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Italico Brass, reporter della Grande Guerra



I “racconti pittorici” di un Alpino

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ITALICO BRASS, REPORTER DELLA GRANDE GUERRA

I “racconti pittorici” di un Alpino


Fra le iniziative dedicate al Centenario della Prima Guerra Mondiale in Italia, nel triennio cominciato nel 2015 e che quest’anno si conclude, se ne contano ormai innumerevoli e che hanno affrontato il tema sotto i profili più vari. Ciononostante, a saper ben guardare, è ancora possibile individuare spunti capaci di interessare i più curiosi. Una di queste occasioni, che ci piace suggerire ai nostri lettori, è la mostra “LA GRANDE GUERRA. I racconti pittorici di Italico Brass” proposta da GAM Manzoni a Milano.

CHI È ITALICO BRASS?
Gorizia apparteneva all’Austria, il 14 dicembre 1874 quando vi nacque Italico (a lato nell’autoritratto in divisa da Alpino e con, sulla sinistra, la dedica al figlio) nella parrocchia di Sant’Ignazio, ma la famiglia Brass era irredentista e questo spiega il suo nome.

La sua visione cosmopolita della pittura fu una diretta conseguenza degli studi a Monaco di Baviera, sotto la direzione del paesaggista Karl Raupp, e dal 1888 al 1895 a Parigi con il più alto esponente dell’accademismo, William Bouguereau, e con Jean Paul Laurens, al quale sta stretta la definizione di pittore “storico”, tornando talvolta in Friuli Venezia Giulia e a Venezia.

Nel 1895 sposò a Parigi Lisa Rebecca Vidoff di Odessa e nello stesso anno si trasferì a Chioggia e poi a Venezia, abitando alla Giudecca, alle Zattere e dal 1906 in campo San Trovaso. Nel 1898 nacque il suo unico figlio Alessandro.

Partecipò a numerosissime mostre in Italia (Torino, Milano, Roma, Trieste…) e all’estero (Parigi, Vienna, Budapest, Helsinki…) e fu presente a quasi tutte le Biennali, ottenendo di allestire anche due personali (1910 e 1935) ed ebbe una personale postuma nel 1948.

Il 22 giugno 1911 cessò, su sua richiesta, di essere austriaco, ma solo nel 1916 gli fu riconosciuta la cittadinanza italiana. Mantenne le caratteristiche dell’uomo di frontiera e visse sempre con la valigia in mano, viaggiando attraverso l‘Europa e l’America, perché curioso e alla ricerca di novità, tuttavia geloso della sua vita privata e della sua pittura. Che fu precisa, ariosa e colorata, nella più stretta tradizione dei narratori e vedutisti veneziani, tuttavia libera e spontanea e costantemente aggiornata sulle correnti pittoriche e poetiche del suo tempo: Impressionismo, Simbolismo, Decadentismo, Liberty…
Morì improvvisamente il 16 agosto del 1943, nella casa veneziana di San Trovaso.

PITTORE DI GUERRA
Allo scoppio della Grande Guerra, Italico Brass non era ancora cittadino italiano, ma ebbe l’incarico dal Comando Supremo e dalla Regia Marina di essere reporter di guerra.
Dal 1915 al 1916 praticò la pittura all’aria aperta a Venezia, sulle cacciatorpediniere dell’Adriatico, ritraendo alcune azioni belliche.
Ottenne anche un lasciapassare per viaggiare su autocarri in servizio nel territorio della Terza Armata, al comando del Duca D’Aosta, sul fronte del Basso Isonzo, dove era arruolato il figlio Alessandro.

La testa di ponte italiana che difendeva Gorizia era lunga una decina di chilometri, scendendo dal monte Sabotino, a nord, fino al villaggio di Oslavia e alle basse colline di Podgora e del Calvario. Dopo il Calvario la linea austro-ungarica correva lungo il ciglione del Carso, del monte San Michele fino a Monfalcone.

Quando il pittore seguiva le azioni di guerra e si trovava in luoghi disagiati, per motivi di spazio e peso usava piccolissime tavolette o taccuini in cui abbozzava le scene o faceva veloci ritratti a carboncino dei volti dei comandanti o delle persone di rilievo presenti sul campo.
Successivamente, trasportava e rifiniva su tele di medie dimensioni quanto abbozzato e solo in alcuni casi riproponeva gli stessi soggetti su tele ancora più grandi.

Le sue testimonianze della Grande Guerra sono, come scrisse Mario Rigoni Stern, “racconti pittorici pieni di aria e di luce, sono inni alla vita, sono paesaggi della Carnia dove muli e alpini salgono i tornanti delle mulattiere, o fanti che marciano sulle strade del Friuli, o una pattuglia di cavalleggeri che galoppa per le vie tra lo stupore divertito dei bambini e il rispetto di un vecchio che saluta levandosi il cappello. Le trincee di Brass sono tranquille, non si sente l’odore della morte”.

Italico Brass operò fino all’ottava battaglia dell’Isonzo (ottobre 1916), quando il figlio Alessandro venne ferito e ricoverato in ospedale fino alla fine della guerra.

SAN MARCO, IL PANE E IL DRAGO
Fra i racconti per immagini che Italo Brass ci propone, tre in particolare hanno attirato la nostra attenzione.

Il primo è la Basilica di San Marco a Venezia: di cui, in San Marco in guerra, vediamo in corso di costruzione la protezione della facciata con reti, sacchi di sabbia e legname. Segno di come la guerra abbia toccato anche luoghi lontani dal fronte e testimonianza dell’immane lavoro svolto nelle regioni del Nord Italia da chi aveva in custodia le opere d’arte per metterle al riparo dalla possibile invasione dell’esercito nemico, con tutto il possibile corredo di devastazioni e saccheggi che avrebbe portato con sé.
Un’opera che annovera innumerevoli episodi degni della trama di un avvincente romanzo e di cui in altre mostre abbiamo visto toccanti documentazioni fotografiche.

Il secondo, Forni da campo alla stazione di Udine, testimonia quanto, anche in una situazione così eccezionale come quella di una guerra, la vita sia fatta di quotidiane ed ordinarie azioni: prima fra le altre la cottura del pane per nutrire i soldati. Forse l’azione umana più pacifica per definizione.
Nemmeno in Fattori e nei fratelli Induno, che delle guerre Risorgimentali hanno illustrato quasi ogni aspetto, ci riesce di ricordare a memoria qualcosa di paragonabile al soggetto di Brass: le enormi tende, col fuoco all’interno ed i lunghi, doppi, camini per farne uscire il fumo, i soldati portantini con le ginocchia piegate dal peso delle pagnotte che stanno trasportando alla zona di carico e qui gli addetti a riempire i sacchi ed il carro stracarico pronto ad avviarsi verso il fronte.
Quanto questo aspetto sia rilevante nell’esito favorevole di una guerra, forse più degli armamenti, ce lo ricordano le manovre di cui abbiamo letto a proposito delle guerre fra Firenze e Siena nel XVI secolo, conclusesi con la caduta di quest’ultima poco dopo la cosiddetta “Rotta di Scannagallo”, o di Marciano in Val di Chiana, affrescata da Vasari nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, si dice sopra la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (di cui abbiamo scritto a proposito della versione di Rubens – Leggi di più >>>).

Un dracken che atterra a Codroipo, comune a sud ovest di Udine ed in posizione strategica sul basso corso del Tagliamento e che tuttora ospita una base aerea militare, è infine il terzo dipinto in mostra che più ci ha incuriositi, non avendo mai in precedenza sentito parlare di questo oggetto dalla strana forma innalzato dagli eserciti nel cielo come punto di osservazione sul nemico per grandi distanze.
Su di esso pubblichiamo un approfondimento in Appendice.

All’interesse artistico per la pittura di Italo Brass si accompagna in mostra quello storico, grazie al fatto che a molti dipinti sono lodevolmente accostate foto d’epoca nelle quali possiamo vedere monumenti e scorci così com’erano a inizio Novecento, perciò precedenti anche la distruzione del terremoto, oltre a quella della guerra.

Quest’ultima fissata dalla fotocamera e sulla tela nel caso del ponte ferroviario di Gorizia sull’Isonzo.
Il dipinto porta con sé anche un piccolo equivoco. È infatti identificato con un titolo sbagliato: Ponte Peuma bombardato. Errore facilmente riconoscibile guardando le foto del vero ponte di Peuma (Piuma in friulano) sul Medio Isonzo nei pressi del Monte Sabotino. Ma i curatori della mostra non hanno potuto correggerne il titolo perché negli inventari quest’opera è indicata in questo modo, seppure errato. Succede anche questo nel mondo dell’arte!
Sia come sia, accanto ai pilastri del ponte Brass nasconde i soldati italiani fra l’erba alta sulle sponde del fiume, mentre nel cielo notturno e sul crinale del monte Calvario all’orizzonte lampeggiano le esplosioni delle artiglierie tragicamente evocate dalla splendida, quanto drammatica, canzone: “Gorizia tu sei maledetta”.

Un ascolto che coinvolge, come ci ha testimoniato un’insegnante di liceo: “Sono due anni che in quinta, quando studiamo la Prima Guerra Mondiale, faccio ascoltare “Gorizia tu sei maledetta”. Quando ho chiesto ai ragazzi, in giugno, che cosa non avrebbero mai dimenticato del programma di storia svolto durante l’anno, loro hanno messo questa canzone al primo posto. E nella classe di quest’anno due ragazze mi hanno confessato di averla cercata a casa su internet, per risentirla più volte.”.

Perché la storia testimoniata da esperienze di vita non lascia indifferenti. Come anche i “Racconti in pittura” di Italo Brass dimostrano.

Giovanni Guzzi, maggio 2018
© Riproduzione riservata


Per gli interessati a vedere dal vero i quadri descritti
LA GRANDE GUERRA. I racconti pittorici di Italico Brass
11 aprile – 1 luglio 2018
GAM MANZONI Via Manzoni 45 – 20121 Milano
Dal martedì alla domenica: 10-13 / 15-19

Segnaliamo infine la possibilità di visite guidate dalla Storica dell’Arte Monica Castellarin, alla quale siamo debitori anche per le note biografiche e storiche su Italo Brass qui pubblicate.
Per informazioni e prenotazioni visite guidate: 02 62695107 - info@gammanzoni.com

 

APPENDICE – IL DRACKEN

Durante la Prima Guerra Mondiale i palloni-aerostato da osservazione, appositamente realizzati per scopi bellici, vennero impiegati sul fronte occidentale da tutti gli eserciti dal 1915 al 1918: anche come minima difesa aerea statica per intercettare le squadriglie di caccia ostili ma, soprattutto, quando lo stallo della guerra di trincea aveva reso necessario poter spiare continuamente i movimenti del nemico.

Gli aerostati erano nati molto prima della Grande Guerra e già nel XVIII secolo se ne erano visti numerosi prototipi, riempiti di gas o di aria calda. È noto ad esempio che Nadar, il curatore della prima mostra degli Impressionisti, fu un appassionato promotore anche dell’aerostatica: nel 1858 volò in mongolfiera sopra i cieli di Parigi; successivamente fece costruire un enorme pallone ad aria calda di 6.000 mc chiamato Le Géant (Il gigante) che ispirò all’amico Jules Verne il romanzo Cinque settimane in pallone; i due furono poi rispettivamente presidente e segretario del consorzio istituito da Nadar nel 1863 per promuovere l’aerostatica e nell’ambito del quale compì diverse ascensioni in aerostato in Francia e Germania; infine, assieme ad altri partecipò dal cielo alla difesa di Parigi nel 1870-71 durante la guerra Franco-Prussiana.
Fu proprio dopo averli visti in questa occasione, e qualche anno prima anche nella Guerra Civile Americana (1861-65), che il conte Ferdinand von Zeppelin si interessò alla costruzione di un “pallone dirigibile” avviando nel 1890 un’impresa che ebbe un tale successo da far identificare ancora oggi con il suo nome tutti i modelli di aeronave rigida.

Solitamente ogni aerostato frenato, cioè agganciato a terra con un cavo in acciaio, veniva innalzato in gruppi di 3 unità, in modo da poter effettuare osservazioni comparate e più dettagliate. Tramite segnalazioni manuali, con bandiere e, più tardi, anche con radiotelefoni, gli equipaggi degli aerostati riuscivano a segnalare in tempo reale ciò che stava avvenendo ben oltre gli sguardi dei fanti, perennemente puntati sulla terra di nessuno e sulle trincee avversarie.

Si trattava di un lavoro molto pericoloso: gli osservatori rimanevano sospesi nel vuoto per ore ed ore, mentre il pallone frenato risultava facile preda dell’artiglieria e dell’aviazione nemica. Contrariamente a quanto accadeva per gli aviatori, l’equipaggio di un aerostato, in quanto privo di strumenti di offesa e facile bersaglio passivo del nemico, era autorizzato ad indossare il paracadute: mentre per i primi sarebbe stato vile e codardo “salvarsi” in combattimento (!), per gli osservatori era prevista quest’ancora di salvezza, in caso l’aerostato venisse colpito e rovinasse a terra in pochi secondi ed in preda alle fiamme.

Per cercare di difendere gli aerostati stazionari si impiegarono artiglierie, contraeree e persino vere e proprie “ragnatele” di cavi in acciaio, ancorate sotto i palloni, a guisa di rete per “imprigionare” e distruggere i caccia nemici. Abbattere un pallone frenato infatti, costituiva una vittoria analoga a quella riportata in duello aereo e molti piloti si guadagnarono il titolo di “specialisti” nell’abbattimento di questi preziosi strumenti di osservazione.
Il belga Willy Coppens riuscì a distruggerne ben 35, raggiungendo un primato mai eguagliato durante tutto il corso della Grande Guerra.
Per colpire ed abbattere un aerostato non bastavano proiettili normali: questi, infatti, si sarebbero limitati a perforarne l’involucro, senza tuttavia incendiarlo. Si svilupparono allora cartucce incendiarie che avrebbero potuto distruggere ogni pallone già al primo colpo, senza dare al nemico il tempo di riavvolgerne il cavo di ancoraggio, ritirandolo immediatamente al suolo.
In seguito agli attacchi dei micidiali Zeppelin tedeschi, la Gran Bretagna e la Francia impiegarono vere e proprie flottiglie di palloni frenati per creare delle barriere insuperabili, anche grazie alle fittissime “ragnatele” di cavi penzolanti a cui si accennava poc’anzi. Sia per uno Zeppelin sia per un caccia nemico sarebbe stato difficilissimo eludere questo genere di difesa ed uscirne indenne.

IL DRAKKEN
Il Pallone-Drago italiano, la “Saucisse” dei francesi, il “Drakken” inglese, fu l’aerostato frenato da osservazione più comunemente impiegato nel corso della guerra.

Nella sua insolita forma era spinto in aria dalla forza ascensionale dell’idrogeno e vincolato a terra come un cervo volante, da un forte cavo d’acciaio, collegato ad un argano che ne assecondava tutti i movimenti nel vento.

La forma caratteristica e allungata di questo pallone trova la sua ragione nel suo impiego. Dovendo servire sempre frenato e come osservatorio, è naturale che ad esso si richiedesse la maggiore stabilità possibile.
È noto che le correnti aeree quanto più sono intense tanto più costringono qualsiasi aerostato a scendere, togliendo all’aeronauta la libertà circa la quota da raggiungere. A questo inconveniente si aggiunge l’altro, assai più grave, che i venti imprimono al pallone sferico un movimento rotatorio intorno al proprio asse che ostacola molto le osservazioni.

Il Drago riusciva ad ovviare a questi problemi grazie ad una “specie di borsa” applicata alla sua estremità più bassa. Questo dispositivo era a tutti gli effetti una manica a vento cieca che, gonfiandosi sotto l’azione della corrente aerea, costringeva il pallone ad uno sforzo verso l’alto proporzionato alla velocità della stessa corrente, secondo la legge fisica per cui gli aerostati tendono a salire tanto più in alto quanto maggiore è la forza del vento.

Gli osservatori restavano appesi nella navicella in vimini, che pendeva dall’involucro alluminato, con un equilibrato sistema di funi.

Per il trasporto del Drago era stato adottato uno speciale autocarro, attrezzato con opportuni dispositivi per la manovra del pallone: la parte posteriore di questo autocarro comprendeva infatti un robusto verricello attorno al quale si avvolgevano le funi metalliche necessarie a trattenere l’aerostato.
L’autocarro trasportava anche le voluminose batterie elettriche per il telefono che serviva per la trasmissione degli ordini e delle comunicazioni con gli osservatori.

Il Drago trovò il suo utile impiego nei terreni pianeggianti di bassa collina, poiché nei siti montani gli osservatori venivano realizzati in luoghi dominanti e non visibili dal nemico.
Questo pallone presentava anche l’ulteriore limite di essere a sua volta visibilissimo alle grandi distanze e dunque vittima dei facili tiri del nemico: pertanto poteva esser costretto ad abbassarsi.
Le manovre di atterraggio e di lancio del Drago erano simili ai tipici comandi navali, anche perché la navigazione aerea, nella quale non mancava il fastidioso beccheggio, aveva molti punti in comune con quella marittima.

L’equipaggio di ciascun pallone da osservazione veniva scelto anche in base alla prestanza fisica: muscoli forti e nervi saldi erano infatti indispensabili per domare le bizzarrie dell’aerostato, utilizzando le rigide funi di controllo ad esso agganciate.

Il sorriso e il sarcasmo che sorgevano spontanei a chi vedeva per la prima volta questo strano strumento da osservazione, si smorzavano subito una volta compresa l’indiscutibile utilità ed esigenza di “poter vedere di più per poter vincere”. Mentre gli Stati Maggiori ricevevano continui aggiornamenti sulle posizioni ed i movimenti nemici, anche le stesse truppe in trincea potevano sentirsi un poco rincuorate dalla presenza di queste, innumerevoli, sentinelle dei cieli.

(Testo principalmente tratto dal sito www.lagrandeguerra.net)