L'Eclettico



Sotto il segno di Leonardo



La magnificenza della corte sforzesca nelle collezioni del Museo Poldi Pezzoli

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SOTTO IL SEGNO DI LEONARDO

La magnificenza della corte sforzesca nelle collezioni del Museo Poldi Pezzoli


Visitare la casa museo Poldi Pezzoli di Milano è sempre un piacere. Che lo si faccia per una mostra temporanea o per visitarne le collezioni permanenti si può stare certi che si potranno fare incontri interessanti, con le opere d’arte… e non solo!
Ci è successo di nuovo visitando la mostra “Sotto il segno di Leonardo. La magnificenza della corte sforzesca nelle collezioni del Museo Poldi Pezzoli”. Proposta al pubblico in parziale sovrapposizione e continuità con quella monumentale - fin troppo! - che Palazzo Reale ha dedicato al maestro di Vinci (leggi di più > Quel gran genio di Leonardo), ha riconfermato l’intelligenza di chi dirige il “Poldi”. Qualità già sperimentata visitando la mostra costruita attorno al ritratto che ne è il simbolo (leggi di più > Le Dame dei Pollaiolo).

Come quest’ultima, anche quella dedicata ai “Leonardeschi” ha infatti avuto il principale merito di non essere effimera, lo dimostra il fatto che ne possiamo scrivere nonostante siano trascorsi alcuni mesi dalla sua chiusura, sicuri di rendere comunque un servizio utile ai lettori. Perché anche in questo caso è stata valorizzata una sezione delle proprie collezioni proponendo una sorta di “chiave di lettura tematica” che può essere ripercorsa autonomamente dai visitatori ogni volta che varcano l’ingresso di via Manzoni (ma anche trasversalmente ad altre sedi museali cittadine).

Salito lo scalone dietro la fontana (presenza abituale, quella dell’acqua, in tutte le case della nobiltà milanese, anche al Bagatti Valsecchi, ad esempio, ve n’è una, seppure asciutta) e raggiunto il piano superiore, entrando nelle prime stanze sulla sinistra, un tempo sede della biblioteca ed oggi dette Salette dei Lombardi, essi infatti vi troveranno sempre esposti alle pareti i dipinti che hanno costituito il nucleo portante della mostra e che sono fra le più rilevanti testimonianze del segno lasciato da Leonardo sulla scuola artistica milanese e lombarda.
Un’influenza, quella del maestro sugli allievi, che la mostra ha ben evidenziato grazie a pannelli didattici molto efficaci nel presentare i puntuali rimandi e gli evidenti parallelismi fra le opere dell’uno e degli altri.

Si comincia mirando alto: alla Vergine delle Rocce (di cui esistono due versioni successive rispettivamente conservate al Louvre ed alla National Gallery di Londra) che riecheggia nella Madonna col Bambino (Madonna della rosa), dipinto all’incirca nel 1487 dal milanese Giovanni Antonio Boltraffio (1467-1516 ca.).

NB Considerato il primo allievo di Leonardo a Milano, troviamo Boltraffio raffigurato ai suoi piedi nel monumento al centro della vicina piazza della Scala, assieme ad altri tre fra i suoi principali discepoli: Cesare da Sesto (si intenda Sesto Calende in provincia di Varese), Marco d'Oggiono ed Andrea Salaino… ritenuto l’allievo prediletto ed il cui vero nome era in realtà Gian Giacomo Caprotti.
Poiché l'imponente statua di Leonardo, alta sul piedistallo ed attorniata dalle altre più piccole in basso, ricorda la forma di un bottiglione con accanto quattro bicchierini risulta che i Milanesi abbiano ribattezzato il monumento con l’espressione dialettale di "on liter in quatter", ovvero "un litro per quattro".

Tornando al quadro, dal modello e da disegni del suo maestro, Boltraffio ci appare riprendere il viso della Vergine e la gestualità del Bambino trattenuto da un cinto vellutato che la madre stringe nella mano sinistra. Mentre di originale ne apprezziamo i moti dell’animo e, soprattutto, il geniale movimento contrapposto fra la Madonna, che piega all’indietro il braccio destro per prendere gli steli dei fiori di campo da dietro le spalle senza tuttavia mai perdere di vista il figlio, e quest’ultimo, proteso verso la rosa nel tentativo di afferrarla!
Dal punto di vista dei significati iconografici, la presenza dei fiori a calice è l’emblema dell’accoglimento dei doni divini. Infine il ricamo dei cardi nella veste di velluto controtagliata è un disegno che nel nostro percorso ritroveremo di nuovo in altri tessuti, sia dipinti nelle opere in mostra sia realmente esposti accanto ad esse.

Secondo “bicchierino”, Cesare da Sesto (1477-1523) di Leonardo ci propone un quadro di piccole dimensioni e destinato alla devozione privata: una copia quasi identica della Vergine con Sant’Anna il Bambino e l’agnello… guarda caso anch’essa oggi al Louvre! Siccome abbiamo buona memoria, e non abbiamo bevuto alcun bicchierino prima della visita, la prima cosa che ci sorprende è la certezza dell’attribuzione a Cesare da Sesto mentre nella mostra su Leonardo a Palazzo Reale questo dipinto era più genericamente ascritto alla sua “Bottega”.
Il fatto che il Poldi Pezzoli abbia accettato con signorilità quello che, dal basso della nostra insufficiente competenza in materia, ci appare come un declassamento, depone ancor più a favore della serietà della sua Direzione scientifica.

NB Al riguardo è invece emblematica, proprio in questi giorni, la vicenda milanese del “presunto Caravaggio” esposto a Brera e per il quale la proprietà (un privato francese in trattative per la vendita col suo Stato, e quindi con tutto l’interesse commerciale a vedere riconosciuta da musei prestigiosi la paternità più redditizia) ha invece preteso che in didascalia l’attribuzione fosse data per certa.
La richiesta è stata accolta dalla Direzione di Brera nonostante il dissenso dello storico dell’arte, prof. Giovanni Agosti, che ha perciò rassegnato le dimissioni dal Comitato Scientifico della Pinacoteca, nel quale aveva un ruolo non trascurabile. È sua, ad esempio, la nuova selezione delle opere da esporre nelle sale degli Emiliano-Romagnoli e Marchigiani che ha “retrocesso” nei depositi alcuni artisti di queste terre (leggi di più > A Brera come a casa mia).
Riconoscendogli l’onore di un gesto al quale non siamo troppo abituati, viene da dire “Chi di spada ferisce…”. Nel 2014, dalla mostra "Bernardino Luini e la sua famiglia", da lui curata a Palazzo Reale di Milano, lo stesso Agosti si era visto costretto a restituire la "Sacra Famiglia" di cui, dimostrando coerenza con la presa di posizione odierna, non riconosceva l’attribuzione a Bernardino Luini, invece rivendicata dai detentori del prestito: la Pinacoteca Ambrosiana, che la garantiva fondandola su antichi documenti conservati nell’omonima, adiacente, Biblioteca.
Per quanto ci riguarda, non avendo interessi economici o accademici in proposito, chiudiamo la pur doverosa digressione osservando come ogni attribuzione che non sia suffragata da documenti certi (per quanto possano essere tali scritti di diversi secolo or sono) o condivisa dall’intera comunità degli studiosi non può che lasciare la discussione aperta a sempre possibili nuovi sviluppi.

Per quanto riguarda il dipinto di cui ci stiamo occupando, riteniamo corretto riferire quanto su di esso risulta dalla scheda dell’opera disponibile sul sito del Poldi Pezzoli. Vi apprendiamo che “l'invenzione leonardesca fu imitata più o meno fedelmente in un elevato numero di esemplari” e v’è chi ne ha contate almeno “venticinque versioni differenti”.
In quella del Poldi Pezzoli, nella quale ritroviamo l’azzurro dei “perdimenti” leonardeschi in lontananza sull’orizzonte, rispetto all’originale notiamo che questo è però riempito dalla montagna sormontata da un castello che viene portata in posizione centrale ed avvicinata alla composizione delle figure delle quali costituisce una sorta di “fondo” al quale appoggiarsi, ed a destra della quale si intravede l’ombra di una città. Posizione dalla quale invece scompare l’albero.
Ma la modifica più rilevante è evidentemente la soppressione della figura di Sant'Anna, “secondo un partito compositivo adottato anche in altri esemplari che da taluni è stato messo in relazione con il declino del culto della santa. Di questa serie, l'esemplare del Poldi Pezzoli rappresenta il prodotto più nobile per la qualità d'esecuzione e lo straordinario contrappunto chiaroscurale che isola la figura della Vergine sul fondo di paesaggio, mettendo a nudo la considerevole distorsione dell'invenzione leonardesca”.
“Alcuni studiosi hanno inoltre rilevato come il carattere delle architetture che compaiono nel "paese, evanescente nella nebbia” sia di tipo nordico e possa essere messo in relazione con la nuova supremazia militare francese sul ducato”.
I più attribuiscono questo paesaggio fantastico ad un pittore specializzato nel dipingere paesi ed ancora per tanti aspetti misterioso, malgrado sia stato identificato con il lombardo Bernardino Marchiselli "de Quagis" detto Bernazzano, morto nel 1522.
A ricondurre il dipinto alla “scuola di Leonardo da Vinci” è il catalogo del museo - alla sua inaugurazione nel 1881 - di Giuseppe Bertini (pittore e docente a Brera oltre che Direttore della Pinacoteca e contemporaneamente collaboratore di Gian Giacomo Poldi Pezzoli dal quale fu nominato curatore a vita della sua Casa Museo che aveva contribuito ad allestire e nella quale si trovano ancora oggi suoi ritratti di personaggi del tempo, incluso quello del fondatore nell’anno della sua prematura scomparsa.
“Il riferimento a Cesare da Sesto, formulato per la prima volta da G. Frizzoni nel 1900 e confermato dalla critica degli anni ’50 e ‘70 trova ragione nella presenza della particolare gamma cromatica, fredda e azzurrognola, tipica del pittore, e nella elegantissima accezione raffaellesca con cui è reso il motivo leonardesco, ben avvertibile anche in altre opere abitualmente riferite agli anni successivi al suo primo soggiorno romano”. Peccato che ad un recente passaggio in museo, per rivedere il dipinto prima di pubblicare queste note, non l’abbiamo trovato perché… “fuori casa”; ovvero in prestito a Parigi per la mostra «Leonardo in Francia».
A chi lo vedrà dal vero suggeriamo di soffermarsi sull’intreccio fra la gamba sinistra del Bambino Gesù, a cavalcioni dietro il collo dell’agnello, e la zampa anteriore destra di quest’ultimo che si sovrappone al piede destro della Madonna, dalla veste rossa che spicca sul blu intenso del mantello e sull’azzurro vaporoso del paesaggio di cielo nuvoloso e rocce scoscese.

Accompagnano questi primi due dipinti, più direttamente legati alla cerchia dei collaboratori di Leonardo, altri lavori che, a loro volta, rivelano quanto sia stata pervasiva l’influenza del maestro fiorentino su tutti i protagonisti della pittura rinascimentale in Lombardia.

A lungo attribuita allo stesso Leonardo, ed oggi ritenuta di autore lombardo ignoto, la misteriosa Madonna che allatta il Bambino riflette puntualmente le invenzioni della Madonna Litta conservata all’Ermitage di San Pietroburgo.
Trovano piena corrispondenza il suo profilo, la fascia annodata sul capo, lo sfondo scuro dietro di lei, qui con un più elegante ed asimmetrico drappo rosso arrotolato, lo sguardo del Bambino che ci fissa in volto e la sua stessa semitorsione del corpo con braccia e gambe proprio nella medesima posizione.
Incluso l’uccellino stretto nel pugno, e nonostante in Leonardo sia chiaramente un cardellino mentre qui il suo becco lungo e ricurvo ci ricorda di più uno storno, uno di quegli uccelli che formano stormi numerosissimi lanciati in vorticosi voli sulle città.
Non mancano neppure i nastri che serrano le aperture della veste e che la madre slaccia ed allenta per facilitare l’allattamento del figlio.
Soffermandoci infine un poco anche sul paesaggio circostante, vi scopriamo una curiosa figurina di una donna che porta a spalla a bilanciere due secchie d’acqua appese a un bastone.

Di Andrea Solario (1465 ca. - 1524) il Poldi Pezzoli possiede, e ci presenta, una tra le sue ultime opere: il Riposo durante la fuga in Egitto del 1515 firmata nel cartiglio appoggiato su una pietra alla sinistra della Sacra Famiglia: Andreas de Solario Mediolanen(sis) F(ecit) 1515. Nonostante i colori brillanti, confessiamo che quest’opera non ci colpisce particolarmente e non ci ricorda ascendenti leonardeschi se non, forse, per gli azzurri che sbiancano lontani sull’orizzonte, la prorompente e rigogliosa vegetazione ed il trattamento dei panneggi che fanno “sentire” le membra che rivestono: in particolare il ginocchio sinistro della Madonna che avanza verso lo spettatore e quello piegato ed appoggiato a terra di San Giuseppe.
Troviamo, invece, originale il gesto di Giuseppe che porge a madre e figlio, che li prendono dalle palme delle sue mani sollevate ed aperte verso di loro, due frutti dei quali si fatica a comprendere la natura ma che è chiaro provengono dal sacco semiaperto in basso sulla destra, accanto alla borraccia per l’acqua, dal quale ne fuoriescono altri. Guardate con attenzione da vicino, quelle nel sacco sembrano proprio pere, frutto che nella simbologia cristiana è spesso associato alla Madonna e a Gesù per la sua dolcezza, paragonabile a quella della loro virtù. Il fatto che vengano donate a Madre e Figlio fa propendere per questa ipotesi di significato simbolico rispetto a quelle che prefigurano la morte e resurrezione di Cristo facendo riferimento al pero come all’albero della conoscenza del bene e del male e dal cui legno, secondo la tradizione, sarebbe stata ricavata la croce sulla quale è stato innalzato.
Se il naturalismo con cui è reso anche l’asino sulla sinistra è un’evidenza del gusto lombardo e di influssi fiamminghi, l’attenzione dedicata al paesaggio e la vivacità dei colori ci fanno pensare alla pittura veneta facendoci ricordare che, prima di arrivare a Milano, Andrea Solario fece tesoro dell’esempio di Giovanni Bellini e Antonello da Messina, che conobbe a Venezia dove è documentato nel 1492-95 assieme al fratello Cristoforo. Quest’ultimo fu scultore ed autore del monumento funebre di Gian Galeazzo Visconti nella Certosa di Pavia, oltre che della tomba di Ludovico il Moro e della moglie Beatrice d'Este (del 1497), e dal 1519 architetto della fabbrica del Duomo di Milano.

Se di Andrea Solario non si sa molto, il cosiddetto Giampietrino è invece oggi identificabile con certezza nel pittore Giovanni Pietro Rizzoli, milanese menzionato da Giovanni Paolo Lomazzo (Milano 1538-1600) nel Trattato dell'arte de la pittura, scoltura et architettura (1584).
La sua presenza a Milano è documentata a Milano dal 1508 fino 1553, anno della sua morte. Per gli interessati ad approfondire
suggeriamo la lettura dell'articolo "La Madonna di Castel Vitoni del Giampietrino" (1994) (leggi qui >>>).
Pur in assenza di testimonianze del tempo che lo confermino c’è chi ritiene possa aver assistito Leonardo all’opera per la realizzazione dell'Ultima cena nel refettorio di Santa Maria delle Grazie. Forse si pensa questo per via della copia che ne ha fatto ed oggi di proprietà della Royal Academy di Londra ed in prestito al Magdalen College di Oxford, dov’è esposta.
A proposito di attribuzioni controverse anche quest’opera non sfugge alla “regola”. Prima che si pensasse al Giampietrino era ritenuta opera di un terzo “bicchierino” del quartetto del monumento sopra ricordato: Marco d’Oggiono (anch’egli presente nelle salette del Poldi Pezzoli) al quale è riferita un’altra copia che si trova nel castello di Ecouen in Francia ed è riprodotta in foto a scala 1:1 nella sala della Comunità Pastorale presso la parrocchia di Santa Eufemia a Oggiono. Proprio quest’anno si è invece proposta la mano di Giovanni Antonio Boltraffio.
Sia come sia per l’Ultima Cena, una familiarità con Leonardo il Giampietrino l’ha avuta di certo, e c’è tutta nella sua Madonna con il Bambino: un piccolo quadro pieno di malinconia nel quale il piccolo Gesù tiene in mano un fiore bianco (all’apparenza un anemone) sembra essere ripreso dagli studi di Leonardo per la Madonna del Gatto.

Questo sul recto, perché il verso ci riserva un’altra prova dell’interesse per gli studi matematici e geometrici sviluppatosi nella cerchia leonardesca su diretto impulso del maestro. Più precisamente si tratta di un disegno geometrico nel quale è raffigurato un solido geometrico affascinante e complesso, l’Icosidodecaedro. Questo medesimo solido è infatti contenuto sia nel Codice Atlantico sia nei cinquantanove disegni geometrici di Leonardo che illustrano il De Divina Proportione (pubblicato a Venezia nel 1509): opera del suo amico Luca Pacioli, frate francescano e matematico del quale risulta seguisse le lezioni a Milano.
Purtroppo nell’esposizione permanente questo disegno non è visibile: siamo convinti che i visitatori apprezzerebbero che questa possibilità fosse loro offerta continuativamente.

Ci riportano ad un tema caro all’Eclettico (leggi di più > Che ci voglia la Carrà?), la ricomposizione dei polittici smembrati, i santi Stefano ed Antonio da Padova, tavole distinte eppure riunite, oltre le cornici che li separano (in mostra, ma nell’allestimento permanente del Poldi Pezzoli sono accostate in un’unica cornice), dalle linee prospettiche della pavimentazione del sottoportico sotto il quale ci vengono presentati: aperto sul paesaggio alle loro spalle e che ci viene fatto intuire dalla porzione di arco che inquadra Stefano e si completa nel pilastro al quale si appoggia compositivamente Antonio.
Sono infatti lo scomparto laterale del Polittico dell’Immacolata Concezione, realizzato fra il 1502 ed il 1507 per la chiesa del Convento di San Francesco a Cantù e che proprio al Poldi Pezzoli era stato ricomposto nel 1982. Operazione che i visitatori possono parzialmente ripetere in autonomia, perché i due santi che stavano all’altra estremità, Francesco e Giovanni Battista, sono solo un poco più lontani non distando che alcune centinaia di metri ed un paio di svolte in vicine vie di Milano. Più precisamente si trovano in un’altra importante casa museo milanese: il Bagatti Valsecchi. Luogo che a sua volta merita una visita e ci auguriamo che questo collegamento artistico possa suscitare la curiosità di intraprenderla.
Maggiori difficoltà comporta invece completare l’opera: perché la pala centrale con la Madonna che adora il Bambino ed angeli si trova, purtroppo, oltreoceano… al Paul Getty Museum di Los Angeles.
Diciamo che ad oggi la ricomposizione mentale è un privilegio dei Californiani in visita a Milano o dei Milanesi che restituiscono la cortesia.
Naturalmente l’impossibilità di una sua visione d’insieme rende impossibile riconoscere il debito che l’opera ha nei confronti di Bramante, per l’importante ruolo prospettico delle architetture, e di Leonardo per il paesaggio roccioso alle spalle della Madonna nella pala centrale ed appena visibile accanto al braccio destro di Santo Stefano.
Ma ancor più rende impossibile apprezzare la bellezza complessiva dell’opera. Se, infatti, presentati così, da soli, i santi del Poldi non è che siano granché (almeno per il gusto di chi scrive) apparendo un po' “cerosi”, di quelli del Bagatti, oltretutto i meglio conservati, non ci si ricorda nemmeno l’esistenza: perché nemmeno si notano, ridotti come sono a sopracomodino e separati dal baldacchino del letto matrimoniale in ferro battuto della Camera Rossa di Carolina Borromeo e Giuseppe Bagatti Valsecchi.
Di tutto ciò possiamo essere grati agli operatori del mercato antiquario sul quale queste opere sono state messe in vendita nel terzo quarto dell'800; dopo averne sciaguratamente segate in due le tavole laterali per farne "figurine", sacrificando anche parte dei dettagli con le architetture ed il fantastico paesaggio sullo sfondo.
Ma quello che soprattutto manca è la combinazione tra architettura scolpita dal carpentiere e carpenteria dipinta nel quadro. L’insieme doveva essere davvero una meraviglia. I lettori che volessero farsene almeno un’idea si guardino un’ipotesi di sua ricostruzione che Guido Codecasa ha provato ad elaborare e non potranno che darci ragione (leggi di più > Una sana idea "malsana").
Del resto, se oggi ci accontentiamo di guardare immagini immateriali appiattite sugli schermi dei nostri dispositivi elettronici che accarezziamo in continuazione, in antico il dipinto era invece considerato un oggetto vero e proprio, fatto di materia e tutt’uno con la cornice.
Idea portata alla massima espressione dall’autore del nostro Polittico di San Francesco di Cantù, tant'è che una delle sue principali opere di successo, il Polittico di San Martino di Treviglio, porta questa ricerca a livelli monumentali; ma d'altronde quella era stata per lui, l'opera della sua vita, alla quale dedicò un lavoro ventennale.
Ne abbiamo volutamente fin qui omesso il nome, che facciamo ora perché ci serve da collegamento con l’opera successiva. Si tratta di Bernardino Zenale (1450 ca. - 1526), pittore ed architetto che, come altri sopra citati, lavorò alla fabbrica del Duomo come ingegnere e come suo direttore, successore di Giovanni Antonio Amadeo deceduto nel 1522. A Milano, come dimostra la firma ritrovata nei primi del Novecento, aveva fra l’altro lavorato (dal 1491 al 1493) agli affreschi della cappella Grifi in San Pietro in Gessate (più info in “I Quaderni de L’Eclettico n. 3 - San Pietro in Gessate”): subentrando nell’incarico al “latitante” Vincenzo Foppa ed in collaborazione con un altro maestro come lui originario di Treviglio nella bergamasca, Bernardino Butinone.

Di quest’ultimo si hanno notizie dal 1484 al 1507, in particolare si sa che nel 1484 era già a capo di una fiorente bottega a Milano e proprio nell’ambito della sua bottega si colloca l’anonimo autore di un dipinto che si distingue dagli altri fin qui descritti e di quelli che vedremo poi, per la sua particolare natura: è infatti una tavoletta ex voto per la malattia di Ludovico il Moro.
L’occasione per la realizzazione del quadretto è a cavallo fra il 1487 e il 1488 quando si temette per la vita del Duca che vi è raffigurato giovane e disteso a letto sotto un “Capocielo” (baldacchino). Se nel complesso la sua resa appare un po’ ingenua - nel disegno delle varie linee prospettiche, delle figure e delle pieghe delle coperte, un po’ rigide nel tentativo di far “sentire” la presenza sotto di esse del ginocchio piegato e della punta del piede della gamba distesa - è invece efficace la dinamicità del repentino movimento del Moro che si solleva dai cuscini non appena gli appare la Madonna col Bambino.
Sulla parete della stanza è poi bene in vista l’impresa della “scopetta” con il motto “Merito et tempore”. Il cui significato era quello di “nettare d’ogni bruttura” l’Italia ovvero di esserne arbitro e signore “col merito e con il tempo”.
Anche in questo caso è curioso osservare come i testi venissero abbreviati per farli stare negli spazi ristretti nei quali venivano collocati. Nello specifico: con la “P” che condivide una gamba della “M”, elidendo la “E” finale ed inscrivendo la “R” nella “O” come nell’odierno simbolo di marchio registrato ®.

Conclude questa carrellata di artisti che hanno vissuto e lavorato accanto a Leonardo quello che, pur non risultandoci che abbia mai direttamente lavorato per la corte sforzesca a Milano, è forse il più rappresentativo di quest’epoca della storia della pittura a Milano. Nella sua lunga carriera, rispetto a tutti i pittori qui citati (ma anche agli assenti) ha saputo evolvere il suo stile cogliendo di volta in volta quanto di meglio poteva dalle intuizioni altrui. Stiamo parlando del bresciano Vincenzo Foppa (1427-30 - 1515), recente protagonista di uno scambio, per chi scrive in perdita, fra la Pinacoteca del Castello Sforzesco e gli Uffizi di Firenze (leggi di più > Prego affrettarsi: san Benedetto va a Firenze), per di più con il Foppa così acquisito per quindici anni già in prestito per altre mostre, come verificato da un passaggio in dicembre al Castello. Non per nulla oggi è monumento nazionale il suo ciclo di dipinti murali realizzato entro il 1468 per la cappella di San Pietro Martire nella chiesa di S. Eustorgio su commissione di Pigello Portinari, nobile fiorentino rappresentante a Milano del Banco Mediceo.
Di altri suoi affreschi che si possono ammirare nella Pinacoteca di Brera abbiamo scritto in Missione compiuta, ritrovata l’antica chiesa perduta (leggi di più >>>).
Nella sua Vergine col Bambino del Poldi Pezzoli notiamo, innanzitutto, che il drappo appeso dietro di loro a coprire la metà destra dello sfondo sembra essere esattamente lo stesso velluto dorato col ricamo del cardo in amaranto già visto nella veste indossata dalla Madonna nel dipinto di Boltraffio descritto in apertura.
Suscitano sentimenti contrastanti l’atteggiamento affettuoso di Gesù che ci guarda prendendo familiarmente per il mento la madre che, invece, ha gli occhi rivolti in basso, come assorta nella lettura del libro le cui pagine sembrano “sfogliarsi da sole”: quasi mosse dal soffio dello Spirito, come hanno pensato in tanti vedendo un’analoga scena con protagonista il volume del Vangelo appoggiato sulla bara di Giovanni Paolo II in piazza San Pietro.
Questo gusto del Foppa, di dipingere il movimento delle pagine dei libri, l’abbiamo già notato nel quadro oggetto dello scambio sopra ricordato, ma dove però era la mano di Maria a sfogliarle.
La visione ravvicinata del dipinto reale ci permette un ragionamento anche sul restauro e sulle tecniche di produzione dei colori. Madre e figlio sembrano quasi “truccati” con cinerei colori azzurro-grigi soprattutto sulle palpebre superiori degli occhi ed il tutto non ha il calore della foto che qui pubblichiamo. Fatti salvi effetti delle schede grafiche del pc ed impostazioni della ripresa, sembrerebbe di poter affermare che questa immagine sia di pre-restauro. Vi sembra ancora tutta presente la sua bella patina di antico che, certo, impedisce di apprezzare la profondità tonale e la gamma della tavolozza originale ma a volte bisogna accontentarsi.
Per quanto riguarda l'"incarnato" occorre fare due discorsi paralleli. 1- La tecnica di restauro moderna ricorre all'uso indiscriminato di solventi che oggi sono tanto di moda ma che sono anche molto aggressivi e perciò, immancabilmente, oltre a rimuovere la patina di sporco, eliminano le patine di colore ed i tocchi finali a secco dell'artista, oltre all'alone di antico. 2- Per quanto invece riguarda la tecnica di composizione degli impasti del colore, Foppa non eccelleva nell'impastare e preparare i rossi e i rosa. Per avere un riferimento su quanto incida questo aspetto basta pensare ai colori di Leonardo fatti col tuorlo d'uovo, o agli azzurri economici, senza polvere di lapislazzuli, che notoriamente erano ricavati da materia organica ed in pochi decenni viravano sul verde. Ecco: combinando i due problemi si ottiene la “tempesta perfetta” che abbiamo davanti agli occhi.

È ancora di Vincenzo Foppa l’ultimo dipinto in mostra e che prendiamo in considerazione: il Ritratto di Giovanni Francesco Brivio, notabile della corte sforzesca.
Rispetto ai soggetti sacri visti finora, con la sola eccezione della tavoletta ex voto, si passa ad un genere diverso, quello del ritratto. Genere che, in assenza della fotografia, al tempo aveva grande importanza anche nell’esercizio del potere e per questo era tenuto in debito riguardo nelle corti dove si stipendiavano ritrattisti ufficiali. Non faceva eccezione la corte sforzesca.
Con Zanetto Bugatto (Milano, documentato dal 1458 - 1476), addirittura inviato a “perfezionarsi” a Bruxelles fra il 1460 ed il 1463 nella bottega di Rogier van der Weyden per desiderio della Duchessa Bianca Maria Visconti moglie di Francesco Sforza (leggi di più > Dai Visconti agli Sforza). Ritrattista ufficiale anche di Galeazzo Maria Sforza, alla sua morte risulta che lo stesso Antonello da Messina (1429 o 1430 - 1479) si candidò a prenderne il posto, ma l’assassinio del Duca e l’avvento dell’usurpatore Ludovico il Moro fecero fallire l’accordo avviato.
Con Zanetto invece lavorò proprio il Foppa, alla Cappella Ducale del Castello di Pavia, e della scuola sua e dei modelli fiamminghi filtrati dall’esperienza mantegnesca il Ritratto di Giovanni Francesco Brivio presenta il fondo nero dal quale emerge l’altolocato personaggio, dipinto di profilo come in analoghe opere di Zanetto e del Boltraffio, per limitarsi ad un paio di esempi di puri ritratti, ma anche come nella figura del Moro nella Pala Sforzesca di Brera.
In quest’ultima opera ritroviamo oltretutto molti elementi già considerati in questa selezione di dipinti del Poldi Pezzoli: una Vergine con lo stesso viso della Madonna del Boltraffio, il Bambino che ripete le movenze leonardesche viste sempre nel Boltraffio ma anche nel Giampietrino e la decorazione dell’abito del Moro che, in versione azzurra, ha lo stesso disegno di quello che, in rosso, indossa il Brivio: contraddistinto dalla presenza sulla manica dell’ormai ricorrente ricamo del cardo.

E chissà cos’altro ancora stava osservando la visitatrice che vi si attardava attorno, avvicinandosi, allontanandosi, guardandolo da un lato, poi dall’altro, poi prendendo appunti su un quadernetto…
A riprova del fatto che frequentare certi ambienti fa più che bene perché vi si possono fare incontri interessanti, abbiamo poi fatto la sua conoscenza scoprendo che si trattava di Cristina Geddo, una delle più qualificate studiose della pittura lombarda del Rinascimento e dell'età moderna alla quale si devono, fra l'altro, l'individuazione della data di morte del Giampietrino (ignorata da buona parte della critica a un decennio dalla sua pubblicazione in: C. Geddo, Appunti sulla cronologia del Gianpietrino, in Arte e storia di Lombardia. Scritti in memoria di Grazioso Sironi, s.l. [Roma] 2006 - Biblioteca della “Nuova Rivista Storica”, n. 40, pp. 255-262) e l’attribuzione a Leonardo da Vinci della cosiddetta Bella Principessa: un nuovo mondo che si è dischiuso ai nostri occhi e sul quale torneremo non appena saremo riusciti ad esplorarlo adeguatamente per poterne scrivere su queste pagine con l’approfondimento che merita.

Se è nell’ambito della pittura che Leonardo da Vinci ha lasciato i segni più importanti, è risaputo che si è misurato con tutte le arti e, per quanto riguarda la scultura, la mostra ha proposto il Guerriero con scudo, un piccolo bronzo di cui è stata proposta la provenienza dal bozzetto per il monumento equestre progettato da Leonardo per Francesco Sforza, il padre di Ludovico il Moro al cui servizio venne inviato attorno al 1482 da Lorenzo il Magnifico, nell’ambito della sua politica di relazioni diplomatiche con le altre signorie d’Italia della quale gli artisti fiorentini erano ambasciatori.
La statuetta bronzea sembra essere un esemplare unico, forse realizzato per conservare lo studio di un modello in materiale più fragile, di questo soldato a terra che si ripara con lo scudo sollevato dagli zoccoli del cavallo che lo sovrasta e serviva a dare stabilità statica al monumento.
Il suo disegno preparatorio si trova in uno dei quattro studi per il monumento a Francesco Sforza ma anche in un altro disegno ripreso da uno studio di Andrea del Pollaiolo per il progetto, anch’esso non realizzato, di una statua equestre in onore di Gian Giacomo Trivulzio, come artefice della conquista francese della città (leggi di più > Quel gran genio di Leonardo).

Sono anni, gli Ottanta del Quattrocento, nei quali Ludovico il Moro trasforma la corte sforzesca in un centro artistico internazionale, attirando a Milano artisti di prima grandezza come Leonardo e Bramante ed avviando la produzione di tessuti di seta di lusso. Dal ricco nucleo di oggetti d’arte applicata posseduto dal Museo Poldi Pezzoli, dopo sei anni di riposo conservativo sono stati nuovamente esposti i meravigliosi tessuti rinascimentali in seta e oro tinti con i coloranti più preziosi.

In uno di essi ritroviamo ricamato il disegno del cardo che ormai ci è diventato familiare per la sua ricorrenza nei dipinti descritti.

In un secondo frammento in velluto troviamo invece l’impresa dei "tizzoni ardenti". Attorno ad essi è attorcigliato un rampicante al quale sono appesi dei secchielli, qui andati persi probabilmente perché in lamine d’oro.
Il suo significato era quello dell’ardore moderato dalla temperanza. Francesco Primo Sforza e Bianca Maria Visconti puntarono molto sulla simbologia per affermare il proprio potere e legittimarsi come duchi subentrati alla famiglia Visconti. Per questo motivo troviamo ovunque le loro numerose imprese: dai dipinti, alle stoffe, alle oreficerie, agli edifici. Ne sono un ricchissimo campionario i capitelli delle colonne dei loro palazzi e le fasce ornate delle chiese. Due esempi eloquenti sono i colonnati dei cortili del Castello Sforzesco e l’esterno della basilica di Santa Maria delle Grazie. Questa dei tizzoni è meno presente nelle decorazioni perché, più che un’impresa, è un elemento araldico.
Dove con la prima si intende la “rappresentazione simbolica d’un proposito, d’una linea di condotta (ciò che si vuole «imprendere», intraprendere) per mezzo di un motto e di una figura che vicendevolmente s’interpretano; già usata nel mondo greco-romano, fu diffusa specialmente nel medioevo nella società cortese di Francia, e di qui, al tempo di Luigi XII (1462-1515), passò in Italia, dove le sue regole furono fissate con rigore accademico nei sec. XVI e XVII.” (Treccani).
In pratica si tratta di uno stemma costituito da una fascia (divisa) composta di parole in forma di una breve frase allegorica (anima dell’impresa) congiunte a una figura (corpo dell’impresa).

Un’impresa in senso stretto è quella delle Colombine.
In mostra la troviamo su uno degli importanti e rarissimi paliotti realizzati in velluto e ricami, sempre proprietà del Poldi Pezzoli.
È il caso di ricordare che "paliotto" (antependium) è la denominazione data, nel tardo Medioevo, a quel rivestimento decorativo liturgico dell'altare, detto poi pallium, che per lo più nasconde la parte anteriore della mensa ma può coprirne anche i lati ed il retro e che può essere mobile, di vario materiale (tessuto, cuoio, legno, metallo) o fisso (a intarsio, rilievo…).
Il Paliotto detto delle Colombine è un tessuto in seta cremisi, il filato più costoso.
Vi si trova il motto “à bon droit” riferito al potere esercitato dai Visconti su Milano.
È attribuito a Petrarca il quale nel 1360 l’avrebbe ideato per il matrimonio di Gian Galeazzo Visconti con Isabella di Valois (presupposto - quali scherzi gioca il destino! - per le future rivendicazioni francesi sul ducato di Milano che porteranno alla destituzione di Ludovico Sforza, il Moro).
Questo stemma era il preferito di Filippo Maria Visconti subito dopo lo stemma famigliare e quello dei tizzoni ardenti.
A proposito del primo, il “biscione” accompagnato dal motto “Vipereos mores non violabo” (non violerò le usanze viperine), senza addentrarci in argomentazioni d’araldica ci piace però qui ricordare che, fra le ipotesi della sua origine, c’è quella secondo la quale era una riproduzione del serpente in bronzo che si trova innalzato su una colonna all’interno della basilica di Sant’Ambrogio (immagine a lato). La tradizione vuole che si tratti proprio del serpente in bronzo fatto fondere da Mosè ed innalzato per soccorrere gli Ebrei morsi dai serpenti velenosi che ne avevano invaso l’accampamento dove erano stati inviati da Dio per punire una delle ricorrenti infedeltà del "popolo eletto" durante le peregrinazioni nel deserto successive alla fuga dalla schiavitù in Egitto per raggiungere la Terra Promessa. Chi l’avesse guardato si sarebbe salvato dalla morte. Un episodio che evidentemente prefigura la vicenda neotestamentaria del Salvatore che, a sua volta innalzato sulla croce, assume su di sé, redimendolo, il peccato di chi si affida a Lui.

Un secondo paliotto, conosciuto come Paliotto Christus Patiens era stato fatto realizzare dal Moro per capocielo o baldacchino sopra la tomba di Beatrice d’Este in Santa Maria delle Grazie nel primo anniversario della sua morte. Per questo motivo vi si trovano le insegne della moglie di Ludovico e le lettere BE SF AN EST da leggersi come BEatrix SFortia ANgla ESTensis (qui mancano DX M ovvero: Ducissa Mediolani) col significato di Beatrice Sforza Anglo d’Este.
Per i lettori perplessi di fronte al titolo “Anglo”, che si trova riferito anche a Ludovico, ad esempio sulle monete, ricordiamo che allude al titolo di Conte di Anghiera, ora Angera in provincia di Varese, ereditato dai Visconti. Infatti si trattava della città di origine della famiglia, alla quale Ludovico il Moro diede il titolo di città.
Il paliotto presenta diverse figure che sono in realtà parti separate (le rocce, il sepolcro, Cristo, il suo volto…) cucite assieme. In mostra, novità assoluta, è stato esposto scucito per mostrare il Cristo a parte mentre al suo posto è stato collocato il raffinato disegno col volto del Christus patiens che uno sconosciuto artista ha tracciato sulla seta come guida per i ricamatori.

Altrettanto grande impulso venne dato, nel campo dell’oreficeria, all’uso dello smalto traslucido e di quello dipinto. Se di queste sontuose oreficerie in mostra è stato possibile ammirare anche il tergo normalmente nascosto, è comunque tuttora possibile vederle nella “sala degli ori” della casa museo.

Vi troviamo dunque una cintura con fibbia lavorata molto finemente nei minimi dettagli col metodo della filigrana e che presenta borchie costituite dal fiammante radiato, ovvero il sole a otto raggi simbolo del casato.

Le ultime due opere sono oggetti sacri.

La “Pace di Rivolta d’Adda è un tabernacolo portatile.

Non è superfluo ricordare che questo oggetto dell'antica liturgia cristiana prende il nome dal latino osculum pacis o tabella pacis ed è una tavoletta decorata sulla parte frontale da una scena sacra che veniva baciata dal sacerdote durante la celebrazione della messa, e poi offerta al bacio degli altri officianti e infine dei fedeli.
Introdotta dal XIII secolo, sostituì l'usanza dell'antico bacio della pace, che aveva luogo prima della comunione, e che oggi è diventato lo "scambio di un segno di pace" con la stretta di mano.

La figura centrale, con la Natività inserita in una prospettiva architettonica, rimanda al Foppa mentre le figure laterali sulle ante (un santo frate sulla sinistra ed un santo vescovo a destra) richiamano Bergognone.
Sul retro c’è una crocifissione dal “niello” del 1460-64 del fiorentino Maso Finiguerra.

NB. Il niello è una tecnica di lavorazione artistica dei metalli, specialmente preziosi, consistente nel riempire i solchi di un’incisione a bulino su una superficie metallica con un composto nero (detto anch’esso niello), di rame rosso, argento, piombo, zolfo croceo e borace;
a contatto del corpo inciso, preventivamente scaldato, il niello si scioglie e penetra nell’incisione;
dopo il raffreddamento, la superficie viene levigata e lucidata.
Nel XV sec. l’arte del niello si restringe quasi esclusivamente all’Italia.
Fra i niellatori del periodo ci sono il citato Maso Finiguerra ma anche Antonio del Pollaiolo e Filippo Brunelleschi (Treccani).

Chiude la nostra “passeggiata” nella Milano sforzesca di Leonardo una Targa da appendere con raffigurata al recto una Pietà in madreperla su lamina di argento realizzata da un artigiano tedesco.
Le cornici seguono modelli simili alla fibbia vista sopra e sul loro profilo scorre a spirale una scritta, che non siamo riusciti a leggere e risulterebbe essere una citazione dal Vangelo di Marco.

Al verso c’è invece un'altra iscrizione latina "Resurrexit Dominus, Alleluja - Sicut dixit vobis, Alleluja" che corre lungo una fascia perimetrale della targa che incornicia una Resurrezione a smalti colorati su disegno, come usava allora, di maestri rinomati del tempo.
In questo caso di Ambrogio De’ Predis, non per nulla autore degli angeli musicanti nelle tavole laterali della Vergine delle Rocce e fra i possibili autori ipotizzati per una sua copia del dipinto (nella seconda versione oggi a Londra "normalizzata" rispetto agli elementi più controversi della prima - come il dito indice puntato dell'angelo e l'ambiguità su quale dei due bambini sia Gesù e quale il piccolo Giovanni) che invitiamo i lettori ad andare a vedere dal vero presso la chiesa di Santa Giustina nel quartiere milanese di Affori.
Analogo suggerimento, ma con destinazione Pinacoteca del Castello Sforzesco, per andarsi invece a vedere la copia di Marco d'Oggiono della versione oggi al Louvre richiamata in apertura e con la quale chiudiamo così questo itinerario storico artistico proprio dal punto dal quale l'abbiamo cominciato: sempre "sotto il segno di Leonardo".

Giovanni Guzzi, dicembre 2016
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CREDITI e TITOLI FOTOGRAFIE TUTELATE DA DIRITTO D'AUTORE
per tutte le opere ©Museo Poldi Pezzoli, Milano

1. Giovanni Antonio Boltraffio
Madonna con il Bambino (“Madonna della Rosa”), c. 1485-1487
provenienza: Milano, collezione Arese, fino al 1674, poi collezione Visconti Borromeo e quindi collezione Litta;
acquistato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli entro il 1864
2. Frammento Milano, 1495-1510 seta e oro filato, lampasso
provenienza: acquisto 1894
3. Scuola lombarda
Madonna che allatta il Bambino, 1500-1510 circa
provenienza: acquistato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli entro il 1863.
4. Paliotto d’altare detto“delle colombine”,
velluto: Milano, 1450-1461, seta, oro e argento filati; lampasso, XVII-XVIII sec.
provenienza: acquistato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli entro il 1879.
5. Bernardo Zenale
Santo Stefano e sant’Antonio da Padova, tempera su tavola, 1502 – 1507 circa
provenienza: acquistato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli entro il 1879.
6. Giovan Pietro Rizzoli detto il Giampietrino
Madonna con il Bambino (recto); Icosidodecaedro (verso), 1510-1515 circa
provenienza: acquisto 1881
7. Andrea Solario
Riposo durante la Fuga in Egitto, firmato e datato “a(n)drea de solario mediolane(nsis) f(ecit) / 1515”
provenienza: acquistato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli entro il 1857.
8. Bottega di Leonardo da Vinci (?)
Guerriero con scudo, 1495 circa
provenienza:1816-1939, collezione Trivulzio, Milano; collezione Mario Crespi, Milano; depositato al Museo Poldi Pezzoli nel 1968
9. Vincenzo Foppa
Ritratto di Giovanni Francesco Brivio tempera su tavola, 1495-1500
provenienza: acquistato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli entro il 1879.
10. Anonimo lombardo
Ludovico il Moro a letto invoca la Madonna con il Bambino, 1490 circa
provenienza: acquisto 1883.
11. Frammento
Milano, 1470-1495
velluto: seta, argento dorato filato, ricamo: oro filato, foglia d’oro e tondelli in tela dipinta,
provenienza: acquisto 1883
12. Cintura
Milano, fine del XV sec.
argento dorato, seta e oro filato,
provenienza: donazione di Carlo e Alfredo Tolla 1901.
13. Tabernacolo ad ante mobili detto “Pace di Rivolta d’Adda”,
Lombardia, ultimo quarto del XV sec.
argento dorato e smalti, inv. 541
provenienza: chiesa parrocchiale di Rivolta d’Adda; acquisto 1902.
14. Targa pendente
Milano, c. 1495
argento, argento dorato, smalti e madreperla, inv. 572
provenienza: acquistato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli entro il 1879.
15. Paliotto d’altare detto “del Christus patiens”,
Milano, XVI sec.
velluto nero: seta; velluto marrone: XVIII sec., seta, ricamo: fine XV sec., sete policrome, oro e argento filati, magete, inv. 55
provenienza: Santa Maria delle Grazie, Milano; acquisto 1882.