Seppur per una distanza breve
come un sottile giunco della palude
di Naniwa non dobbiamo più incontrarci
in questa vita?
Questo chiedo io.
Come l’alga marina brucia
il mio essere è trepidante
nell’attesa di chi non arriva
È innanzitutto poesia, la mostra “Hokusai, Hiroshige, Utamaro. Luoghi e volti del Giappone che ha conquistato l’Occidente” a Palazzo Reale di Milano. Ed è questa la chiave di lettura che consente di apprezzarla anche a chi di Giappone conosce poco o nulla, e quel poco troppo superficialmente.
Fra costoro ammettiamo di essere anche noi, per l’occasione ricolmi di “sana invidia” nei confronti dell’amico appassionato di questo paese del quale conosce lingua, scrittura e cultura e non si trova perciò, come chi scrive, del tutto spaesato già soltanto di fronte ai nomi di opere, tecniche e luoghi, che non ci azzardiamo qui a riportare se non in minimi accenni.
Per quanto riguarda i luoghi (sopra Il ponte che attraversa la luna ad Arashiyama nella provincia di Yamashiro) va anche detto che molti di essi sono indicati nella loro denominazione risalente all’età feudale, della quale, per chi non dispone dei testi e delle adeguate tabelle (come nel nostro caso) è oggi difficile ricostruire la corrispondenza con quella nuova conseguente alla riforma dello stato: quando i Giapponesi decidono qualcosa lo fanno senza mezze misure e con decisione!
Uno spettacolo di teatro NO, un paio di concerti di musica giapponese e la precedente mostra dedicata al Giappone di qualche anno fa, sempre a Palazzo Reale, sono dunque tutto il bagaglio culturale che abbiamo con noi varcando l’ingresso dell’esposizione delle oltre 200 stampe del genere Ukiyo-e, vocabolo che significa “Immagini del mondo fluttuante” ed identifica la stampa artistica giapponese su blocchi di legno, fiorita nel periodo Edo, tra il XVII e il XX secolo.
La mostra propone il periodo d’oro di questa forma d’arte: i 100 anni che vanno dalla seconda metà del XVIII secolo alla prima metà di quello successivo. Di fatto il tempo nel quale sono vissuti i tre artisti che ne sono protagonisti: Katsushika Hokusai (1760-1849), Utagawa Hiroshige (1797-1858) e Kitagawa Utamaro (1753-1806).
Di quest'ultimo, a destra, presentiamo: Yoyogiku e Yoyotsuru della Matsubaya, "Illustrazione completa delle parodie del Kabuki di Yoshiwara" [Primo foglio di sinistra della serie], 1798).
L'immagine della 'parodia del Kabuki' è un riflesso della popolarità che aveva quel teatro. Questa stampa è l'immagine all'estrema sinistra di un trittico al quale apparteneva. Le due donne sono cortigiane di Matsubaya, una celebre casa da té dell'epoca, che giocano con un pupazzo ritraente un attore molto famoso in quel momento. Il trittico nel suo insieme costruisce un parallelo dello stilema drammaturgico del triangolo amoroso, molto frequente nel Kabuki.
Tutto questo ci rammenta che molta arte figurativa è pensata per dare al fruitore dei rimandi che vanno oltre il dato estetico-visuale immediato, ma che non possono essere colti da chi non è immerso nella cultura o nella civiltà che ha prodotto l'opera d'arte.
Ad esempio, sono tanti i giapponesi che ammirano il Mosé di Michelangelo o il Laocoonte, avvolto con i suoi figli dal serpente (a Milano esposto in copia sullo scalone d'accesso della Pinacoteca Ambrosiana), ma sono molti meno tra essi quelli che ne sanno cogliere i riferimenti biblici o mitico-virgiliani.
Gli altri sono incolpevolmente e inconsapevolmente ciechi ad intere dimensioni di ognuna di queste sculture, limitandone la fruizione intellettuale, spirituale ed emotiva.
Il reciproco vale per l'uomo occidentale che contempla l'arte giapponese, anche quando la apprezza.
Mauro Griselli
Trattandosi di opere di piccole dimensioni, il consueto e comune (viste le code all’ingresso) errore di ridursi alla visita nelle ultime settimane di apertura ed, ancor peggio, il farlo con la folla del sabato pomeriggio, comporta la “punizione divina” della difficoltà di accostarsi ad esse quasi “infilandoci dentro il naso” come è indispensabile per gustarne al meglio sfumature e dettagli (sotto: Hiroshige 28 - Fukuroi. I celebri aquiloni della provincia di Tōtōmi).
Così la visita diventa un poco “stressante” costringendoci a saltare da una stampa all’altra non appena chi vi sta davanti se ne allontana, liberando il posto nel quale ci si butta a capofitto come quando si cerca un parcheggio fra le auto in sosta in doppia fila!
Un’esperienza di cui faremo tesoro per il futuro, invitando anche i lettori ad organizzarsi per tempo e puntare su giorni lavorativi ed orari dei pasti.
Altra “istruzione per l’uso”: portare con sé cuffie o auricolari personali per utilizzare più comodamente l’audioguida, utile ausilio per visitatori non già “acculturati” e col solo limite della disposizione non consecutiva in sala della selezione di opere descritte, perciò con una successione di numeri non progressiva.
Nonostante l’affollamento, occorre dire che, forse per la titubanza determinata dall’accostarsi ad una cultura poco conosciuta dai più, l’atteggiamento generale dei visitatori è più educato e silenzioso del solito e nelle sale si percepisce un clima di placida calma e sommessa reverenza che non sono sempre scontate in analoghe manifestazioni.
Paesaggi e luoghi celebri: Hokusai [qui Il ponte appeso alle nuvole sul monte Gyōdō ad Ashikaga] e Hiroshige; Tradizione letteraria e vedute celebri: Hokusai; Rivali di “natura”: Hokusai e Hiroshige; Utamaro: bellezza e sensualità; I Manga: Hokusai insegna, sono le cinque sezioni nelle quali non ci vengono presentati quadri, come per lo più avviene nelle mostre di arte occidentale, e nemmeno pezzi unici.
Si tratta invece di xilografie policrome, ovvero disegni riprodotti al contrario su matrici di legno, intagliate a rilievo per le parti colorate in modo da poterle inchiostrare. Ad ognuna di esse corrispondeva un colore e venivano utilizzate finché non si consumavano a furia di ristampe.
Ognuna delle opere che vediamo a Milano è infatti rappresentativa di 100-1.000 esemplari. Grandi tirature realizzate a mano grazie alla maestria degli artigiani, intagliatori e stampatori, ai quali gli autori dei soggetti devono molto del loro successo.
Anche oggi, chi si intrattenga a conversare con un artista che realizzi stampe con le note usuali tecniche, ha senz’altro appreso da questi l’estrema importanza attribuita alla possibilità di avvalersi di uno stampatore di qualità.
Eppure, quando sono state prodotte, queste stampe (qui a fianco La cascata Aoigaoka a Edo) non erano considerate preziose. Erano beni di consumo, qualcosa che potremmo ricondurre alle nostre figurine Liebig, per chi se le ricorda.
Col tempo, nel Giappone modernizzato, da oggetti d’arredo appesi alle pareti domestiche potevano diventare “toppe” per rappezzare un buco in una porta in carta di riso rotta, o essere addirittura usate per avvolgere pacchetti.
Vi sono raffigurati personaggi famosi nell’ambito della cerchia urbana e nazionale e vedute naturali. Così facendo questi aspetti del Giappone venivano resi noti ad un pubblico vasto, anche grazie al successo che questa forma d’arte riscosse fra i ceti urbani che all’epoca stavano accrescendo il proprio rilievo sociale.
La sensibilità di considerarli opere d’arte è tuttavia maturata prima all’estero che in Giappone. Nel 1850 circa, per la forzatura esercitata dagli Stati Uniti d’America, il Giappone si apre agli stranieri e questo permette anche ai nostri Ukiyo-e di circolare nel mondo arrivando fino all’Europa di cui influenzeranno l’arte (a lato, Hiroshige: [Stazione 2] Shinagawa. Partenza del daimyō).
Si pensi, ad esempio, allo stile di inizio Novecento che chiamiamo Liberty o “stile floreale” del quale Milano conserva ancora tanti mirabili esempi ben visibili anche percorrendo le sue strade, purché si tenga lo sguardo alto e non risucchiato dagli schermi dei propri dispositivi elettronici mobili.
L’importanza di questa “contaminazione” fu talmente rilevante da arrivare a far coniare il vocabolo “Giapponismo”, nel senso di “peculiare del Giappone”, un esplicito esempio di questa tendenza artistica l’abbiamo visto proprio in questi stessi giorni nel dipinto Aquilone, opera del pittore divisionista Carlo Fornara (1871-1968) ed emblema della contemporanea mostra “Anima bianca” alla GAMManzoni di Milano (leggi di più >>>).
Ma attenzione, con Giapponismo si intende individuare uno stile in pittura fatto proprio da diversi artisti in più o meno numerose opere del proprio catalogo. È invece non corretto identificarlo come una branca dell'Orientalismo: tendenza del gusto europeo, particolarmente accentuata in alcuni periodi della storia delle arti figurative (ad esempio nell'Ottocento), a ritrarre o imitare paesaggi, architetture, usi e costumi, fogge di abiti tipici delle regioni dell’estremo e del Vicino Oriente.
Digressione.
È curioso osservare che quest’ultimo includeva gli stati affacciati sul mediterraneo Orientale, la Penisola Arabica e la Persia, genericamente individuati come Paesi del Levante. Gli stessi stati che oggi, nelle cronache quotidiane, sono individuati come appartenenti al Medio Oriente.
Dunque si tratta di Vicino o di Medio Oriente?
Dipende dal punto di vista ed il nostro è, purtroppo, ancora una volta quello di ignoranti “succubi”, senza nemmeno porsi il dubbio, dell’egemonia culturale anglosassone.
Per questi paesi, infatti, Vicino Oriente era l’Europa di Sud Ovest e Medio Oriente l’Egitto e l’Asia di Sud Ovest.
A creare a confusione è stato l’uso del vocabolo acriticamente introdotto dalla stampa quotidiana anche in Italia.
Dei tre artisti, Hokusai, l’autore della Grande onda, icona internazionale di questa generazione, era il più eclettico ed eccentrico (basti ricordare che ha cambiato nome più di una trentina di volte): per i temi raffigurati e per il modo di trattarli.
Gli altri due si attennero a soggetti più specifici.
Utamaro prediligeva la figura umana - ripresa intera o, più spesso, a mezzo busto - e la resa dei sentimenti.
In Hiroshige invece predomina la natura, in vedute nelle quali sono però generalmente sempre presenti persone: dipinte con segni grafici minimi e tuttavia sufficienti a garantire loro una perfetta riconoscibilità.
Abilità che suscita immediato il parallelismo con gli Impressionisti, da affermare con cautela anche se è innegabile che da questa pittura giapponese essi furono ispirati.
Un modello anche esplicitamente dichiarato, come nel caso di Van Gogh che, seppure reiterpretandolo, cita testualmente Hiroshige nei suoi Ponte sotto la pioggia (l'originale sopra a sinistra, la copia a destra incorniciata da "falsi" ideogrammi) e Susino in fiore.
Altro raffronto interessante è quello con la pittura del tempo in Europa, ad esempio dei vedutisti Canaletto e Bellotto o quella rappresentata a Milano, ad esempio, da Migliara, Appiani, Inganni e… Hayez. Può essere molto interessante, ma anche sconvolgente, fare un giro a Palazzo Morando, alla Galleria d’Arte Moderna, alle Gallerie d’Italia o a Brera e, subito dopo essersi immersi nell’affascinante mondo del Giappone, ammirarne i vertici raggiunti nella rappresentazione quasi fotografica della realtà. Una tendenza artistica che, seppure ignorata dalla “grande stampa”, specialmente nel mondo anglosassone sta trovando nuovi praticanti.
Anche mancando di una adeguata preparazione culturale, la mostra resta dunque ben godibile dal punto di vista estetico. Ed anche se alcune opere possono suscitare l’impressione di ripetitività, guardandole con attenzione si nota che non vi mancano mai il dettaglio che rende ciascuna un pezzo unico e soluzioni di notevole originalità dal punto di vista della grafica, soprattutto nelle raffigurazioni paesaggistiche di ponti e cascate.
Le prime che ci sono presentate nelle prime sale sono biglietti augurali o di invito del primo decennio del XVIII secolo. Si tratta di “surimono”, che significa “cosa stampata”. In essi il disegno è accompagnato da informazioni per gli invitati o versi poetici con i quali è in corrispondenza più o meno diretta ed esplicita.
Lo è senza dubbio uno dei componimenti accostati alla raffigurazione di una divinità daikoku che, appoggiata sulla schiena, spinge in alto con le gambe una pesante balla di riso. Un disegno che, nell’insieme, ricorda proprio da vicino la forza della natura espressa dalle volute della felce che dispiega le sue fronde richiamata dal testo che recita:
Solleva a gran forza
la zolla di terra
dorata,
spingendo il
pugno in avanti,
la felce.
Siamo nell’anno 1825 del nostro calendario, come si evince dalla presenza del gallo - decimo segno dello zodiaco cinese che ha un ciclo di 12 anni, ognuno correlato ad un animale -, ed il mazzuolo, strumento usato in attività contigue a quella agricola, ci conferma che siamo in questo contesto ed in esso al daikoku si chiede di propiziare prosperità, a riprova della funzione augurale della stampa.
Analogo scopo, anche se per noi meno pienamente comprensibile, è la successiva Parodia di Minamoto no Yoritomo durante il rito buddista in cui vengono liberati animali in cattività (Höjöe): un uomo ed una donna aprono le gabbie nelle quali sono rinchiuse delle gru che volano via scomparendo in cielo fra le nubi dalle quali, buffamente, spuntano ancora le lunghe zampe. E la targhetta che vi vediamo legata, un po’ come oggi si pratica l’inanellamento per i censimenti degli uccelli migratori, ci fa pensare alla nostra abitudine, tanto abusata quanto poco ecologica, di liberare in cielo palloncini come gesto beneaugurante nelle più varie circostanze.
Seguono un elegante invito per il tè, come comprende chi è capace di tradurre la scritta sulla destra, e "composizione di fiori": articolata scena di cui ci è rimasto in mente l’interno di abitazione con un grosso gatto arcigno (in pietra?) accanto ad una donna con un paio di forbici a terra davanti a sé ed intenta a realizzare composizioni floreali, mentre dalla finestra si vedono sullo sfondo un gattino ed un uomo dall’abbigliamento che ricorda quello di un sacerdote dell’antica Persia.
Continuando nel percorso troviamo anche alcuni primi esempi di prospettiva nell’arte figurativa del Giappone. Sebbene questo fosse un tipo di rappresentazione che non interessava, nonostante la sua chiusura al mondo esterno, già dal Sei-Settecento nell’Impero del Sol Levante circolavano libri ed opere d’arte provenienti dall’Occidente e gli artisti avevano acquisito i principi della prospettiva occidentale e la utilizzavano… anche se in modo un po’ ingenuo ed intuitivo come si era fatto per secoli in Europa prima che, nel '400, fosse disciplinata dal Rinascimento con regole che la rendessero assolutamente riconoscibile.
Ce ne danno testimonianza le "Vedute prospettiche" o "Ukie": scene di interni, di spettacoli teatrali o vedute come quella del Canal Grande di Venezia che viene riproposta come Porto di una cittadina olandese.
Quest’ultima non è in mostra, dove invece troviamo una stampa ricca di dettagli dell'interno del tempio di Toeizan a Ueno nella quale la scelta di proporlo in prospettiva è deliberata ed esplicitamente dichiarata nella scritta che corre lungo il bordo del foglio.
Nella carrellata di ponti che si susseguono sulle pareti della sala successiva (dalla serie Vedute insolite di famosi ponti giapponesi di tutte le province) non sappiamo quanto vi sia di fantasia e quanto di realistico nella rappresentazione dei luoghi: ben noti ai Giapponesi del tempo, e forse anche a quelli odierni, ma purtroppo a noi sconosciuti, e chissà se ancora esistenti.
In compenso viene offerto al nostro sguardo un ricco campionario delle più disparate soluzioni costruttive: dall’andamento a zig zag delle tavole distese su una sorta di palude nel caso della Veduta dell’ottuplice ponte a Mikawa (che ritroveremo anche in successive stampe), alla solidità massiccia di piloni costruiti con massi ciclopici de Il ponte Kintai nella provincia di Suō.
All’arco perfetto di un ponte a tamburo (I ponti a tamburo presso il santuario di Tenjin a Kameido) ed alla leggerezza di un ponte sospeso fra scoscesi picchi montani sopra le nubi (sopra: Il ponte sospeso tra Hida e Etchū), sul quale non si comprende come riesca a non perdere l’equilibrio ed a non cadere al fondo del dirupo l’uomo che lo percorre con le spalle cariche di un peso voluminoso.
Non meno interessante è la vita che si svolge sui ponti ed attorno ad essi e della quale vediamo:
dettagli curiosi, come quello degli sfaccendati appoggiati al parapetto del Ponte di barche che guardano in basso l’acqua che scorre;
scene più ampie, come gli arcieri che si esercitano al tiro a segno fra le tende e le bandiere dell’accampamento militare sulle rive del fiume (Il ponte Yahagi a Okazaki sul Tōkaidō) o il paesaggio notturno col grande arco del ponte sotto il quale passano barche con lanterne accese sugli alberi mentre una schiera di persone, anch'esse munite di lanterne, sono assiepate su di esso a guardare lo spettacolo (Il ponte Tenma nella provincia di Settsu);
o paesaggi che racchiudono la foce di un fiume scavalcato da un piccolo ponte e con, alle sue spalle, la montagna ricoperta dall’alternanza delle macchie scure dei sempreverdi e delle macchie bianche punteggiate di rosa degli alberi fioriti (Il Tenpōzan alla foce del fiume Aji, nel Settsu).
Se nella rappresentazione dei ponti, pur nella semplificazione del disegno, Hokusai è molto realista anche nella cura dei dettagli, le sue cascate (dalla serie Viaggio tra le cascate giapponesi, 1832-1833 circa), ed i selvaggi ambienti naturali nei quali sono inserite, evocano nello spettatore la magia di un mondo più fantastico, vicino a quello contemporaneo dei film di Hayao Miyazaki nelle cui spettacolari realizzazioni fluttuanti nel cielo riteniamo di poter riconoscere un evidente tributo agli ukiyo-e.
Questo non significa che venga meno l’attenzione per il particolare: come i ricorrenti cippi - curioso quello attorno al quale cresce quasi a spirale un albero -, o le pietre appoggiate su un tetto a tenerne ferme le assi.
In alcuni casi Hokusai arriva a proporre originali soluzioni grafiche, come in La cascata di Amida in fondo alla via di Kiso disegnata contemporaneamente da due diversi punti di vista: laterale e aereo che proponiamo nell'immagine a lato.
Caratteristica, invece, comune a tutte è la loro raffigurazione con l’aspetto di monumenti d’acqua o di ghiaccio costituiti da flussi d’acqua colorati di bianco e di blu che le conferiscono un aspetto del tutto opposto a quella che è la sua natura: ovvero il suo scorrere perenne.
Al contrario, l’acqua sembra infatti essere immobile e con l’aspetto di un enorme reticolo di vene raccolte in fasci. Una sorta di sistema venoso del pianeta che fa pensare, ad altra scala, alle contorte radici dei banian descritte nei suoi romanzi da Emilio Salgari quando fra di esse nasconde gli accessi ai rifugi sotterranei dei feroci strangolatori devoti alla dea Kali.
Qui accanto La cascata Kirifuri sul monte Kurokami a Shimotsuke.
Ma, nonostante il loro aspetto da scenografia teatrale, nelle cascate di Hokusai sono perfettamente riconoscibili luoghi molto reali e ben conosciuti da tutti.
Lo dimostra, ad esempio, La cascata Rōben a Ōyama nella provincia di Sagami raffigurata sia da Hokusai sia da Hiroshige (sotto), ciascuno alla sua maniera e da un diverso punto di vista, ma entrambi fedeli alla realtà degli uomini che vi si bagnano fra le case del villaggio, le rocce circostanti e le nebbie.
Certo, resta per il momento una curiosità frustrata il desiderio di vedere esposta in mostra, accanto a ciascuna di esse, una fotografia degli stessi luoghi nel XIX secolo, al tempo dell’autore, ed anche di come sono oggi.
Auspicio valido anche per le sezioni precedenti e successive: ed in particolare per le 36 vedute del monte Fuji o le 53 stazioni di Posta del Tōkaido.
Una ricerca che può essere fatta anche autonomamente ma, naturalmente, non nel tempo di visita alla mostra, che è meglio dedicare all’ammirazione delle opere anziché alla ricerca sugli smartphones.
Ed allora, al visitatore non acculturato almeno un poco sulla geografia nipponica, non resta che godersele così come se le godono i viandanti disegnati fermi davanti alle cascate per ammirarle.
E curiosare nella vita che si svolge loro accanto.
Come la scena in cui due personaggi strigliano e lavano un cavallo nell’acqua di una cascata - La cascata di Yoshino nella provincia di Yamato dove Yoshitsune lavò il suo cavallo - o quella in La cascata Aoigaoka a Edo, dove un portatore stanco lascia per un momento poggiato a terra il bilancere con le due ceste che portava in spalla ed, asciugandosi il sudore sulla testa con un fazzoletto, sembra una scimmietta che si gratta il capo alla maniera di Stan Laurel del duo comico Stanlio e Ollio (si veda la quinta stampa pubblicata dall'inizio di questo articolo).
Quest’ultima è un’immagine ricorrente e la ritroveremo anche in una delle Vedute del monte Fuji: Hodogaya sul Tōkaidō dove ne è protagonista uno dei portatori di una portantina che approfitta della sosta del suo collega inginocchiato a riallacciarsi la stringa di una calzatura!
Ed ancora: l’uomo che pulisce la strada con una scopa di saggina ed i personaggi che sostano ad osservare con meraviglia la cascata che scavalca la strada sulla quale sono incamminati.
Montagna simbolo del Giappone (a lato La proprietà Umezawa nella provincia di Sagami), con la sua tipica sagoma e la vetta innevata, il monte Fuji (la cui corretta pronuncia è “fugi”) è protagonista, molto spesso con discrezione tutta orientale, della successiva sezione della mostra nella quale le sue 36 vedute, realizzate da Hokusai negli anni ’30, sono disposte a far corona attorno alla Grande onda: immagine manifesto della mostra e “grande”, agli occhi del riguardante, nonostante le piccole dimensioni della stampa (La [grande] onda presso la costa di Kanagawa).
La Grande onda risulta infatti tale dal confronto con le due barche, in balia della massa d'acqua, che le sovrasta come un artiglio fatto di molteplici artigli e pronto a ghermirle così come cattura, ipnotizzandolo, lo sguardo dei visitatori che vi si accalcano davanti.
Il monte Fuji quasi non si nota, posto com’è in un lontano secondo piano e nonostante la sua forma sia richiamata da quella della piccola onda in primo piano sulla sinistra.
Oltre al soggetto così particolare, a distinguerla da (quasi) tutte le altre vedute è il colore blu che la pervade.
Si tratta del Blu di Prussia: primo pigmento inorganico, prodotto a Parigi nei primi del Settecento e rapidamente diffusosi, come dimostrano queste nostre stampe, fino in Estremo Oriente.
Un colore che ritroviamo anche in una veduta “dalla baia” dove, accanto ai tetti delle case in paglia ve ne sono altri di un blu così profondo da dare loro l’aspetto delle superfici metalliche degli odierni pannelli solari.
Altrettanto coinvolgente della Grande onda e come questa tutto nella tonalità del blu, è un secondo paesaggio marino, quasi la versione giapponese di una romantica “Marina in tempesta” della contemporanea pittura occidentale (Kajikazawa nella provincia di Kai).
Vi sono raffigurate, l’una accanto all’altro, la contrapposizione fra la staticità immobile di una donna seduta sul “dente” di una scogliera che si protende nel mare e lo sforzo del pescatore che, in piedi sulla punta dell’impervio scoglio, è incurvato nella lotta con le onde delle acque agitate alle quali contende la sua rete che vi ha gettata. Un contrasto replicato dallo stacco netto fra la parte inferiore e quella superiore della stampa.
Nella prima il bianco e il blu sono avviluppati nel definire le creste arricciate delle onde che, verso il largo, si placano sfumando nell’immobile orizzontalità del bianco delle nubi, dalle quali la vetta del Fuji emerge sintetica grazie alla semplice e sottile linea che ne definisce il contorno dei versanti nascosti dalle nubi.
Quella delle nubi è una presenza costante in queste vedute. Che siano alte nel cielo, o basse in primo piano, non mancano mai; ed in alcuni casi determinano effetti particolari come nella veduta che propone un cavallo che si abbevera sulla riva di un fiume tanto grande da sembrare un mare mentre, poco distante, una barca sembra navigare sulle nubi per raggiungere la cima del monte Fuji (sopra: Il fiume Tama nella provincia di Musashi).
Pressoché immancabile è anche la presenza umana.
A volte quasi impercettibile, come nella Grande onda, dove i marinai sono rannicchiati sul fondo delle loro barche, paralizzati dalla paura e quasi prostrati in preghiera alla potenza della natura alla quale chiedono di essere risparmiati.
Più spesso ben visibile, con personaggi intenti alle più disparate attività.
Per noi particolarmente interessanti visto che ci permettono di avere un’idea di quale fosse la vita in Giappone fra Sette e Ottocento.
Ed allora vi troviamo santuari (Il santuario Honganji di Asakusa a Edo), operai che lavorano sui tetti, a rischio di caduta (qui sopra: Schizzo dei negozi Mitsui di Surugachō a Edo), ed in entrambe le vedute aquiloni che si librano nel cielo.
La curiosa scena (a lato) di un bottaio al lavoro all’interno della prima struttura di una grande botte che inquadra sullo sfondo l’immancabile protagonista di questa serie di stampe (Fujimigahara nella provincia di Owari).
Immensi depositi di legname meticolosamente impilato a formare torri che nulla invidiano alle fortificazioni di un castello: [Depositi di legname sul] Tatekawa a Honjo.
Legate alle attività di lavorazione del legno sono anche altre “scenette” come in Tra i monti della provincia di Totomi il falegname intento a rifilare una sega divaricandone i denti, o i suoi colleghi che, muniti di seghe verticali, ricavano assi da enormi tronchi squadrati appoggiati su cavalletti attorno ai quali si affaccendano, anche tenendosi in equilibrio in piedi sopra di essi.
Non ci è invece chiara la funzione delle stuoie appoggiate sul legname.
Indagheremo e non mancheremo di riferire qui le nostre eventuali scoperte.
Altre vedute collegate alle attività economiche del tempo sono le piantagioni di tè e la ruota idraulica accanto alla quale notiamo il simpatico dettaglio di un bambino che tiene una tartaruga al guinzaglio (Ruota idraulica a Onden).
Poi ancora la pesca con una nassa in vicinanza di un cippo diroccato. Anche questi cippi, come si è già visto, sono un elemento ricorrente il cui significato ci rimane, tuttavia, oscuro.
Ambientazioni con presenza di acqua ci mostrano un porto al tramonto con un grande ponte sullo sfondo e, sulla barca vicina al pontile in primo piano, un personaggio che, non abbiamo capito per quale ragione, immerge in acqua un lenzuolo attorcigliato (Veduta del tramonto presso il ponte Ryōgoku di sera dalla sponda del pontile di Onmaya).
Seguono vedute da canali (Nihonbashi a Edo), da una baia - nella quale colpisce lo sforzo dei marinai curvi sui remi delle imbarcazioni che la solcano (Schizzo della baia di Tagonoura vicino a Ejiri sul Tōkaidō) -, e di un villaggio reso raggiungibile dalla bassa marea che ne rivela il passaggio a filo d'acqua come nella francese Mont Saint Michel in Normandia (Enoshima nella provincia di Sagami).
Il più singolare di tutti è però, senza dubbio, l’attraversamento di un guado con portantine e personaggi di spicco portati in spalla dai loro servitori con la particolare tecnica del tenerne le gambe distese davanti a sé impugnandole per le caviglie.
Non mancano le vedute inquadrate dall’interno di abitazioni.
In una di queste, assieme ad un vecchio che fuma la pipa si vede seduto a terra un servo a battere non si comprende bene cosa. L'occhio attento del nostro amico lettore "nippofilo" ci spiega che il personaggio sta battendo su... un sandalo di paglia intrecciata.
Lo sta riparando o sta finendo di fabbricarlo e le fibre vegetali devono essere ribattute in sede.
In un primo momento ci era sembrata plausibile l'ipotesi che il gesto potesse avere a che fare con un tipico alimento giapponese: il riso battuto fino a farlo diventare un poltiglia bianca manipolabile che serviva come ingrediente base per diverse varietà di cibi.
Evidenza, questa, dell’importanza del riso nell’economia del Giappone rurale.
In proposito può essere interessante ricordare che il valore dei feudi era calcolato in relazione alla superficie di risaie che contenevano, mentre gli stessi samurai al servizio dei feudatari erano pagati con unità di misura della quantità di riso annua nella quale consisteva la loro retribuzione. Un po’ come, da noi, la stessa parola “salario” tradisce il fatto che i soldati romani erano pagati con misure di uno dei prodotti economicamente più importanti del tempo: il sale, grazie al quale, ad esempio, i cibi potevano essere conservati (oltre che insaporiti).
In questa scena di interno, come in altre in ambiente aperto, si nota inoltre un altro elemento comune a tante vedute del Fuji: c’è sempre, o almeno spesso, qualcuno che ne indica la cima, come si è visto anche in La sala Sazai del tempio dei Cinquecento Rakan.
Analogamente c’è sempre gente sui sentieri.
Che siano di montagna: con alpinisti intenti alla scalata di una parete (Gruppi di alpinisti) o viandanti che misurano le dimensioni del tronco di un grande albero abbracciandolo in tre (Il Passo di Mishima nella provincia di Kai), ma sono insufficienti per coprirne l'intera circonferenza.
O di pianura, e ne ricordiamo una buffa scena nella quale alcune persone sono sferzate dal vento che ne fa volare via carte e cappelli che i malcapitati provano invano ad inseguire (sotto: Ejiri nella provincia di Suruga).
Sempre controvento procedono i cavalieri che si proteggono sotto i grandi cappelli di paglia che ci nascondono i loro volti, “strategicamente” sempre opposti al lato di chi guarda e lasciando il contatto visivo con l’osservatore al grande occhio delle loro cavalcature (Il villaggio di Sekiya sul fiume Sumida).
Una scelta chiaramente voluta, visto che l’abbiamo notata molto presente ed evidente anche sui ponti dove i personaggi sono frequentemente presentati di spalle e con i visi nascosti da cappelli o ombrelli, sia col bel tempo sia nelle scene di temporali.
Una delle rare vedute nelle quali non ci sono esseri umani è quella del Fuji con gru a terra ed in volo (pubblicata all'inizio di questa sezione).
Ad essa si accompagnano le uniche due nelle quali il Fuji è presentato in primo piano, anche se sempre decentrato sulla destra, posizione nella quale la pittura giapponese sempre colloca il soggetto principale.
Sono la Giornata limpida con vento del sud (detta anche Fuji rosso, per il colore della montagna) e Temporale sotto la cima, caratterizzata dalla saetta arancione che si staglia e risalta sul bruno della montagna per contrasto di colori quasi come fosse una fenditura sulle pendici di un vulcano dalla quale sta per erompere la lava.
Quanto le 36 vedute del Fuji abbiano lasciato il segno nella pittura giapponese è dimostrato dal fatto che siano state riprese anche da Hiroshige.
In mostra troviamo un ventaglio sul quale è raffigurato il Fuji dalla provincia di Surunga (non sappiamo dire se la denominazione è ancora attuale).
Accanto alla sua cima si vedono tre nubi e sulla destra del disegno un testo in versi fornisce indicazioni per prevedere il tempo: “se la nube è spinta verso il mare ci sarà tempo terso se è spinta verso il monte ci sarà pioggia”.
Questa immagine prelude all’ampia sezione della mostra nella quale Hiroshige ha il suo “momento di gloria” con l’esposizione delle sue 53 stazioni di Posta del Tōkaido.
Questo artista è conosciuto anche come “maestro della pioggia” (emblematica è 23 - Fujieda), per l’abilità che gli è riconosciuta nel renderne l’effetto nelle sue “scenette”. In esse, rispetto a Hokusai, si presenta meno attento al dettaglio e tratta i soggetti in modo più sintetico ed essenziale, ma non per questo viene meno nella precisa restituzione dei caratteri salienti e delle peculiarità di ogni stazione.
Fra case da tè, nevicate (5 - Hodogaya. Il fiume e il ponte Katabira, 21 - Mariko e 48 - Seki), viaggi notturni in portantina, alla luce delle torce che la precedono e la seguono (11 - Hakone. Torce di pino nella notte), le stampe che più ci restano in mente sono due.
Una terrazza sulla quale un personaggio è intento ad un esercizio di calligrafia mentre alle sue spalle sono inginocchiati due samurai, Yui.
E la vivace scena urbana di 54 - Ōtsu nella quale un uomo seminudo che, in primo piano, inveisce verso una donna che lo guarda con distacco mentre due uomini cercano di trattenerlo dall’avventarsi su di lei.
Sull’altro lato della strada, in un interno senza pareti sono esposte stampe fra le quali spicca, anche per le grandi dimensioni, quella di una grottesca figura le cui corna che spuntano dal capo la fanno identificare come diabolica.
Si torna a Hokusai con la selezione di xilografie appartenenti a due sue famose serie dalle quali si evince che, all’interno del filone delle vedute, esisteva un mercato destinato ad un pubblico colto e ricco.
Colto perché doveva poter leggere ed apprezzare i classici della poesia e della letteratura cinese e giapponese, e ricco per potersi permettere di commissionare queste ricercate stampe nelle quali si abbinavano nomi noti, versi poetici e luoghi celebri.
La prima, Specchio di poeti giapponesi e cinesi, presenta stampe di elevata qualità delle quali, purtroppo, a noi però sfuggono i riferimenti che ne sono il presupposto.
Vi troviamo il Rientro di giovane uomo: a cavallo e che ci volge le spalle permettendoci di vederne solo il profilo del viso, rivolto com’è verso il paesaggio nel quale si muove e dove si trova un pescatore con canna da pesca, anch’egli senza volto… a sua volta nascosto sotto il cappello di paglia (a lato).
E cosa staranno dicendo in Hakurakuten (Bo Juyi) i quattro dignitari in piedi sulla scogliera, forse scesi dalla barca che le è ormeggiata accanto e della quale si intravede la prua, al quinto più in basso dalle vesti malmesse? (sotto).
Seguono tre personaggi sotto la luna, con barche ed uccellini, un vecchio accanto a una cascata (Rihaku - Li Bai), una donna riccamente vestita che, con due servi, attraversa un ponte a scavalcare le rapide di un torrente nell’ansa delimitata da un’impervia rupe rocciosa e nella cui parte concava sono racchiusi i tetti di un villaggio non lontano: vi starà facendo ritorno o, forse, se ne sta allontanando?
E, nel secondo caso: per sua volontà o per obbligo?
A sinistra: Harumichi no Tsuraki.
Meno appariscenti sono un altro vecchio, che porta in spalla fascine a bilanciere ed indossa parastinchi di “vimini” intrecciati ([Il dramma nō] Tokusa kari), un cavaliere nella neve, il cui servo si protegge dal freddo con un vestito che sembra più di paglia che di pelliccia (Tōba, Su Dongpo), donne che battono su un attrezzo che sembra un’attuale macchina casalinga per fare in casa la pasta fresca accanto a ceste contenenti piccoli semi di chissà quale natura.
Ma è quello dell’attesa il sentimento sempre di più universale comprensione.
Così vediamo (a destra: Abe no Nakamaro) alcune persone che, semisdraiate ed appoggiate alle balaustre di un belvedere, guardano verso il mare nella serena attesa dell’arrivo di chi sanno essere a bordo delle barche che si vedono all’orizzonte.
Più animata ed impaziente è invece (a sinistra: Sei Shōnagon) l’attesa di chi non si vede e che noi percepiamo dagli atteggiamenti dei servi dietro il muro di cinta di una proprietà che si presume appartenere ad un personaggio di rilievo.
L’uno di vedetta arrampicato su un albero a scrutare l’orizzonte, un secondo dietro la porta del giardino intento ad aprirne i chiavistelli, ed il terzo con in mano un gong per dare l’avviso dell’arrivo a chi aspetta nella casa, che non vediamo ma della quale si intuisce la presenza poco lontano.
Infine, chissà se avrà un significato beneaugurante il gallo dettagliatamente riprodotto in primo piano.
La seconda serie, Cento poesie per cento poeti, i racconti illustrati della balia, ci propone relazioni fra poesia e natura ed è per noi più comprensibile perché ogni stampa reca scritti i versi che l’hanno ispirata o che si propone di rappresentare. Le poesie possono essere molto vivaci o di struggente nostalgia, a riprova che anche il fiero mondo dei samurai condivide i sentimenti propri dell’umanità di ogni tempo e di ogni luogo.
Fra i personaggi che si ricordano non si dimentica la poetessa Ono no Komaki, il cui nome divenne sinonimo di bellezza nel linguaggio corrente, che scrive:
“il colore dei fiori è già svanito, mentre su cose triviali vanamente posavo il mio sguardo, durante il mio viaggio nel mondo”.
Come soggetti si ripropongono i falegnami che segano assi (Harumichi no Tsuraki) e poi scene in riva a corsi d’acqua: pescatori che trascinano una rete risalendo le cascatelle di un ruscello (Kakinomoto no Hitomaro), altri che in un torrente lavano i piedi, l’acqua del fiume Tatsuta rossa per le foglie che vi sono volate dentro cadendo in autunno dai rami dell’acero giapponese e dighe di cannette contro le quali altre foglie arrestano il loro corso e vi sono accumulate dalla corrente (Ariwara no Narihira ason).
Imbarcazioni dalle vele abbassate alla fonda nella baia (Chūnagon Yakamochi), un bue trascinato a forza dal suo proprietario al cospetto di tre figure femminili nascoste dai loro ombrelli (Motoyoshi Shinnō), ed ancora: servitori portano ad asciugare sul monte del Profumo Celestiale candide vesti di seta bianca sospese ed avvolte su una canna (L’imperatrice Jitō - Jitō tennō), bandiere strappate sventolano davanti ad un dignitario che in cima ad una collina rivolge lo sguardo lontano mentre, inginocchiati ai suoi piedi, i suoi sottoposti gli rendono omaggio (sopra a sinistra: Abe no Nakamaro), la panoramica di tetti di stuoie degli edifici in una risaia e nuvole tanto basse da confondersi con le onde, fra le quali alcune donne nuotano agitando braccia e gambe in mezzo ai flutti mentre altre le guardano dall’alto di uno scoglio (Sangi Takamura).
In effetti la scena ritrae delle pescatrici di molluschi. Guardando bene si nota infatti che una di esse porta una conchiglia nella mano sinistra che spunta dall'acqua e si sta dirigendo verso la barca nella quale gli uomini attendono la consegna. Da profani della cultura del tempo constatiamo una forma poco bella di sfruttamento della donna. Il nostro "esperto di Giappone" anche in questo caso ci spiega che, in certe zone costiere, le donne hanno svolto questa attività per secoli, arrivando fino ai primi decenni dopo la Seconda Guerra mondiale. Fosco Maraini ha fatto in tempo a documentarla fotograficamente.
Infine è di nuovo nostalgia, per la solitudine provata in montagna quando gli ospiti se ne sono andati e, riprendendo i versi citati in apertura, senza più ormai alcuna speranza il pensiero sussurra al cuore: “Notte infinitamente lunga, devo coricarmi da solo?”.
Avvicinandoci alla conclusione del percorso ritorna il confronto con Hiroshige. Dapprima con immagini realizzate su ventagli (uchiwae) che ebbero grande successo commerciale fra il 1820 ed il 1850.
Si tratta ancora per lo più di luoghi famosi ed eleganti (a lato: Yumura nella provincia di Kai), come dimostra il disegno a matita, base per un ventaglio rotondo rigido, nel quale ritroviamo il già conosciuto Ottuplice ponte con l’inconfondibile disposizione a zig zag delle sue assi appoggiate sui pali piantati nella palude (Yatsuhashi nella provincia di Mikawa).
Accanto ad esso, su un altro ventaglio, Hokusai realizza un falco molto realistico per disegno e colori ma che i limiti dello spazio disponibile comprimono in una posizione poco comprensibile.
L'immagine ci introduce alla sezione di mostra dedicata al filone più classico della pittura giapponese, quello definito "kachōga", ovvero “pittura di fiori e uccelli”, che include tutta la produzione di immagini di natura.
Sia Hokusai sia Hiroshige hanno realizzato stampe policrome in ogni formato, piccolo e grande, con soggetti di animali, insetti, fiori, pesci, rendendolo un genere ricercato e autonomo dell’ukiyo-e.
Di Hokusai vediamo una libellula, fiori di vario genere, fra i quali gli appariscenti papaveri, piccoli uccelli in volteggio su fiorellini, come il Ciuffolotto e cardellino con rose gialle, e poi passeri, quaglie, anatre - come il germano reale -, tutti dipinti con il realismo proprio delle illustrazioni scientifiche.
Ed ancora tartarughe con la coda ed un Pesce che risale la cascata del quale vediamo l’occhio e la bocca comparire fra rivoli d’acqua e cascatelle che sembrano quasi solide (come già si è osservato addietro nella sezione dedicata alle cascate), quasi un “fermo immagine” di un’infinitesima frazione di secondo, prodotto da un raggio paralizzante capace di agire sia sugli esseri viventi sia sulla materia inorganica in movimento.
Il confronto fra i due artisti ci è invece proposto accostando due coppie di stampe.
Una di medio formato, raffigurante un Martin pescatore con iris e garofani, semplificati nella versione di Hiroshige.
E la seconda coppia fatta di stampe più grandi.
Di Hiroshige, del 1850, è una monumentale Gru su un ramo di pino davanti al sole nascente.
Soggetto beneaugurante longevità, per la presenza contestuale dei sempreverdi e della gru.
È noto, infatti, che in Giappone regalare una gru di carta realizzata con la tecnica degli origami significa augurare mille anni di vita!
Di Hokusai invece vediamo due Gru su un ramo di pino innevato in una rappresentazione evocativa dell’inverno.
Digressione.
A proposito del significato della gru in Giappone non si può non ricordare la vicenda della giovane Sadako Sasaki, che a 11 anni si ammalò di leucemia: era il 1954 e la malattia fu causata dall'esposizione alle radiazioni della bomba atomica, nel 1945, a Hiroshima.
Secondo una credenza chiunque piegasse mille origami di gru, simbolo di immortalità, avrebbe visto i suoi desideri esauditi, così Sadako iniziò a realizzare le gru, sperando di guarire e auspicando la pace mondiale e la guarigione di tutti i malati; morì prima di poter terminare il lavoro che fu completato dai suoi amici.
Oggi nel Parco della pace di Hiroshima si può vedere la statua di Sadako, in piedi, con le mani aperte e una gru che spicca il volo dalla punta delle sue dita.
Anche nel Parco della pace di Nagasaki ci sono diversi memoriali dedicati alle vittime dell'esplosione atomica. Ed appesi ai monumenti si possono vedere grappoli di gru di carta fatti dai bambini delle scuole o lasciati dai visitatori.
Chi c'è stato e li ha visti di persona assicura che si tratta di uno dei momenti più toccanti che al viaggiatore che si rechi in Giappone può capitare di vivere.
Con il terzo degli artisti rappresentati in mostra, Utamaro, si passa all’artista che più di tutti ha contribuito allo sviluppo ed al successo di un altro tema, la bellezza femminile, che le sue xilografie ("Bijinga", o "scene di beltà") hanno portato al massimo splendore.
In epoca Edo questo genere di produzione rappresentò una delle più ampie e ricche nicchie di mercato che andavano dal semplice ritratto di beltà note e meno note fino alla descrizione di luoghi dove la femminilità dettava le regole: quartieri di piacere, case da tè, luoghi di intrattenimento e spettacolo.
Rispetto a quanto visto finora, cambiano innanzitutto i colori: che perdono in vivacità cromatica e diventano più tenui con prevalenza di rosa, giallo e verde pallidi contrapposti al nero che dona incisività e risalto alle figure.
Quanto a queste non sono più viste a lunga e media distanza ed inserite nel paesaggio, bensì vengono colte in inquadrature ravvicinate, con primi piani, mezzi busti o figure intere; in alcuni casi ambientate in interni (anche quando in lontananza si vedono paesaggi aperti), resi in dettaglio o definiti soltanto con semplici elementi che permettano di riconoscerli, più spesso invece su fondo neutro.
Fra le prime citiamo la grande stampa in orizzontale con le Beltà cinesi a un banchetto.
Un pino al centro-destra della composizione la suddivide in due scene: a sinistra si conversa e si fa musica imbracciando strumenti a corda, a destra una donna, forse di rango più elevato, legge.
La fascia "obi" (che significa cintura) annodata sul davanti con un fiocco dai lunghi lembi fa pensare che sia una prostituta di alto livello.
Più o meno alta ed annodata in vita per chiudere il kimono, la fascia-cintura è un accessorio tipico delle donne giapponesi degli ultimi quattro secoli ma, diversamente da quelle portate dalle donne raffigurate in questa stampa, viene generalmente annodata dietro la schiena.
Fatto che presuppone un aiuto da parte di familiari o servitù (possibilità che le prostitute non hanno).
È questo quindi il caso delle comuni donne del popolo o delle "geishe". Con l’opportuna precisazione che queste ultime non sono a loro volta prostitute, come erroneamente molti credono, ma persone colte e, letteralmente, “versate nelle arti” e quindi capaci di intrattenere gli ospiti.
Altra stampa con ambientazione resa in dettaglio è Godendo della brezza in giardino, situazione di invidiabile piacevolezza nella quale su un divano al centro della scena, uomini e donne conversano, fumano la pipa o prendono il tè, versato da un servitore.
Ci resta oscura, ma indagheremo, la funzione della scatoletta con cassettini ed altri accessori in vista sulla sinistra.
Fra le stampe ambientate in interni invece ci restano in mente quella con una donna intenta alla cura dei fiori inginocchiata davanti ad un vaso ed armata di forbici; e quella della Casa da tè della quale ci incuriosisce (come tutto quel che non si comprende) l’oggetto cilindrico nero (forse il contenitore del tè in legno laccato?) sul vassoio assieme ad un recipiente rotondo.
Ricca di dettagli di abiti, acconciature ed accessori, fra le stampe con una o più figure intere e senza sfondo meraviglia la Parata di donne imperiali (a sinistra), con i loro archi e faretre, le vesti eleganti e le acconciature elaborate.
Ed ancora (sotto) la Passeggiata notturna sotto la neve (resa con una piccola fascia di nero in alto punteggiata di fiocchi bianchi).
Si tratta di una scena onirica: perché la neve cade fitta e veloce ma non ve n'è traccia a terra. di una donna altolocata che regge un ombrello ed è accompagnata da quello che ha tutto l’aspetto di essere il suo domestico che le fa luce sul cammino con una lampada appesa ad un bastone e porta sottobraccio una cassa nera laccata: forse la custodia di uno strumento musicale o il contenitore di effetti personali della sua padrona?
Sempre grazie al nostro personale "consulente in cose nipponiche" apprendiamo che l'ipotesi corretta è la prima: l'oggetto nero portato sottobraccio dal personaggio nell'immagine è la scatola da trasporto di uno "shamisen", sorta di liuto giapponese a tre corde, dal suono metallico e tuttora in uso.
Le due Donne che rasano un bambino sono invece il segno degli eventi avversi che portarono Utamaro a modificare i soggetti della sua arte ed, in definitiva, segnarono la fine della sua carriera.
Venne infatti condannato a diversi anni di prigione perché descriveva luoghi indecenti ed aveva ritratto in modo poco consono un importante personaggio.
Di questo filone proponiamo l’omino con ombrellino e spada, verrebbe da dire un Lillipuziano, in piedi su un libro fra due donne nella stampa intitolata Parodia del teatro kabuki (pubblicata nella parte introduttiva di questo articolo).
Ambito nel quale rientra anche la ragazza che serra il fazzoletto fra i denti (prima immagine di questa sezione), accanto alla quale la “didascalia” ci spiega che è emozionata per la prova del suo attore preferito di teatro kabuki.
Nell’ultima sala, infine, troviamo taccuini con schizzi di disegni che ci fanno pensare a quelli riportati dai Bellini (padre e fratelli) dopo i loro viaggi in terre esotiche e dai quali hanno tratto spunti poi inseriti nei loro dipinti, a partire dall’imponente telero della Predica di San Marco ad Alessandria d’Egitto che si può veddere a Brera.
Nel caso di Hokusai, i suoi animali, come l’elefante o il gatto che ha catturato un topo, i paesaggi e le figure umane di arcieri, lottatori o facce grottesche (che ci ricordano quelle di Leonardo da Vinci - Leggi di più >>> Quel gran genio di Leonardo), oltre che a lui stesso sono serviti, anche pubblicati in manuali e libri stampati, a divulgarne la tecnica pittorica presso allievi ed amatori.
Da essi nacquero i 15 volumi di Manga, fonte di ispirazione anche per gli artisti parigini dell’Ottocento che ne vennero casualmente in possesso, e fu anche grazie ai Manga che il fenomeno del "Giapponismo" non restò un capriccio esotico ma rivoluzionò l’arte del tempo.