L'Eclettico



Un tentativo di autosovversione



Considerazioni a proposito delle mostre d’arte temporanee

L'ECLETTICO - web "aperiodico"

UN TENTATIVO DI AUTOSOVVERSIONE

Considerazioni a proposito delle mostre d’arte temporanee


Un tentativo di autosovversione, ecco quel che, prima di tutto, questo intervento vorrebbe rappresentare. L'invito di un appassionato d’arte rivolto ad altre persone che come lui condividono il piacere di frequentare ed esplorare musei e luoghi storici. L’invito consiste essenzialmente nel considerare con occhio critico e disincantato il fenomeno delle mostre temporanee, che pure rappresentano un’importante scadenza sui nostri calendari e sulle nostre agende, in favore di un approccio “esplorativo” e che in definitiva dovrebbe arricchire il nostro essere cittadini e persone educate al rispetto ed alla ricerca del bello.

Chi come noi è abituato a frequentare musei e luoghi “di cultura” (espressione che richiederebbe già di per sé un discorso a parte) finisce invece per essere fruitore di “eventi” di carattere straordinario, e come tale, principale “promotore” di un sistema che, come cercherò di dimostrare, contribuisce a dissipare il nostro patrimonio culturale e il nostro statuto di cittadini.
La tesi che sostengo è il prodotto di un particolare modo di guardare all’arte (specialmente all’arte antica): quello di un urbanista che, come tale, tende a considerare la produzione artistica come un fenomeno collocato nello spazio, e quindi con una precisa dimensione territoriale e civica.

Lo spunto per scrivere su questo tema mi è offerto dall'osservare l'attenzione che L'Eclettico riserva alle mostre ed esposizioni temporanee che si tengono presso le istituzioni culturali milanesi. Già, perché sono contrario alle mostre d’arte. Lo sono prima di tutto perché la continua migrazione di opere mette a serio rischio la loro conservazione e, in alcuni casi, la loro stessa permanenza in Italia (come insegna la vicenda del Cristo Portacroce del Romanino sottratto a Brera per l’insipienza di qualche funzionario - tema sul quale si potrà tornare in altra occasione), ma lo sono soprattutto perché il sistema/fabbrica delle mostre rappresenta un ennesimo pretesto per spingerci a perdere, seppur inconsapevolmante, un altro pezzo della nostra umanità.
Sì proprio umanità. E la constatazione è venata da un senso di amara ironia: perché chi cerca conforto nell’arte vorrebbe acquisire, anziché perdere, questa qualità.

A prescindere dalla disponibilità economica, dalla quantità o eccezionalità dei prestiti, e dai moventi che possono guidare curatori ed istituzioni museali, le mostre (o almeno la gran parte di esse) non sempre costituiscono proposte di significativo valore scientifico, oppure occasioni di  vero approfondimento. Per lo più, invece, restano eventi fini a sé stessi, finalizzati a ripagarsi i costi e nel migliore dei casi concepiti come investimenti finanziari, capaci di accrescere le entrate di un’istituzione museale, o accendere nuovi flussi turistici.

Dal punto di vista dell'impatto territoriale, invece, gli "eventi" hanno il solo effetto di dissimulare il luogo e la realtà in cui viviamo. Già, perché sono simulazioni dell’arte che distolgono lo sguardo di istituzioni e cittadini dal territorio in cui vivono. Fanno perdere il contatto dallo sfondo artistico (o se vogliamo dire, dalla scenografia) in cui noi tutti ci muoviamo. Veicolano l’attenzione dell'opinione pubblica su un racconto ufficiale (che per definizione offre letture riduttive e semplificanti), mentre l’azione di tutela ed il lavoro di chi cura le opere d’arte dovrebbero “educare” il cittadino a cogliere con curiosità ciò che lo circonda e ad apprezzare l’arte ed il bello nella quotidianità e nella sua prossimità (un privilegio che praticamente solo noi Italiani abbiamo, anche se non so per quanto ancora). L’opera d’arte italiana, unitamente all’architettura storica, e al paesaggio tradizionale, col suo deposito stratificato di vite passate, è a noi “vicina” per definizione; così come sono a noi vicine le “vecchie pietre” tra le quali è stata concepita e per le quali è nata.

Come corollario sono contrario all’idea stessa della “migrazione” delle opere. Non mi interessa l’idea che tutti debbono poterne fruire perché, sullo stesso principio, anche le montagne del Trentino sono state devastate a suon di funivie, skilift e seggiovie per “permettere” a tutti di goderne ciabattando, chessò, a 2.000 mt in sandali da mare o col cagnolino al seguito.
In Austria o Südtirol, la filosofia è diversa ed al visitatore si pone una scelta: “muovi le gambe” oppure ti accontenti di rimanere a valle. Così il territorio oltre confine conserva la sua identità, mentre le zone italiane, consumate come bicchierini di plastica usa-e-getta, vengono lasciate da chi ne ha goduto per passare ad altre mete rimaste ancora incontaminate.

L’opera deve quindi rimanere dov’era e com’era, nel luogo per cui è stata pensata. Anzi, se esiste ancora qualche margine d’azione sul piano giuridico, patrimoniale, tecnico, contrattuale o finanziario, bisognerebbe RIPORTARLA a casa. L’arte antica è eminentemente un progetto di spazio e l’elemento qualificante di un luogo, è una parte di un luogo perché produce nello spazio un’altra realtà in trasparenza, allude a un racconto e ad una sfera simbolica e dello spirito (cfr. Mumford, 1944), accende l’immaginazione oltre la materia del costruito.

Quindi, quadri e sculture non possono essere figurine da scambiarsi. Per tornare alla nostra Milano e dintorni (ed in secondo luogo in Italia), se c’è una decadenza (a tratti una scomparsa) della dimensione storica ed artistica, essa deriva proprio dalla perdita di contatto tra cittadino e luogo, e tra luogo ed opera d’arte: quel contatto si definisce sia fisicamente (sul dove sta l’arte) sia, soprattutto, sulla percezione e sulla consapevolezza di quel deposito secolare di pezzi di storie di vita di persone che sono vissute nelle nostre stesse strade e nelle nostre stesse campagne e che hanno visto nascere tra le proprie mani dipinti, sculture, libri e spartiti musicali. In una battuta, per riprendere un’intuizione di Mark Mazower, la nostra casa, la nostra città, cioè la città “dei vivi” è compenetrata nella città “dei morti”. La casa e la città dei vivi conferisce pienezza di vita e profondità di prospettiva a chi la abita, se conserva e possiede la densità di segnali, simboli e tracce lasciati dalle generazioni di coloro che invece sono diventati invisibili. La “smobilizzazione” delle opere d’arte invece prefigura (e sottintende) l’esistenza di uno spazio asettico, ridotto ad una coordinata geografica.

L’evento è un avvenimento che a livello sociale cerca di imporre un credo strampalato: che l’accesso al bello sia un’eccezione all’ordinario ed al giornaliero, e soprattutto un’esperienza che non può essere vissuta diversamente da una condizione di affollamento stile pollaio.
L’evento e la mostra aprono una parentesi (arriva Giotto a Milano! tra un mese arriva Rubens!) per far ripiombare la persona all’apatia dopo la foga di due orette... un circolo vizioso che si installa tra prevalere del brutto nello spazio costruito e disattenzione per ciò che c’è di vicino.

L’evento e le mostre contribuiscono inoltre a peggiorare la conoscenza critica: sono modi con cui l’attenzione viene veicolata su qualcosa d’altro che viene da fuori, per far correre la gente a vedere l’“altrove”, invece di insegnare a vedere con disincanto ciò che si ha accanto e di fronte nel presente, magari rivalutando tesori ignorati nella via accanto. Ti dicono cosa guardare. Non ti insegnano a guardare.

La rincorsa alle opere in prestito distrae le istituzioni dall’aver cura dei propri patrimoni. Il discorso vale per le collezioni Milanesi, che tanti gioielli hanno messo in un angolo, sottoposto a restauri “archeologici” che fanno gridare vendetta, o persino disperso con ignavia.

Meglio passeggiare per le nostre città, chiedere permesso ed entrare in un cortile o in una chiesa dimessa. In questo modo la dimensione della cittadinanza si potrebbe quindi arricchire di una nuova esperienza: quella della scoperta dietro l’angolo.
Mi si dirà che voglio andare contro corrente, oppure mi si guarderà con sufficienza: tuttavia sono convinto, che una rafforzata consapevolezza del legame inscindibile tra opera d’arte, testimonianza storica e spazio di vita, avrebbe l’effetto di rendere le nostre esistenze e la nostra identità civica qualcosa di un po’ più speciale, e irripetibile.
Per chiudere con una seconda battuta, se devo essere un personaggio nella favola de “Gli abiti dell’imperatore” preferisco essere il bambino che si accorge che l’imperatore è nudo (e si prende un ceffone dai genitori), invece di stare fra la folla di adulti che celebra la bellezza di abiti invisibili perché le autorità e gli esperti han detto loro di accorrere e far festa.

Guido Codecasa, aprile 2017
© Riproduzione riservata