gomma adragante) per cui ha minor corpo ed è di più rapida esecuzione. Il risultato è un colore più coprente e più luminoso rispetto al normale colore a tempera.

Vi è ritratta un’altra protagonista della vita culturale parigina che Manet ritrasse anche in La Dame aux éventails. Anne-Marie Gaillard, meglio nota come Nina de Villard (Lione, 12 luglio 1843 - Vanves, 22 luglio 1884), è stata infatti scrittrice e poetessa.

Figlia di un facoltoso avvocato di Lione, dopo il matrimonio con il conte Hector de Callias, scrittore e giornalista di Le Figaro, frequentò il salotto di Apollonie Sabatier, ritrovo di intellettuali di Parigi. Fu un’amante di Charles Cros, al quale fu d’ispirazione per il suo Coffret de santal (la Scatola in legno di sandalo) e contribuì alla stesura di due poemi contenuti in Le Parnasse contemporain (secondo volume): La Jalousie du jeune Dieu e Tristan & Iseult.

Ancor meno in sintonia ci troviamo con Costantin Guys (Ernest Adolphe Hyacinthe Constantin Guys, Flessinga, Paesi Bassi, 3 dicembre 1802 - Parigi, 13 marzo 1892). Incisore olandese, naturalizzato francese, nel 1824 si arruolò per partecipare alla guerra di indipendenza greca, e successivamente si spostò in Francia, Nordafrica e Regno Unito. Nonostante la grande amicizia ed affinità con Manet, per incarnare Il pittore della vita moderna (1863) Baudelaire sceglie proprio questo prolifico acquerellista e cronista dei bassifondi, già presente in altre sezioni con altri disegni sui quali avevamo però sorvolato.
Guys raffigura a più riprese donne vestite di nero, cogliendone la bellezza fugace nello spazio urbano nelle ore a cavallo tra il giorno e la notte. Lo fa anche nei suoi due disegni non datati in mostra: Donna in piedi di spalle (inchiostro grigio, lavis grigio, grafite, penna) e Donna in nero piedi, di fronte, con un ventaglio (Lavis scuro, lavis grigio, grafite) forse dei due il più interessante ed originale per il nero che vi incombe, anche nello sfondo, e dal quale emergono soltanto pochi barlumi di luce: la pelle scoperta del viso e delle mani, e piccoli dettagli dell’abbigliamento, come la camicetta di pizzo, la piuma sul cappellino, e oggetti come l’immancabile ventaglio che tiene in mano. In quest’ultimo ci sembra inoltre di poter cogliere documentato il fatto che, dalla metà degli anni settanta dell’Ottocento, gli abiti neri assumono una tonalità più grave e funerea: un gran numero di donne veste infatti a lutto dopo la sconfitta francese contro la Prussia e la tragica fine della Comune di Parigi.

Ma già dalla fine degli anni sessanta dell’Ottocento l’abito in seta nera era presente nel guardaroba di ogni distinta borghese: versione femminile del completo nero la cui “bellezza poetica” viene celebrata da Charles Baudelaire nella raccolta dedicata al Salon del 1846 in cui scriveva “tutti noi celebriamo qualche funerale”.

Emblema supremo dell’eleganza delle parigine, ed espediente per valorizzare la carnagione chiara delle giovani donne, il nero esalta il mistero femminile di donne dalla bellezza ineffabile che una veletta rende ancora più inaccessibili. Una peculiarità che non sfugge ad Auguste Renoir. Avvicinatosi a Manet (ed a Degas) per la condivisa attenzione alle proposte della moda, di cui arriva a progettare una rubrica settimanale sulla rivista “La vie moderne”, ritiene il tema di grande influenza nel definire la “nuova pittura” e lo dimostra in Madame Darras - 1868 ca., ovvero Delphine Oudiette (1837-1910), moglie del capitano Paul Darras, pittore topografo e fra i primi sostenitori dell’autore.
Dal punto di vista pittorico, la policromia che di solito troviamo in Renoir diventa qui sfumature madreperlacee sul nero dell’abito da cavallerizza. Altro titolo di questo quadro che è, infatti, uno studio per un dipinto di maggiori dimensioni: Cavalcata mattutina al Bois de Boulogne, in cui M.me Darras porta ancora il cappello a cilindro nero in testa e monta in sella all’amazzone, tema molto in voga anche fra gli altri pittori come Manet e Carolus Duran.
Come Manet e Degas, anche Renoir gioca sull’impalpabile tessuto nero e picchiettato della veletta dietro la quale Delphine… se la ride. Concepito per proteggere il viso dalla polvere, e dagli sguardi (ma quale differenza con burqa, hijab, niqab e via dicendo…), questo simbolo della moda dell’epoca dona un carattere paradossale al ritratto, rivelando e nascondendo al tempo stesso l’attraente volto della modella dallo sguardo fiero.

Un’ambiguità che raggiunge il culmine in Giovane donna con veletta - 1875 ca. Su uno sfondo sottilmente punteggiato di verde si materializza il fascino fugace di una passante. Come nella cera di Medardo Rosso esposta a Brera nell’allestimento recentemente abbandonato, e perciò per non visibile finché non sarà aperto Palazzo Citterio. È una scena urbana, colta al volo, al punto che non riusciamo a descrivere in alcun modo il momento ed il gesto dipinti dall’artista. La giovane sembra dare le spalle ad una parete ed essere intenta ad armeggiare con un borsello o ad infilarsi i guanti, che ogni donna deve indossare, così come la veletta, prima di uscire di casa.
Sulle spalle veste un dolman dal disegno a grandi riquadri che chiude tutto il primo piano. Si tratta di un genere di mantello con maniche di origine turca e molto di moda a Parigi a fine Ottocento.
Perché è indubitabilmente parigina questa donna. Lo rivelano anche gli altri raffinati particolari del suo abbigliamento. I grandi orecchini scuri a fiore ed il cappello adorno di nastri rosa dal quale la veletta, nera e screziata, cala sul suo profilo sfuggente accrescendo il mistero che le aleggia attorno.
Più tela di genere con personaggio di fantasia che ritratto la cui protagonista resta ignota, durante un suo restauro l’opera ha rivelato un raffinato gioco di brevi pennellate giustapposte ed incrociate e filamenti di colore che animano i blu ed i verdi scuri, i neri ed i grigi che la dominano. Anche in questo modo Renoir amplificando la vaghezza dell’insieme e dell’ambientazione rende a meraviglia il carattere effimero di questa misteriosa apparizione femminile, al tempo stesso tanto concreta da catturare l’attenzione dell’osservatore al punto da non fargli più percepire che

La rue assurdissante autour de moi hurlait. La strada assordante attorno a me urlava.

Così in A una passante (dai Fiori del male) Baudelaire esprimeva il tema a lui molto caro dell’apparizione e della passante dall’identità misteriosa, al quale dedica anche altre numerose poesie fra le quali Il desiderio di dipingere (in Lo spleen di Parigi).

Giovanni Guzzi, luglio 2017
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