L'Eclettico



Piano work of the Americas



Thomas Otten suona Leslie Adams e Alberto Ginastera al Castello Sforzesco

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PIANO WORK OF THE AMERICAS

Thomas Otten suona Leslie Adams e Alberto Ginastera al Castello Sforzesco


Confesso che ne sentivo la mancanza: le iniziative del Maestro Matteo Galli sotto l’egida di Le Voci della Città sono sempre state per me un punto di riferimento.
A partire dalla rassegna “Antichi Organi, un patrimonio di Milano”, che mi ha fatto appassionare a questo strumento, continuando con le lezioni-concerto “Suoni storici”, in collaborazione col Museo degli Strumenti Musicali del Castello Sforzesco, e poi tante altre iniziative: originali come il memorabile concerto di campane di San Vittore al Corpo e comunque sempre con programmi di raro ascolto offerti al pubblico (per di più spesso gratuitamente) anche portando a Milano importanti realtà musicali internazionali, grazie a lungimiranti sinergie con i consolati presenti in città. Ultimamente questa programmazione si era un po’ “rarefatta”, privilegiando quella didattica per ragazzi, sempre al Castello Sforzesco: “Il Museo che suona”.

Con questa premessa non stupisce che il pubblico degli “affezionati” a Le Voci della Città abbia molto gradito, fin dal suo annuncio, il concerto di fine giugno nella Sala della Balla del Castello Sforzesco dal titolo “Piano work of the Americas”. Alla tastiera Thomas Otten, definito dal New York Timesun pianista estremamente originale che mette la sua formidabile tecnica al servizio delle sue idee”, ha messo a confronto alcuni brani per pianoforte nati in due ambiti geografici diversi, l’America del nord e quella del sud, suonando musiche dell’ottantaquattrenne compositore afroamericano Leslie Adams (nato nel 1932) e di Alberto Ginastera (1916-1983), musicista argentino di cui si celebra quest'anno il centenario della nascita.

Del primo Otten ha eseguito una selezione dai “Piano Edudes, Part II”, composti nel 2007, la cui scrittura, di impianto classico ma fortemente debitrice al jazz ed al pop, non è funzionale ad esaltare il virtuosismo tecnico di chi li suona ma si prefigge di raffinarne le qualità interpretative.
Qualità che Otten ha pienamente dimostrato spaziando fra il maestoso N. 1 in Mi Maggiore, il melanconico N. 2 in La Bemolle, ed il cinematografico N. 6 in Si Maggiore – che lo stesso interprete ha presentato come “un mix fra Rachmaninoff e Bacharach”.
Se il N. 11 in Sol Diesis Minore è il preferito dal pubblico, per il suo carattere molto mosso e jazzistico, non gli è da meno il N. 10 in Fa Minore: poetico e cantabile, con la melodia ripresa dalle voci interne.
Peccato per la solita “maledizione dell’adagio” per la quale è “matematico” che il brano più emotivamente coinvolgente di ogni concerto debba essere sempre massacrato dalla maleducazione di qualche spettatore: nell’occasione lo squillo di un’assurda suoneria di telefono cellulare e le intemperanze di una bambina intenta a far coriandoli del programma di sala sotto lo sguardo compiaciuto della madre.
A riconciliarci con la musica ci ha fortunatamente pensato lo studio conclusivo della prima parte del concerto: il N. 13 in La Bemolle Maggiore: dalla struttura molto semplice che prevede la ripetizione del tema con un crescendo che lo porta, nel finale, ad erompere nella potente energia di un coro gospel.

Tornando in sala per la seconda parte del recital, Otten ironicamente nota il fatto di essere un musicista statunitense che a Milano suona musica argentina vestito (per il caldo) alla thailandese!
Passando più propriamente alla musica, si rientra nei canoni più tipici della musica classica. Alberto Ginastera è, infatti, compositore molto diverso dal precedente.
Non troppo conosciuto dal pubblico (e neppure da tutti i pianisti diplomati, come verificato proprio nell'occasione), è invece ben noto ai chitarristi classici che gli sono debitori di opere importanti per il repertorio nel Novecento dedicato al loro strumento.
Otten ne propone la Sonata N. 1, Op. 22.
Scritta nel 1952, si apre con un virtuosistico Allegro marcato che richiede all’interprete un notevole lavoro atletico e nel quale forti contrasti, continui salti ed un’evidente dimensione ritmica rendono palese la volontà dell’autore di imitare gli effetti strumentali possibili sulle corde della chitarra.
Nel misterioso secondo movimento, Presto, il richiamo alla chitarra è ancora presente, con un continuo arpeggio sul registro acuto che lo rende molto più morbido del primo tempo.
Il successivo Adagio molto appassionato è quasi un’improvvisazione. Il riferimento in questo caso è l’imitazione dei gauchos che, nella Pampa argentina, suonano la chitarra accanto al fuoco a fine giornata; come siamo abituati a veder fare nei film western ai cow boys: i loro corrispondenti Nord Americani. “Ma non è un gaucho felice” commenta Otten, che continua “è pazzo disperato in un momento di follia”, ascoltare per credere.
Il tempo conclusivo della Sonata, Ruvido ed ostinato, è infine un "moto perpetuo": una sorta di toccata che richiama il malambo: una percussiva, antichissima danza argentina (per capirci una sorta di combinazione fra tango e flamenco) che si balla battendo forsennatamente i piedi al suolo.
In essa i gauchos, anche per vincere il freddo della notte nelle pianure della loro terra, si sfidavano in competizioni incrociando innumerevoli figure e passi sempre più complessi (anche maneggiando lunghi coltellacci o roteando bolas) che a chi li guarda mettono paura per la salute delle caviglie dei ballerini.

Purtroppo a questo punto anche noi spettatori dobbiamo “alzare i tacchi” (un po’ meno elegantemente dei solisti di malambo) ed affrettarci verso il guardaroba: nell’organizzazione pensata dalla direzione dei Musei del Castello, il comprensibile obbligo di depositarvi borse e zainetti prima di accedere alle sale non ha ancora trovato un’ottimale conciliazione fra gli orari di conclusione dei concerti ed il termine dell’orario di servizio del personale di custodia.

Giovanni Guzzi, luglio 2016
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