L'Eclettico



Caravaggio: La Flagellazione di Cristo



Oltre la fila merita... una sosta

L'ECLETTICO - web "aperiodico"

CARAVAGGIO: LA FLAGELLAZIONE DI CRISTO

Oltre la fila merita... una sosta


Le mostre di un solo dipinto, ma di un autore di richiamo e gratuite, attirano sempre grandi folle. E Monza non fa eccezione. E così, dopo l’enorme successo nel 2015 per l’esposizione del “San Francesco in meditazione” di Caravaggio al Serrone della Reggia, nella primavera 2016 si è replicato con un secondo quadro, ancora di Michelangelo Merisi: “La Flagellazione di Cristo”, prestito dal Museo Nazionale di Capodimonte, che l’ha in deposito dalla chiesa di San Domenico Maggiore in Napoli.
Questa volta sede dell’iniziativa è stato il salone delle feste, al primo piano nobile della Reggia.

Ne scriviamo, seppure a distanza di tempo dalla conclusione dell’evento, perché ci interessa condividere con i lettori alcune riflessioni, per così dire,… sociologiche.
Per evitare le immancabili code del fine settimana, siamo andati a goderci l’opera in giorno feriale anche per poter usufruire con calma dei filmati che la introducevano; non proiettati quando l’afflusso di persone è talmente alto da rendere necessario abbreviare i tempi della visita per evitare al pubblico attese troppo lunghe. Un’accortezza, la nostra, che tuttavia non ci ha del tutto evitato le diverse stazioni di una sorta di civile Via Crucis prima di essere ammessi al cospetto del quadro.

Dalla biglietteria, alle rampe di scale di accesso, fino al primo piano della villa le soste sono state almeno due o tre. Aver trascorso questo tempo in simpatica compagnia della famiglia di una collega d’ufficio l’ha fatto risultare meno pesante. Altra sosta davanti alla vetrata d’ingresso, qui la contabilità dei gruppi ammessi all’interno mi ha separato dalla bella combriccola che avevamo formato.
Niente di male, visto che abbiamo trovato sintonia ed argomenti da condividere con un altro visitatore.
Arrivato il nostro turno di entrare le soste sono state ancora due, compresa la proiezione del filmato nella sala antistante quella della nostra meta.
E, finalmente, eccoci davanti a Caravaggio.
Una brava, ma necessariamente sbrigativa, guida ci ha illustrato alcune note storico artistiche sul dipinto per poi lasciarlo al godimento di ciascuno.
Ma, più del Cristo flagellato, la sorpresa qui ce l’hanno riservata i nostri compagni di visita.
Per arrivare a questo momento abbiamo trascorso in coda almeno quasi un’ora, il tempo accordatoci per ammirarla era di circa una decina di minuti eppure… dopo un paio di foto col telefonino la maggior parte dei visitatori si è avviata all’uscita: ben prima di essere invitata dal personale di custodia a lasciare la sala per consentire l’ingresso al gruppo seguente che premeva alle sue porte.
Da parte nostra ci siamo defilati, camaleontescamente “mimetizzandoci” con le pareti e, fortunatamente passati inosservati, abbiamo potuto apprezzare il dipinto almeno per il tempo di “due turni”.
Ma quanto raccontato lascia una perplessità di fondo su operazioni di questo tipo.
Se pure avvicinare all’arte la popolazione è opera sempre di per sé positiva, l’arte fa solo del bene a chi ne gode, che senso ha farlo in questa maniera quasi “irrispettosa” per l’artista ed il soggetto dipinto?
A maggior ragione quando così drammatico come in questo caso.
Più oltre, nelle brevi note storico-artistiche che anche in questo articolo non vogliamo far mancare ai nostri lettori, ben consapevoli che sull’opera in tanti e più competenti ed autorevoli di noi si sono espressi, si dirà del travaglio esistenziale vissuto da Caravaggio negli anni in cui lavorava a questo soggetto.
Ed allora come si fa a dedicare al suo lavoro uno sguardo fugace ed una foto ricordo, che sarà generalmente di qualità notevolmente inferiore a quella delle immagini facilmente reperibili sulla rete con un clic?
Come si fa a ridurre l’Arte ad uno sfondo per un autoscatto?
Sono domande che poniamo a chi partecipa da “utente” a queste iniziative ma, soprattutto, a chi le organizza. Quante risorse economiche sono state dedicate a questo allestimento? Peraltro ben fatto, anche tecnicamente con una buona illuminazione, un distanziatore discreto e l’ottima iniziativa di collocare accanto al dipinto anche una miniatura in Braille per non vedenti.

Se la scelta fatta è coerente con le esigenze di promozione degli sponsor, riteniamo sia la nostra committenza contemporanea a non essere così lungimirante come quella che secoli addietro favoriva la realizzazione di opere di questo livello.
Per restare all’ambito della città di Monza non mancano certo eccellenze che, adeguatamente valorizzate, potrebbero essere altrettanto attrattive nei confronti della popolazione e, contrastando la cultura superficiale dominante, portare ad una crescita culturale collettiva con ricadute positive in ogni ambito della vita civile.

Tutto ciò premesso, che ci auguriamo possa suscitare l’attenzione, e decisioni conseguenti, da parte di chi detta le linee guida di queste iniziative - e le patrocina orientando la destinazione delle sempre carenti risorse economiche -, veniamo, seppure (come detto) succintamente, agli aspetti più strettamente artistici dell’operazione.

Appropriata è la scelta del periodo pasquale, appositamente voluto per dare risalto al tema delle opere: la meditazione e la sofferenza. Un modo per portare alla riflessione su espressioni che, al di là delle convinzioni religiose o meno di ciascuno ed alla frequentazione o meno delle celebrazioni in chiesa, sono comuni a chiunque abbia una coscienza. Nel particolare tempo della Quaresima è stato così proposto, anche in ambito civile, un forte invito a soffermarsi per riflettere, in concreto, sul senso della vita e sull’essere umano.

Ciò detto occorre anche precisare che, per quanto “spettacolari” nella loro qualità tecnica e per l’emozione che suscitano in chi li ammira (a maggior ragione se li si confronta con quelli di autori a lui contemporanei, inclusi i suoi maestri ed i suoi epigoni), i quadri di Caravaggio non sono facili da comprendere, come del resto l’artista stesso. Nato a Milano, il 25 settembre 1571, e morto a Porto Ercole (Grosseto) il 18 luglio 1610, nella sua vita breve e turbolenta questo pittore ha studiato e viaggiato molto.

"La Flagellazione" risale all’ultimo periodo della sua esistenza quando, dopo l’uccisione in un duello a Roma di Ranuccio Tomassoni, l’artista, per sfuggire alla conseguente condanna a morte decretata dalla giustizia pontificia, si è rifugiato a Napoli: al tempo, con i suoi trecentomila abitanti, grande tre volte Roma e città principale dell’Europa Mediterranea.
Qui, preceduto dalla sua fama, riceve l’incarico di realizzare un dipinto per una cappella di famiglia in San Domenico Maggiore. Committente risulta essere Tommaso de Franchis, di origini genovesi ed esponente di una delle famiglie più in ascesa nella scala sociale cittadina, oltre ad essere imparentato con membri della Congregazione del Pio Monte della Misericordia, che all’artista aveva pagato a peso d’oro la celeberrima pala con le “Sette opere di misericordia”. Siamo nel 1606 e questa fase di vita del Merisi segna l’inizio della fine della sua produzione artistica.

Da testi e documenti di pagamento abbiamo la prova dell’anno (per alcuni aspetti ed autori controverso) di esecuzione della Flagellazione: il 1607, un tempo, questo del suo primo periodo napoletano, in cui nella sua pittura emergono evidenti il tormento interiore vissuto da Caravaggio ed il particolare rapporto con la vita e con la violenza che stava vivendo.

Rispetto ad opere precedenti qui la tecnica pittorica diventa più rapida e le scelte compositive e di illuminazione dei personaggi cambiano: Cristo è in luce, mentre i carnefici hanno i volti in ombra. Diversi sono gli aspetti che colpiscono lo spettatore in questa imponente opera, un olio su tela di grandi dimensioni (286 x 213 cm).
Drammaticità dell’opera per la violenza della scena, senso dell’azione e grande realismo che traspare dal fatto che le figure sono a grandezza naturale, reali e non idealizzate. I personaggi sono in primo piano e l’effetto di chiaro-scuro li proietta verso lo spettatore, che si sente partecipe dell’episodio evangelico. Inoltre non disegnano ombre, ad essere in ombra è tutto il fondo scuro, che sembra quasi avere il sopravvento sulla rappresentazione.

Per contrasto l’uso della luce è comunque sempre intenso anche se non sembra arrivare dall’esterno ma essere irradiata dal corpo del Cristo. E sembra essere proprio questo il forte messaggio consolatorio trasmesso dall’artista, da qualcuno individuato nel carnefice paradossalmente inginocchiato davanti alla sua vittima: Dio si è fatto uomo per noi e soffre per noi i patimenti che noi stessi gli infliggiamo quando la nostra condotta di vita non è in sintonia con i suoi insegnamenti.

La particolare scelta di lasciare in ombra il volto del personaggio inginocchiato ed i chiaroscuri presentano analogie con la “Cena in Emmaus” del 1606 oggi a Brera.
Anche la resa dei volumi dei personaggi è diversa, mentre il Cristo è finemente tratteggiato per evidenziarne la muscolatura e le forme del corpo, gli sgherri sembrano quasi essere “bidimensionali”, dipinti con poche pennellate e senza dettagli.

Questa che traspare è quindi una pittura rapida, quasi determinata dall’esigenza di un completamento frettoloso dell’opera, forse "La Flagellazione" è stata conclusa prima della partenza di Caravaggio per la Sicilia e poi per Malta.
Una tesi non condivisa da chi, seppure senza portare prove inoppugnabili a proprio favore, ritiene che il quadro sia stato completato in un secondo tempo. Alcuni arrivano a supporre che Caravaggio poteva anche aver dato incarico ad un altro pittore di concludere il lavoro, altri invece ipotizzano che possa essere stato egli stesso a finire il lavoro due anni dopo, nel suo secondo soggiorno a Napoli.

Sono invece accertati alcuni ripensamenti. Individuati sotto la pellicola pittorica definitiva grazie ad indagini tecnico – scientifiche, mostrano che inizialmente il soggetto era diverso.
Sulla destra in effetti le radiografie hanno rilevato una figura misteriosa, forse il committente in veste di san Francesco. Questo personaggio ignoto è stato poi eliminato e si sta valutando se la figura abbandonata può essere considerata un vero “pentimento” (cioè parte della prima stesura), oppure se si trattava di un dipinto preesistente e poi abbandonato per “riciclare” la tela.
Il carnefice inginocchiato e le due figure ai lati del Cristo sembrano infatti rivelare sia differenti livelli di rappresentazione, sia una modifica radicale della scena nel suo complesso.
Mentre il primo risulta essere presente fin dall’inizio, seppure con diverso atteggiamento, assieme al Cristo, anch’egli in una differente posizione, ed alla figura abbandonata, gli aguzzini in piedi sembrano invece essere stati aggiunti successivamente.
Cosicché, da una prima impaginazione riconducibile all’iconografia tradizionale del “Cristo alla colonna”, il soggetto è stato poi variato in uno stile classico che diventa, nel risultato finale, “La Flagellazione di Cristo” che oggi ammiriamo... e che ci commuove.

Giovanni Guzzi e Laura Galimberti, agosto 2016
© Riproduzione riservata