L'Eclettico



Sulle tracce di Giotto e dei suoi seguaci in Milano e dintorni



Nel contesto storico della Signoria dei Visconti

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SULLE TRACCE DI GIOTTO E DEI SUOI SEGUACI IN MILANO E DINTORNI

Nel contesto storico della Signoria dei Visconti


Riservandoci di approfondire l’argomento in futuro, e con maggiori dettagli, ci limitiamo qui a completare sommariamente la panoramica delle sopravvivenze “giottesche” a Milano (già parzialmente indagate in Missione compiuta: ritrovata l'antica chiesa perduta) e dintorni con una loro schematica elencazione (per quanto ne conosciamo noi e grati a chi volesse integrarla).
Per i lettori può tradursi in un itinerario sulle tracce della pittura trecentesca da percorrere di persona con la fantasia o, ancor meglio, di persona.


PALAZZO REALE

Uno dei luoghi più importanti dove sappiamo che il maestro toscano aveva lavorato ad un significativo ciclo di affreschi è l’odierno Palazzo Reale, al tempo palazzo-fortezza sede della corte di Azzone Visconti (1302-1339): il signore di Milano che l’aveva chiamato ad illustrare con la sua arte la potenza della nascente dinastia viscontea.
In una profusione di pitture ed affreschi, dipinti con colori in cui predominavano l'azzurro (colore costosissimo) e l'oro, erano raffigurate imprese e glorie di illustri protagonisti della storia: da quelli mitici e dell'antichità - come Enea ed altri eroi pagani presenti in una stanza assieme al vizio capitale della Vanagloria o la Guerra Cartaginese affrescata in un cortile - fino ad arrivare ai paladini della cristianità dei tempi più vicini - come Carlo Magno (742-814) - ed, ovviamente, ai Visconti con lo stesso Azzone.

Di tutto ciò, purtroppo, non resta più nulla. Sia a causa delle bombe inglesi che hanno devastato il complesso e qualsiasi possibilità di fare archeologia nelle strutture, sia per le demolizioni di epoca fascista. Le uniche decorazioni giottesche riscoperte in epoca recente e documentate fotograficamente riguardano infatti la vecchia Manica Lunga, rasa al suolo da Mussolini per far spazio all'Arengario. Queste foto storiche mostrano come, sotto i colpi dei picconi, emergessero antiche murature decorate con gli stemmi Visconti, ed altri dipinti.


CHIESA DI SAN GOTTARDO IN CORTE

Sorte quasi analoga per l’adiacente cappella palatina poi divenuta la chiesa di San Gottardo in Corte: anch’essa voluta da Azzone, il cui monumento funebre (opera di Giovanni di Balduccio - Pisa, ca. 1300 - 1349) vi si trova ancora oggi. Fu edificata tra il 1330 e il 1336 dall'architetto cremonese Francesco Pecorari (o Pegorari) che, per la forma del suo campanile a “gugliotto” - con pianta ottagonale, separato dalla chiesa, elevato su una base quadrata e concluso dall'alta cuspide -, si ritiene avesse come riferimento i disegni giotteschi del progetto iniziale per il campanile di Santa Maria del Fiore a Firenze.
È curioso sapere che Azzone dotò il campanile anche di uno dei primi orologi pubblici di Milano. Petrarca (1304-1374) scrive che ne udiva i rintocchi della campana che segnava le ore fino nella sua dimora presso Sant’Ambrogio. Questo spiega perché la zona è conosciuta come "Contrada delle Ore" e "via delle Ore" sia la denominazione della vicina strada che costeggia l'Arcivescovado.

Tornando in chiesa ed alla pittura, anche San Gottardo in Corte era decorata in azzurro e oro.
Di impronta riferibile alla bottega giottesca oggi però vi rimane solo l'affresco della Crocefissione, non di Giotto ma di un suo allievo o comunque persona a lui vicina. Rinvenuto nel 1926 ed inizialmente posto sul fianco esterno della chiesa, per il suo cattivo stato di conservazione venne riportato al suo interno negli anni cinquanta del Novecento.


ARCIVESCOVADO

Affreschi che ornavano il salone al piano nobile dell'edificio, ed i cui principali referenti stilistico-cronologici sono da ricercare nell'ambito della cultura giottesca di metà Trecento, furono scoperti a fine Ottocento durante un intervento di ristrutturazione del palazzo. Nel 1950 furono staccati alcuni frammenti oggi esposti in Arcivescovado insieme a sinopie di affreschi ricuperate in altre zone dell'edificio.
I due frammenti più consistenti raffigurano due Scene di giudizio, per una delle quali si è ipotizzata l’appartenenza ad un Giudizio di Salomone. Si presume che ornassero una stanza probabilmente destinata all'amministrazione della giustizia.
Altri affreschi sono stati ritrovati in tempi più recenti: ad inizio 2015, durante lavori di manutenzione nella porzione di sottotetto del Palazzo Arcivescovile rivolto verso il Duomo. La loro datazione è proposta negli anni attorno al 1340, quelli immediatamente successivi alla presenza di Giotto in città voluta da Azzone per le ragioni di cui si è scritto in apertura. Anche il loro soggetto, la fondazione di Roma, si colloca a pieno titolo nel solco del progetto politico di affermazione del proprio potere avviato da Azzone e proseguito da suo zio, il vescovo di Milano e suo successore nel governo della città, Giovanni Visconti. Un progetto al quale si dava concretezza anche con l'esibizione dello sfarzo nei propri palazzi e quello di Giovanni, proprio l’attuale Palazzo Arcivescovile, risulta che fosse particolarmente lussuoso. Ne abbiamo testimonianza da Francesco Petrarca che lo visitò nel 1353, arrivato a Milano di ritorno dalla Corte papale di Avignone. Il poeta lo descrisse fastoso come una «reggia»: «Vi è una gran sala con i muri e le travi coperti d’oro, meravigliosa nel suo grande splendore». Una ricchezza che, nonostante le trasformazioni subite dal palazzo, specialmente al tempo dei Borromeo ma anche successivamente, come si è visto non è del tutto perduta.


PALAZZO BORROMEO

Sicuri resti di scuola giottesca e di gotico internazionale (conosciuto anche come gotico fiammeggiante o tardo gotico e datato a partire dalla metà del XIV secolo fino alla metà del successivo) erano conservati anche in diverse sale del Palazzo Borromeo. Ad esempio si possono citare un famoso ciclo dipinto da Gentile da Fabriano (Fabriano, ca. 1370 – Roma, settembre 1427), ispirato al poemetto “I Trionfi” del Petrarca, e cicli pittorici ben più antichi.
Ciò che è sopravvissuto al devastante bombardamento RAF del 16 agosto 1943 su Milano è stato restaurato e messo al riparo alla rocca di Angera (VA).

A Milano rimane solo la sala con il Gioco della palla, che si può visitare su richiesta alla portineria, i Principi Borromeo chiudono un occhio. Purtroppo anche questi affreschi hanno sofferto, perché le bombe inglesi hanno fatto virare il blu e il verde in tonalità rosse, distruggendo definitivamente l'immagine campestre (stile Sala delle Stagioni al castello del Buon Consiglio di Trento).


SANT’EUSTORGIO ED I VISCONTI

La “basilica dei Magi”, dal secondo decennio del XIII secolo retta dall’ordine predicatore dei domenicani, per il sostegno offerto da questi ultimi alla politica dei Visconti godette della protezione dei signori di Milano attestata da numerose commissioni a favore della chiesa e del convento documentate nel XIV-XV secolo.
Fino al 1396 era inoltre luogo di sepoltura dei principali esponenti della famiglia. In questo anno, infatti, per farne il mausoleo dei Visconti, destinato a sé ed alle sue mogli (Isabella di Valois e poi Caterina Visconti) lasciando agli altri rami del casato le tombe in Sant’Eustorgio, Gian Galeazzo (Pavia 1351 - Melegnano 1402) avvia la costruzione della Certosa di Pavia, città nella quale sposta anche la corte ducale di nuovo unificata sotto il suo dominio.

In Sant’Eustorgio dunque resta la cappella Visconti, o di San Tommaso: per chi entra la quarta sul lato meridionale. Fu fondata nel 1297 da Matteo I, il capostipite della dinastia, che allora aveva 47 anni e da un decennio - per volere del prozio arcivescovo Ottone, vincitore sui rivali Torriani nella battaglia di Desio - era stato eletto potestà e capitano del popolo di Milano.
A questa stessa data risale il suo ritratto scolpito nel suo busto che compare, assieme al suo stemma, sulla parete esterna della cappella. Più volte scomunicato per via dei dissidi col potere pontificio, alla sua morte, avvenuta il 24 giugno 1322 nelle pertinenze della Chiesa di Santa Maria Rossa a Crescenzago, viene sepolto in un luogo segreto per evitare che il suo corpo venga bruciato perché eretico.
Secondo alcuni la sua sepoltura si trova in Sant’Eustorgio, per altri in San Cristoforo fuori Porta Ticinese, per altri ancora è rimasto nella stessa Chiesa di Santa Maria Rossa a Crescenzago che a sua volta conserva a tutt’oggi resti di affreschi del 1300.

Troviamo più certezze rientrando all’interno della cappella Visconti di San Tommaso in Sant’Eustorgio. Nello splendido monumento funebre scolpito nel 1359 da Bonino da Campione (Campione d'Italia, ca. 1325 - ca. 1397), sono infatti stati sepolti il secondogenito di Matteo e signore di Arona (VA): Stefano Visconti (1288-1327) con la seconda moglie, la genovese Valentina Doria: genitori di Galeazzo II, a sua volta padre di Gian Galeazzo.

DIGRESSIONE "MANZONIANA"

Per completare la panoramica delle sepolture (che siamo riusciti ad individuare) dei personaggi fin qui incontrati, soddisfiamo l’eventuale curiosità dei lettori ricordando che gli arcivescovi Ottone (1207-1295) e Giovanni Visconti (1290-1354) condividono la stessa arca sepolcrale in Duomo; Galeazzo II (ca. 1320-1378) riposa in San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, città che aveva eletto a sede della sua corte;
suo fratello Bernabò (1323-1385) - il cui monumento funebre a cavallo, opera di Bonino da Campione ed in origine collocato in San Giovanni in Conca (di cui oggi resta solo la cripta in via Larga, qui accanto una sua foto del 1916), accoglie i visitatori dei musei del Castello Sforzesco, con a lato quello più modesto dedicato alla moglie Beatrice Regina della Scala - in Sant’Alessandro in Zebedia (nelle vicinanze di piazza Missori); Gian Galeazzo è tuttora sepolto all’interno della certosa di Pavia.

Nel corso del Trecento la cappella fu decorata con affreschi. I più antichi (anni Trenta del Trecento) sono quelli dipinti sulle vele della volta dove i quattro evangelisti sono inseriti in architetture tracciate secondo una prospettiva ancora agli esordi.
Se, infatti, sembra rifarsi ai modelli di Giotto, come si è visto in quegli anni presente a Milano alla corte di Azzone Visconti, il confronto è impietoso per i molti errori e le incertezze nella rappresentazione spaziale che presenta.

Di epoca successiva (seconda metà del Trecento) sono invece gli affreschi sulle pareti laterali. Nella lunetta sopra il monumento funebre è raffigurato un San Giorgio che trafigge il drago ricondotto al Maestro di Lentate (vedi più sotto).
Sulla parete opposta sta una più complessa rappresentazione della Gloria di San Tommaso. Gli esperti la considerano il livello più elevato del ciclo pittorico della cappella per i riferimenti giotteschi, filtrati dai seguaci del grande pittore, soprattutto Giottino (Firenze 1324-1357 - pseudonimo di Tommaso o Maso di Stefano, uno dei cosiddetti Protogiotteschi), o dai contatti con Giusto de' Menabuoi (Firenze, notizie 1363 - Padova prima del 1391). Per dare un nome al suo autore si pensa perciò proprio ad un maestro vicino a quest’ultimo, se non proprio ad Anovelo da Imbonate (comasco, sec. XIV): della scuola di Giovanni da Milano (Caversaccio-Valmorea CO, ca. 1325 - ca. 1369), un altro fra i principali esponenti della cultura pittorica toscana e padana direttamente derivata da Giotto, col quale sembra abbia collaborato in Santa Croce a Firenze.


CERTOSA DI CHIARAVALLE

Spostandoci immediatamente a sud di Milano, arriviamo all’abbazia cistercense di Chiaravalle dove affreschi giotteschi occupano l’intero spazio interno del tiburio. Gli studi connessi al loro restauro del 2010 hanno confermato l’attività di due maestri. Come autore del ciclo con le Storie della Vergine post Resurrectionem si ritiene di identificare il toscano Stefano fiorentino (Firenze 1301-1350), ricordato nelle “Vite” di Giorgio Vasari come il miglior discepolo di Giotto, assieme a suoi allievi e collaboratori. Al cosiddetto “Primo Maestro di Chiaravalle”, di provenienza lombarda, appartiene invece la mano responsabile della decorazione con Evangelisti e santi sotto la volta del cielo stellato: rispettivamente nel ciclo del tamburo e nella calotta della cupola della torre nolare (che i milanesi chiamano familiarmente la “ciribiciaccola”).

Col binomio Torre nolare in origine si identificava il campanile, ovvero una torre che ospita campane che deve il nome alla sede (la città di Nola, in provincia di Napoli) di cui nel V sec. era vescovo San Paolino, al quale la tradizione riconosce di essere l’inventore della campana con batacchio interno. Nell'architettura gotica, come quella normanna e cistercense, varia di significato designando una torre che si eleva dalla crociera di una chiesa, nel caso di Chiaravalle al di sopra del tiburio.


GIRA E RIGIRA, SI TORNA SEMPRE A BRERA
ORATORI DI EPOCA VISCONTEA NEL NORD OVEST MILANO

Al Maestro di Lentate, al quale in Sant’Eustorgio si è fatto riferimento (e che alcuni studiosi considerano al plurale), ci riconduce, per singolare coincidenza, un’altra delle meraviglie della scultura realizzate per questa chiesa: il sepolcro marmoreo di san Pietro Martire, opera del 1336 circa di Giovanni di Balduccio (Pisa, ca. 1300 - 1349), allievo di Giovanni Pisano (Siena, ca. 1248 - dopo il 1314, forse 1320). In questa monumentale arca, oggi nell’adiacente rinascimentale Cappella Portinari, furono appunto traslate le spoglie mortali del frate domenicano Pietro da Verona assassinato il 6 aprile 1252 in un agguato tesogli da alcuni eretici presso il bosco di Barlassina, nell’odierna provincia di Monza e Brianza, mentre tornava - a piedi - da Como a Milano.

DIGRESSIONE "MANZONIANA"

Dall’episodio scaturì addirittura la santità di uno dei sicari: Pietro Carino da Balsamo, proprio la mano omicida di San Pietro.  Pentitosi del gesto, diventò a sua volta domenicano e morì in fama di santità a Forlì nel 1293.
Qui lo citiamo perché le ossa del Beato Carino sono poi state riportate nella sua città natale e perciò oggi sono venerate non lontano da quelle della sua vittima: a Cinisello Balsamo (MI) nella Chiesa di S. Martino in Balsamo.

A pianificare l’omicidio, assieme al capo degli eretici della zona - tale Confalonieri di Agliate - sembra siano stati Pietro ed Alberto Porro, antenati del conte Stefano Porro (ca. 1315-1385), personaggio molto potente in quanto uomo di fiducia (come “consigliere segreto”) dei fratelli Galeazzo II e Bernabò Visconti e loro ambasciatore presso la corte dell'Imperatore Carlo IV di Boemia ed altre signorie dell’Italia settentrionale.

Per comprendere quali fossero le relazioni della famiglia Porro con i Visconti, è sufficiente ricordare che Donnina Porro, cugina di Stefano, fu consorte di Bernabò dal 1360 e, dopo la morte - nel 1384 - della prima moglie Beatrice Regina della Scala,  lo sposò mentre era incarcerato nella rocca di Trezzo ed appena prima che venisse ucciso dal veleno nascosto in una ciotola di fagioli di cui si era cibato.

Il nobile Stefano Porro, quindi, volendo disporre di un posto privilegiato di preghiera - secondo la moda del tempo che prevedeva luoghi di culto privati per l’aristocrazia - ma anche sentendo l'esigenza di riconciliarsi con Dio per il grave fatto di sangue che aveva colpito il suo casato anni prima, nel 1369 commissionò l’edificazione di una cappella gentilizia a Lentate sul Seveso (MB) accanto al proprio palazzo e destinata a sepolcro di famiglia, anche se non servì mai a questo scopo.

Dedicata a Santo Stefano protomartire, contiene affreschi il più importante dei quali è una Crocefissione del già incontrato Anovelo da Imbonate, che dipinge anche le vele e "l'Imago pietatis" sulla lunetta del portone d'entrata. Gli affreschi di Anovelo richiamano a tal punto la pittura di Giotto che a lungo si è creduto fossero suoi. Ai cosiddetti “Maestri di Lentate” sono infine convenzionalmente ricondotti gli altri affreschi dell’oratorio, inclusa la donazione della cappella, in cui l’offerente è inginocchiato di fronte al suo santo protettore.

“Gemello” di quello appena descritto, per le somiglianze architettoniche e pittoriche fra i due, è un secondo oratorio, che sorge anch’esso a Lentate sul Seveso, nella frazione Mocchirolo, porzione del territorio comunale ad est del torrente Seveso anch'esso "firmato" con lo stemma "parlante" nel quale sono ben evidenti i tre porri.
La critica contemporanea è concorde nel datarlo attorno al 1378 e nel considerare suo committente Lanfranco Porro, altro appartenente a questo casato sovrano della Brianza che aveva in Lentate sul Seveso il centro dei propri domini. Lanfranco fu podestà milanese a Tortona nel 1376 e nell’oratorio di Santa Maria in Mocchirolo anch’egli si fa ritrarre con la propria famiglia nell’atto di donare il modello dell’edificio alla Vergine in trono col Bambino in braccio.

Sara Colombetti ci scrive segnalandoci anche la convinzione di alcuni che, ritenendo il ciclo di Mocchirolo precedente di alcuni anni quello di Santo Stefano (vista anche la differente età che mostrano i personaggi raffigurati), propongono di identificare ancora Stefano Porro come suo committente.
Elemento a favore di questa ipotesi potrebbe essere il soggetto di uno degli affreschi: il matrimonio mistico di Santa Caterina, nome di battesimo della moglie del conte, sul lato sinistro della cappella. Ipotesi rafforzata dal fatto che il nobile inginocchiato davanti alla Vergine porta appesa alla cintura una borsa, detta "scarsella" (vocabolo tuttora presente con analogo significato nel dialetto milanese), e questo complemento del suo abbigliamento potrebbe essere un rimando all'attività di tesoriere che svolse presso la corte di Mantova.

Altre varianti che si colgono immediatamente rispetto agli affreschi in Santo Stefano, sono il colore qui meno intenso del blu del cielo e l’assenza del gruppo di cavalieri sulla destra del Cristo nella Crocifissione.
In entrambi i cicli, assieme a Maria che sviene per il dolore sorretta dalle pie donne, sono invece presenti gli angeli che raccolgono in calici il prezioso sangue che sgorga dalle ferite di Cristo in croce. Una devozione eucaristica affermata nel Medioevo che si perderà nei secoli successivi ma tornerà in auge nell'Ottocento con l'istituzione, da parte di Pio X nel 1849, della festa del Preziosissimo Sangue (confluita nel 1970, dopo il Concilio Vaticano II, nella festa di Cristo Re). Un culto che in questo secolo susciterà la nascita di numerose congregazioni religiose, fra le quali - per restare in Lombardia - Suore del Preziosissimo Sangue (dette Preziosine), fondate nel 1874 a Monza da Maria Matilde Bucchi.

Passando dal sacro al profano, per gli appassionati di costume, l'affesco è anche un interessante campionario del mondo precortese riconoscibile in molti dettagli fra i quali ci limitiamo a citare le calzebrache sotto la "gonnella" ed il taglio corto dei capelli dell'offerente, ed il vestito aderente e con un inizio di scollatura sotto l'elegantissimo manto ornato da pelli di ermellino "a tegola" di Santa Caterina. Della quale si notano anche i lunghissimi capelli biondi, magari anche posticci (come si usa anche oggi), arricciati a ferro nella parte terminale.

Per una loro migliore conservazione, nel 1949 questi affreschi sono stati strappati e portati alla Pinacoteca di Brera dove il presbiterio della cappella Mocchirolo è stato ricostruito nella sala I A sul lato sinistro del corridoio di ingresso. Attribuiti a Giovanni da Milano, uno fra gli allievi e collaboratori di Giotto che con i sui viaggi più contribuì alla diffusione dell’arte del maestro, di essa gli storici dell’arte vi colgono ben evidenti alcune caratteristiche: “senso spiccato per la forma e per le masse, attenzione al dato realistico e alle espressioni, chiarezza espositiva e coerenza narrativa”.

È sempre Sara Colombetti a precisarci che la targa che fa riferimento a Giovanni da Milano è ormai solo un "reperto archeologico", un omaggio ai tempi della Soprintendente Fernanda Wittgens e di Mauro Pelliccioli (gli artefici del trasporto e del riallestimento degli affreschi in Brera). Anche se non c'è nessuna certezza documentaria, oggi si tende ad avanzare l'ipotesi che il pittore sia stato un tal Pecino o Pacino o Pietro da Nova.

Gli affreschi dei due oratori, emblematicamente rappresentativi del "preumanesimo" di Giotto, Cimabue, Dante e Petrarca, sono dunque ritenuti “un monumento capitale per indagare le tendenze dell'arte lombarda poco dopo la metà del Trecento ed offrono testimonianza dell'incipiente evoluzione del realismo giottesco verso gli stilemi del Gotico Internazionale in sintonia con gli orientamenti della cultura viscontea che culmineranno nell'Ouvraige de Lombardie, cioè nell'arte miniatoria”.
Ricordando i nomi dei suoi principali esponenti, Giovannino de’ Grassi (Milano, 1350-1398) e poi Michelino da Besozzo (Besozzo VA, ca. 1370 - ca. 1455), occorre infatti avere ben presente che il più grande lascito del Trecento lombardo risiede proprio nella tradizione miniata e nelle illustrazioni su pergamena (leggi anche >>> Dai Visconti agli Sforza). I più grandi cumuli di tesori di quell'epoca erano nella biblioteca del Duomo di Monza, alla Certosa ed a Pavia.
Nell'immagine a lato un tesoro rimasto in Italia: il De consolatione philosophiæ di Severino Boezio, un codice in pergamena (di 6 x 42 cm) illustrato da Michelino da Besozzo e Pietro da Pavia (1390-1395) oggi proprietà della Biblioteca Malatestiana di Cesena.
"Poiché, al solito, ha pensato Napoleone a spazzolar bene via tutto quel che c'era di buono... ora, per vederlo, si paga il biglietto al Louvre". Questo ha commentato l'amico già citato altrove.
Una minima speranza di avere ancora qualcosa a Milano, la riponevamo nei fondi dell'Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana... Purtroppo la sempre gentilissima (quanto competente) dott.ssa Marzia Pontone ci ha costretti ad abbandonare ogni speranza spiegandoci che "le collezioni private dei Trivulzio si formarono dopo il trasferimento della biblioteca Visconteo Sforzesca in Francia ai primi del Cinquecento e non furono mai interessate dal discorso delle soppressioni napoleoniche dei conventi". Ahinoi!

Giovanni Guzzi, settembre 2016
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APPENDICE FUORI CONTESTO

A proposito della famiglia Porro e della sua poco raccomandabile fama, è il caso di ricordare che appartenne alla famiglia anche il beato Giovannangelo Porro (1451-1505), monaco presso il convento dei Servi di Santa Maria di Milano (ora chiesa di san Carlo, dove si conserva il suo corpo, ritenuto miracolosamente incorrotto). Attorno alla sua figura, umile e carismatica, è fiorita per secoli - segno di vera devozione popolare - la leggenda.
Un curioso episodio di questo genere di memoria è il miracolo dell'uva, riferito alla fine dell'estate del 1505, poco prima della sua morte gloriosa: “Un giorno Giovannangelo, uscito nell'orto del convento, colse un grappolo d'uva a sollievo della sua malattia. Avendo però udito alcuni frati che di ciò si lamentavano, riportò il grappolo appena colto alla vite. Ed esso si ricongiunse al tralcio dove continuò a maturare come se mai ne fosse stato staccato”.