L'Eclettico



Mito e Natura



Dall'antica Grecia a Pompei

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MITO E NATURA

Dall'antica Grecia a Pompei


“Mito e Natura, dalla Grecia a Pompei”. Dopo Roma e Milano, dove l’ho visitata a Palazzo Reale (allestimento al quale si riferisce questa recensione), questa mostra archeologica in un certo senso “riporta a casa” molti suoi pezzi. Infatti è ora a Napoli, suddivisa nelle due sedi dell’Anfiteatro degli scavi di Pompei ed al Museo Archeologico: una delle istituzioni più generose nel concederle prestiti.
Il suo titolo manifesta un programma legato ad un itinerario geografico: fondamentalmente determinato  dalla provenienza delle opere che, a dire il vero, sono per lo più proprietà di istituzioni italiane e magno-greche, ossia provenienti da scavi nella nostra Penisola.


LO SPAZIO DELLA NATURA (terra e mare)

Nella prima sala, esattamente davanti alla porta che conduce alla successiva, ci volge le spalle Dioniso, in scultura, con accanto la pantera. Forse per dare al visitatore l’idea che il dio ci inviti ad entrare in mostra con lui come nostra guida? Sarà, ma la scelta è discutibile. Chi volesse guardarla di fronte può farlo solo a distanza troppo ravvicinata per apprezzarla adeguatamente nell’insieme e, per di più, ha come sfondo la parte non allestita della stanza. Forse ci si è voluti ispirare alla recente ricollocazione della Pietà Rondanini… sulla quale qui sorvoliamo (ma non mancheremo di tornare ad occuparcene!).

Poco più oltre, dal basso (è collocato a terra in una sorta di vano), ci guarda Trittolemo, il personaggio mitologico che, volando sul carro donatogli da Demetra, seminava il grano sulla terra. Purtroppo privo degli arti (non sopravvissuti ai suoi più di venti secoli) ha perso anche i colori che, come è noto, decoravano la statuaria antica. Ma questo non è un problema per noi contemporanei, abituati ad apprezzare questi capolavori nella bianca purezza del marmo. In questo caso si tratta di marmo pentelico: un marmo bianco a grana fine (può assumere tenui tonalità di giallo oro, talvolta con brillanti venature verdastre) caratteristico della Grecia. Estratto da una cava distante circa 5 km a nord-est di Atene, nel versante est dell’omonimo monte Pentelico questo marmo è stato usato per la costruzione del Partenone, dei propilei e dell’Eretteo sull’Acropoli di Atene.

Testimonianza del favore degli artisti per la rappresentazione delle Nereidi - le ninfe marine spesso presentate come giovinette dalla chioma adorna di perle, sopra delfini o ippocampi e talvolta come esseri fantastici, metà donna e metà pesce - è un bacile in marmo bianco dell’isola di Paro del IV sec a.C..
Le Nereidi erano divinità benefiche alle quali i marinai offrivano sacrifici, ed abitavano in fondo al mare, nel palazzo del padre Nereo, sedute su troni d'oro. Occupavano il tempo a filare, tessere e cantare, ma talvolta apparivano alla superficie delle onde, cavalcando tritoni o altri mostri marini.
Ed è così che ne vediamo in mostra, dipinta a colori, la più nota: Teti, madre di Achille.

Confessando che, data la nostra debolezza in materia archeologica, abbiamo messo da parte la personale ritrosia per le audioguide e ce ne siamo avvalsi per questa mostra, spiace dover dire che le sue indicazioni non sono sempre corrette: oppure è il bacile di Teti ad essere disposto al contrario rispetto alla sua descrizione che ci viene proposta. Proseguendo nella visita scopriremo che non è l’unico caso, mentre di fronte ad altre vetrine non c’è esattezza nella numerazione del canale da ascoltare così alcuni visitatori meno avveduti ascoltano le descrizioni guardando i vasi sbagliati!

Poiché ci troviamo nella sezione della mostra che individua gli spazi della natura ed è sottotitolata “Terra e Mare” la terra vi compare con la rappresentazione di grotte, in un modellino in marmo e dipinte su vasi. Come quella nella quale, per curare la sua ferita, trova riparo Filottete: unico arciere che Ulisse stimasse pari a sé e che, a causa del morso di un serpente, dovette abbandonare la spedizione contro Troia e venne lasciato sull’isola di Lemno.

A proposito del vasellame, noi neofiti dell’arte greca, abbiamo modo di prendere confidenza con le diverse forme e denominazioni della sua ceramica e così, confrontando i pezzi esposti e le rispettive didascalie, ci siamo costruiti un personale rudimentale glossario. Uno dei più ricorrenti è il Cratere: un vaso con una base allargata (con o senza stelo) e manici che, posizionato a centro tavola, serviva ai commensali per attingervi il vino. A seconda della posizione dei manici viene distinto in diverse tipologie.

Quello appena citato con Filottete, di provenienza siceliota (viene da Siracusa), ha i manici fissati lungo i fianchi ed è detto “a campana”.

Dello stesso modello ve ne sono di fabbricazione attica ed un paio campani, splendidamente realistici nella raffigurazione di scene di guerra dipinte dal cosiddetto “Pittore della libagione”: non possono non restare impresse nella memoria la paura del cavallo con l’occhio sbarrato, così come quella del guerriero a terra che sta per essere colpito dall’avversario.

Quando i manici sono fissati alla base del vaso il cratere è, invece, detto “a calice”.
Di questo tipo ricordiamo il cratere attico con l’ulivo, albero sacro di Atene, dietro il Toro di Maratona che Teseo (attorno al quale stanno il padre Egeo, la maga Medea, sua avversaria, ed Atena) cattura e conduce in città per offrirlo in sacrificio ad Apollo.

Terzo modello è il cratere “a colonnette”: quando i manici sono uniti al bordo. Su crateri di questo genere ricordiamo dipinte figure di donne che compiono riti legati all’acqua accanto ad un Loutherion, una sorta di grande bacile fissato sopra un pilastrino, l’amazzonomachia, ovvero la guerra fra i Greci e le Amazzoni, ed uno con figure nere di navi (foto a sinistra).
Si torna così al mare con una bellissima Kylix (calice da vino) sulla quale una piovra (o polpo comune) è simmetricamente circondata da delfini, e ad un cratere euboico in argilla antichissimo (del 700 a.C.) detto Cratere del Naufragio (foto a destra) nel quale si riconoscono polpi e delfini e, fra i pesci, anche i naufraghi.
Si tratta del primo vaso conosciuto sul quale sia dipinta una scena narrativa.

Questa sezione della mostra, tanto interessante quanto scomoda (per la posizione di molti vasi collocati troppo in basso al punto che occorrerebbe inginocchiarsi loro davanti per poterli ammirare come meritano), è completata con piatti usati per servire il pesce.
Anche questi sono provenienti dall’Italia meridionale e risalgono a prima del 300 a.C. Hanno al centro una cavità, detta onfalo, nella quale si raccoglievano le salse del condimento e, soprattutto, sono meravigliosamente decorati con raffigurazioni di organismi marini di grande realismo che consentono di determinare alla perfezione (per chi è in grado di farlo: quindi non chi scrive!) le varie specie rappresentate: conchiglie, polpi e diverse varietà di pesci… sogliola, persico, triglia.
Uno di questi piatti (dalla Magna Grecia, con pesci e polpo) i lettori milanesi interessati potranno rivederlo al Museo Archeologico di Milano.


NATURA COME SIMBOLO (segno, metafore e personificazioni)

Nella sezione successiva, Natura come simbolo, cominciamo a prendere confidenza con le corrispondenze fra gli alberi e gli dei greci. Come la quercia, sacra a Zeus, la vite a Dioniso, e le ben tre piante “collezionate” da Apollo: oltre all’olivo, già visto, anche la palma e l’alloro.
Nell’Hydria attica (del 480 a.C.), in cui a figure rosse è raccontata la scena di Neottolemo – il figlio di Achille - che uccide il re di Troia Priamo, il paesaggio partecipa all’azione: c’è una palma fra Priamo e Cassandra che si piega anch’essa soffrendo con gli sconfitti. È un paesaggio raffigurato non realisticamente, nel senso che intendiamo noi oggi, ma “lasciato intendere” con la rappresentazione di una sua parte o di un suo elemento.
Dal punto di vista dell’uso del manufatto, l’idria era un contenitore che, come evidente dal suo stesso nome, serviva per trasportare l’acqua.
Osservando che tutti i pezzi in mostra sono arrivati ai nostri giorni sopravvivendo ai secoli perché corredi funerari salvaguardati dalle tombe nelle quali erano collocati, risulta che questa idria, in particolare, era stata adibita ad urna cineraria e quando è stata ritrovata conservava ancora al suo interno le ceneri del defunto. Resta la domanda su che fine queste abbiano fatto.

Un modello di cratere finora non ancora visto è quello "a volute": ovvero con i manici che sopravanzano l’orlo del vaso disegnando forme più o meno sinuose. Fa la sua comparsa in mostra con due esempi apuli: l’uno o del 360 a.C. col finale della vicenda di Neottolemo che a Delfi subisce l’agguato di Oreste (foto a sinistra), l’altro del 370 a.C., con Oreste e la sorella Ifigenia in Tauride raffigurati assieme ad una pianta di alloro.

Altre vicende mitologiche con elementi puntuali a simboleggiare la natura sono dipinte su due altri crateri, rispettivamente "a calice" pestano (da Paestum) ed apulo "a campana".
Si tratta di aereonautica mitologica animale visto che i soggetti sono due voli: il primo (foto a destra) di Europa che cavalca all’amazzone il toro-Zeus, sovradipinto di bianco, dal quale è condotta ad incontrare il dio sull’isola di Creta ed il secondo di Elle, che la matrigna voleva sacrificare ma fu salvata dalla defunta madre che, per sottrarla alla morte, le inviò come mezzo di fuga il montone dal vello d’oro (quello che poi sarà cercato dagli Argonauti).

In entrambi i vasi, il mare sopra il quale i due animali volano è rappresentato da pesci ed altre creature marine e da due figure semiumane dalla coda pinnata: la personificazione di Scilla e di Tritone (esplicitamente identificate dal nome graffito accanto a ciascuno di loro).
Per inciso uno dei due viaggi non arriverà a destinazione: diretta dal Mar Egeo verso la Colchide, la regione dell’odierno Mar Nero, Elle perse l’equilibrio e cadde in acqua nella zona dello stretto dei Dardanelli che da lei prese il nome di Ellesponto, ovvero il mare (in greco pontos) di Elle.

Del periodo magno greco di Paestum (nome latino dell’originaria Poseidonia) sono in mostra anche bruciaprofumi in terracotta: testine femminili dalle quali emerge la corolla di un fiore ma, soprattutto il coperchio della Tomba del Tuffatore. È una lastra di travertino spugnoso con superficie intonacata, dipinta intorno al 480 a.C..
La natura vi compare nelle forme di due alberi sui lati, dal tronco e rami sinuosi con fogliame rado. L’uomo che si tuffa sembra quasi lanciarsi da un trampolino: la struttura a blocchi squadrati sulla destra nella quale gli studiosi riconoscono le pylai: rappresentazione allusiva delle porte dell’Ade che gli antichi collocavano all’estremità della terra verso occidente. Quindi in corrispondenza delle cosiddette “colonne d’Ercole”, a Gibilterra, oltre le quali si estendeva Oceano, l’immenso fiume origine e limite di tutto e potenza vitale.
A questa potenza vitale nel passaggio vita-morte, più che ad un luogo vero e proprio, sembra quindi di poter più correttamente ricondurre le accoglienti onde dello specchio d’acqua nel quale il tuffatore sta per immergersi e tutta la scena vuole dunque simboleggiare la nascita ad una nuova vita.


NATURA COLTIVATA (dono degli dei)

Attorno ad una torre di paglia in stile Land art (a dire la verità scelta, per chi scrive, non così felice), si sviluppa la sezione di mostra dedicata alla natura coltivata, dono degli dei e dalla quale si ricava di che vivere. Con qualche ulteriore lacuna rispetto alla descrizione dell’audioguida, e perdurante il problema della necessità di “inginocchiarsi” per vedere bene le immagini dipinte sui vasi, entriamo nel mondo di Demetra dove ritroviamo anche Trittolemo.
I due sono la coppia della terra coltivata. A Demetra è legato tutto il ciclo di lavorazione del grano, dalla sua crescita alla maturazione, alla mietitura alla trebbiatura. Per questa ragione è raffigurata con in mano fasci di spighe. In piedi su un Lekythos (vaso per unguenti) a fondo bianco ed assisa in trono su una coppa corinzia a figure nere: coronata, con assieme alle spighe dei papaveri ed una fiaccola accesa ed un uccello alle spalle.
In cambio dei suoi doni riceve come offerte primizie, melagrani, fichi, mele cotogne.
A Demetra è legato il mito di sua figlia, Persefone, conosciuta anche come Kore (dal vocabolo greco che significa giovinetta) o Proserpina nella mitologia latina. Nata dall’unione della madre con Zeus, venne rapita dallo zio Ade, dio dell’oltretomba, per farne la sua sposa. Adirata per l’affronto subito, la dea della fertilità e dell’agricoltura, che prima garantiva agli uomini interi anni di bel tempo e copiosi raccolti, scatenò sulla terra un inverno senza fine.
La mediazione di Zeus portò all’accordo che consentiva a Persefone di tornare con la madre per sei mesi all’anno. Perciò, quando la giovane sta agli inferi con Ade sulla terra è autunno ed inverno, mentre quando vi fa ritorno, per la gioia, Demetra la fa rifiorire donandole la primavera e l’estate.
Trittolemo è, invece, il figlio del re di Eleusi (nell’Attica, regione di Atene). Porta il grano volando sulla terra su un carro trainato da serpenti alati: un dono di Demetra riconoscente per l’ospitalità ricevuta durante la sua ricerca della figlia. Trittolemo sul carro, al momento in cui gli è consegnato, alla sua partenza o in volo, è un soggetto presente in mostra in più opere: due crateri (a campana - foto - ed a colonnette), una coppa attica ed uno Stamnos (vaso per mescere acqua e vino con collo corto e largo) del V secolo a.C. ora al Louvre.

Come è noto nell’antichità si usava bere il vino mescolato all’acqua, e la divinità legata al vino è Dioniso, una delle principali dell’Olimpo greco, al quale è associata anche l’edera, velenosa e verde anche d’inverno a simboleggiare quindi la morte mentre la vite rimanda all’estate ed alla vita.
Figlio di Zeus e Semele, incenerita dalla visione del fulmine del re degli dei mentre lo portava ancora in grembo, fu salvato dal rogo dal padre che lo cucì nella sua coscia dalla quale nacque dopo una seconda gestazione. Nel corso dei suoi viaggi giunse in Frigia dove apprese dalla dea Cibele le danze che divennero fondamentali per i suoi riti nei quali era invocato perché rinnovasse il ciclo della vita dei fiori e degli alberi e tornasse a far scorrere il vino. Era infatti considerato l’inventore della vite, del melo, del vino, della birra e signore di banchetti nei quali spesso sono raffigurate le sue nozze con Arianna (abbandonata a Nasso dall’ingrato Teseo dopo che la figlia del re di Creta, Minosse, l’aveva aiutato a sconfiggere il Minotauro donandogli il famoso filo che gli aveva permesso di uscire dal labirinto).
La scena è presente in mostra più volte: su un’anfora tirrenica i due sposi sono sotto un tralcio di vite mentre sono a banchetto su una Loutrophoros (anfora per contenere acqua destinata ai riti) apula.

Il volto del dio, di fronte a quello della madre Semele sottratta agli inferi e condotta con sé nell’Olimpo, campeggia di profilo su una coppa decorata con tralci di vite sui quali si arrampicano piccole figure di satiri. Questi ultimi sono divinità minori maschili che, con i sileni, formano il corteggio del dio assieme alle menadi, figure femminili danzanti riconoscibili per il tirso (bastone rituale) che portano in mano e la pardalide (o pelle di pantera) che le ricopre. Esse sono dette anche baccanti perché Dioniso ha il corrispettivo latino in Bacco, pur non essendovi esatta corrispondenza fra i due.
Altri satiri sono intenti alla vendemmia su un Kyathos (vaso dotato di una cavità alta, rotonda, lievemente affusolata, e di un singolo manico ad anello, lungo e piatto - era usato per attingere le bevande, da qui la denominazione che, in greco antico, significa mestolo) dove hanno l’aspetto e l’agilità di babbuini inerpicati sui tralci di una vite dalla quale raccolgono grappoli che ripongono in tini pronti per la pigiatura alla quale si dedicano i sileni delle figure rosse di un cratere a colonnette. I Milanesi possono ammirare questo vaso nella "sala dei vetri di Murano" del museo Poldi Pezzoli (già camera da letto del suo fondatore).

Il dio è poi ancora presente in due Pinax (quadretto votivo in marmo): a figura intera in una grotta ed a mezzo busto di fronte a un gallo e con un tralcio di vite.

Completano la panoramica di Dioniso una Oinochoe (brocca, dal greco oinos - "vino" e cheo - "verso") apula a figure rosse, dove è attorniato da tralci di vite, un cratere a colonnette in cui lo accompagnano satiri, un’anfora attica a figure nere da Cuma in cui si aggiungono le menadi, ed un cratere apulo a campana (foto a lato) sul quale una menade balla accompagnandosi con un tamburello che solleva sopra la testa mentre, sul lato opposto di Dioniso, un satiro mangia acini d’uva da un grappolo che tiene sospeso sopra la bocca.

Assieme alla vite, l’altra pianta sacra dai cui frutti si ricava un liquido ancor più prezioso del vino è l’ulivo.
Si tratta dell’albero sacro ad Atena, grazie al quale vince la sfida con Poseidone per diventare la divinità protettrice di Atene. Per questa ragione un ulivo sta in un recinto al centro dell’Acropoli ed il suo sacro dono alla città è descritto nel mito scolpito sul frontone occidentale del Partenone.
Talmente prezioso era l’olio, da costituire premio per i vincitori delle gare olimpiche. A contenerlo servivano, appunto, le anfore cosiddette “Panatenaiche” come quella in mostra sulla quale, a figure nere, fra due colonne sulle quali stanno due galli, simboli dello spirito agonistico, è dipinta Atena che regge uno scudo sul quale, in bianco su nero, è raffigurata una piovra.

Ulteriore dimostrazione del valore del prodotto della spremitura delle olive è la Pelike attica con dipinte figure nere intente alla compravendita dell’olio. Utilizzato come contenitore di liquidi, questo ulteriore modello di vaso ha imboccatura larga, profilo continuo col massimo diametro del corpo in prossimità del piede, al quale si unisce senza stelo. Ha due manici (anse) verticali a nastro o con costolatura centrale. Seduti su sgabelli pieghevoli sotto un albero, con ai piedi vasi ed un gatto, i due stanno misurando e versando l’olio servendosi di imbuti per Lekithos: anfora dal corpo allungato, stretto collo con un'unica ansa e ampio orlo svasato. Era utilizzata per versare l'olio e nelle cerimonie funebri. In conseguenza del prevalente uso funerario, furono eseguite anche lekythoi in marmo con rilievi, spesso utilizzate come segnacoli di tombe.
Molto curiosa la scritta, come un fumetto, che parte dalla bocca di uno dei personaggi e, tradotta, si rivela essere un’invocazione di benedizione economica per il successo negli affari: “Padre Zeus possa io diventare ricco”!


GIARDINO INCANTATO

Con ancora qualche limite nell’allestimento (per la posizione, al solito troppo bassa e la luce che abbaglia chi volesse ammirarne la decorazione anche sul lato posteriore) due grandi crateri a volute, antecedenti il 300 a.C. e provenienti da Paestum, aprono la sezione dedicata ai giardini incantati più noti della mitologia ed entrambi incentrati su un albero.

Uno è il faggio nel bosco sacro ad Ares (il corrispettivo greco di Marte, il dio della guerra e della violenza) sul quale il crudele re Eete, figlio di Helios e fratello della maga Circe, fece appendere il vello d’oro che gli era stato donato da Frisso, il fratello di Elle (già incontrata in una sala precedente), che l’aveva ricavato dall’ariete sul quale i due ragazzi erano fuggiti e che, appena messo piede a terra nella Colchide (l’attuale Georgia Occidentale affacciata sul Mar Nero), aveva sacrificato a Giove.
A vigilare notte e giorno su questa preziosa pelle Eete aveva posto un terribile serpente che Giasone, a capo degli Argonauti ed incaricato di recuperarla, non sarebbe mai riuscito a beffare senza l’aiuto delle arti magiche di Medea. Sul vaso è proprio rappresentata la scena in cui la figlia di Eete, innamorata dell’eroe, gli permette di impadronirsene addormentando il guardiano. Gesto per il quale non ricevette l’auspicata sempiterna riconoscenza perché Giasone, ingrato, dopo averla inizialmente portata con sé, l’abbandonò per un’altra amante.

Spostandoci al lato opposto del Mediterraneo, nell'estremo Occidente del mondo, nel giardino del Paradiso terrestre che si trovava oltre i confini della terra abitata, al di là delle colonne d’Ercole, si trovava un altro albero che produceva mele d’oro, dono di Gea per le nozze di Zeus con Era. Questo giardino era custodito dalle Esperidi, secondo i miti più accreditati ninfe (dal greco fanciulle) figlie di Atlante, il Titano che, poco distante, sorreggeva la volta Celeste.
Nel giardino, terminato il suo corso quotidiano, scendeva anche Helios, la divinità del sole, che vi lasciava a pascolare i cavalli del suo carro e con loro lì riposava durante la notte. Le Esperidi vengono così collegate al tramonto, quando i colori che assume il cielo ricordano, appunto, quelli di un melo carico di frutti dorati.
Sul vaso sono raffigurate intente in varie occupazioni e ad accudire Ladone, il serpente “super antifurto” che custodiva i pomi d'oro per volontà di Era avvolgendo l’albero con le sue spire e non chiudendo mai gli occhi. Anche in questo caso, tuttavia, l’eroe di turno, questa volta Eracle su incarico di Euristeo, il re di Micene che gli aveva imposto le 12 fatiche, riuscì comunque ad impossessarsene.
Secondo alcune tradizioni lo fece in maniera incruenta affidando il compito ad Atlante che, nell’occasione, sostituì temporaneamente nella punizione di reggere il mondo sulle spalle ma che, a missione compiuta, non voleva più saperne di tornare al suo posto!
Altri miti invece raccontano che il serpente venne ucciso da una freccia scoccata da Eracle e, per alleviare il dolore di Era, fu trasformato nell’omonima costellazione.
Il resto della storia racconta che i pomi d’oro, dopo vari passaggi, furono restituiti alla legittima proprietaria. Invece le Esperidi morirono disperate per la perdita del loro tesoro e del loro amato custode-protettore il giorno dopo il furto e gli Argonauti, nel frattempo arrivati anche qui, assistettero alla loro trasformazione in alberi: un pioppo nero, un salice e un olmo.

Non narrazioni di miti, ma fiori che in tralci e girali attorniano divinità e personaggi del mito emblemi di bellezza o semplici figure femminili, sono un’altra rappresentazione del giardino in mostra su altre ceramiche.
Dalla Situla (secchiello) apula sulla quale Adone emerge da un tralcio fiorito, al Phiale (piatto sostenuto su piede) con Teti tra girali o a quello con Afrodite fra tralci fioriti.

La dea dell’amore e della bellezza (detta anche Urania per la sua provenienza celeste ed identificata dai Romani con Venere) è poi protagonista indiscussa dell’anfora pestana (un Kantharos, o coppa) il cui decoratore, il cosiddetto “pittore di Afrodite”, prende il nome proprio da questo vaso. Vi dà infatti il suo meglio, con l’uso di molti colori, a sottolineare la rinascita della nuova vita, ed uno stile “barocco” che propone la dea come sospesa sopra un fiore e rivestita da un leggero velo trasparente mentre, accompagnata da due eroti alati, agita un tamburello e, calzando un paio di stivaletti rossi, con le gambe incrociate accenna un passo di danza.

Ma tra i girali compaiono anche animali, come la pernice sullo Skyphos (una tazza di piccole dimensioni, con breve labbro, vasca profonda ed anse orizzontali o oblique, impostate appena sotto l'orlo) apulo nello stile di Gnathia: antica città della Puglia, sulla costa adriatica, tra Bari e Brindisi, dove si rinvenne un gran numero di vasi, la maggior parte dei quali presentava caratteri omogenei e che perciò da essa presero il nome.
Fra questi la superficie interamente ricoperta da una vernice nera lucente con sovraddipinte decorazioni a motivi geometrici o ghirlande fitoformi di volute, meandri, palmette, foglie di alloro ed il ramo di edera resi con un colore bianco-giallognolo che prendono il posto delle scene figurate.

Il busto marmoreo di Talia (la musa che presiedeva commedia, poesia giocosa ed idillio) replica di età romana di un originale greco della fine del IV secolo a.C., con la sua corona di edera e vite introduce una sottosezione di raffinatissime corone in lamine d’oro finissimo che riproducono intrecci di rami, foglie e corimbi (infiorescenza semplice racemosa nella quale i fiori, pur avendo differenti punti di inserzione, terminano tutti alla stessa altezza) di varie piante, ciascuna caratteristica di una diversa divinità.
L’edera e la vite per Dioniso, il mirto per Afrodite e Demetra, la quercia per Zeus, l’alloro per Apollo e Kore (o Persefone), l’ulivo per Atena ed Eracle… Ritrovate in tombe dell’area di Salonicco, l’antica Tessalonica della Macedonia greca, documentano l’uso che ne fecero i Macedoni dal IV fino a tutto il I secolo a.C. per gli sposi, per le vittorie e come riconoscimento onorario nei simposi: la pratica conviviale che, presso Greci e Romani, faceva seguito al banchetto e durante la quale i commensali bevevano secondo le prescrizioni del simposiarca, intonavano canti e si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere.

L’affresco da Ercolano (del 20-10 a.C.) di una testa di fanciulla con serto di fronde è lo snodo della mostra che ci porta a passare all’epoca romana ed alla sezione successiva.


PITTURA DI GIARDINO (il verde reale e il verde dipinto)

Gli affreschi di tre pareti provenienti dalla Casa del bracciale d’oro di Pompei (30-35 d.C.) ci testimoniano il gusto pompeiano per la straordinaria identità naturalistica delle figure dipinte e tuttavia assemblate in modo per nulla realistico.

Questa raffigurazione di un giardino era caratteristica dell’oecus: un’ampia stanza o soggiorno delle case romane adibita al ricevimento degli ospiti o di riunione della famiglia che conteneva specie vegetali ed uccelli vivi e che ci dà indicazioni su com’era il giardino vero e proprio.

Anche in questo caso l’allestimento purtroppo pecca per il fatto che, se è comprensibile la volontà di distanziare opportunamente dai visitatori l’affresco (a sua tutela), il collocarvi davanti i veri pilastrini in marmo, sebbene esposti per ricostruire l’ambiente, risulta un impedimento ad una sua vista completa e piena.
L’ottima idea di distribuire al pubblico una riproduzione dell’affresco meglio conservato con una puntuale indicazione delle specie vegetali ed ornitologiche che vi sono raffigurate è infatti un invito a fermarsi per una visita botanica ed una sorta di birdwatching “al coperto”! Peccato soltanto che l’immagine sia stampata… al contrario! Errore che abbiamo comunicato ai curatori ed al quale ci si augura che sia stato posto rimedio nell’allestimento campano.
Ad ogni modo fra gli uccelli si riconoscono rondine, gabbiano, gazza, usignolo, averla, ghiandaia, pernice, nitticora, cornacchia… e fra le piante: arbusti quali corbezzolo (dai caratteristici frutti rossi), alloro, pittosforo, oleandro, viburno… alberi d’alto fusto come platano, pino domestico e palma da dattero… e fiori: pervinca, viola, rosa gallica, vilucchio, camomilla, papavero… tutti riprodotti con una precisione ed un dettaglio che saranno propri, molti secoli dopo, della sistematica scientifica naturalistica.

Ma negli affreschi in mostra sono presenti anche altri elementi del giardino. Fontane, colonnine, pilastrini con funzione di sostegno dei pergolati o supporto per erme di figure femminili ed infine, elemento più curioso per il pubblico dei “non archeologi”, gli oscilla. Questi ultimi erano rilievi in marmo di forma circolare che, appesi nel giardino, ondeggiavano mossi dalle brezze che vi spiravano.

Esempi reali di questi “arredi” in marmo sono presenti in mostra. Una colonnina avvolta da un bassorilievo di rami e foglie di edera rampicante (ma a volte potevano essere anche dipinte). Pilastrini a sezione quadrata o triangolare, con scolpite ornamentazioni vegetali, animaletti o forme geometriche. Ed un oscillum (da Pompei, I sec. d. C.) che “narra” la terza fatica di Eracle che doveva catturare, senza versarne il sangue perché sacra ad Artemide, la cerva di Cerinea dalle corna d’oro e gli zoccoli d’argento e bronzo.

Completano questa sezione dedicata al giardino in ambito romano diverse altre opere, senza un particolare legame fra loro ma ciascuna di indubbio interesse.
Si comincia con una stele funeraria in marmo dedicata a Fortunato: un topiarius, ovvero un “giardiniere”. Da questo vocabolo latino deriva l’espressione “ars topiaria”, caratteristica peculiare del giardino all’italiana, che consiste nel sagomare in forme obbligate piante sempreverdi come il bosso o il tasso.
La dedica che vi è incisa, con le caratteristiche abbreviazioni, è:

DM / FORTUNATI / TOPIARI / VALERIA UXOR / ET TERTIUS / DISCENS

che significa:

Al giardiniere Fortunato dedicano la moglie Valeria e l’allievo Terzio.

Rinvenuta a Como e risalente alla metà del I sec. d.C. la si può rivedere al Museo Archeologico di Milano.

Ancora in marmo sono un’urna cineraria con girali vegetali ed uno dei quattro rilievi collocati su una fontana antica a Palestrina.

Quest’ultimo, raffigurante una pecora che allatta il suo agnello davanti ad un paesaggio disteso e rilassante di campagna e stalle, è particolarmente importante sia per la tecnica scultorea adottata sia per la sua “poetica”.
Vi si apprezzano infatti due modalità diverse di realizzazione della pecora e del paesaggio, con la prima estremamente realistica nella resa del manto e la seconda più “sintetica”.
Per quanto invece riguarda il soggetto occorre ricordare che siamo in piena età augustea quando, dopo l’uccisione di Antonio, il suo ultimo avversario (Lepido era già stato messo fuori gioco in precedenza), Cesare Augusto è padrone dell’Impero e detta la parola d’ordine: Pace e prosperità.

Altro pezzo di grande pregio è l’anforisco pompeiano del 50 d.C. conosciuto come Vaso Blu. Se in generale l’anforisco è un'anfora di piccole dimensioni con piede a punta usata per la conservazione degli oli profumati, in questo caso la sua destinazione a contenere vino per i banchetti è evidente dalle immagini di vendemmia realizzate sulla sua superficie con la tecnica della lavorazione "a cammeo" di uno strato bianco opaco intagliato con motivi in rilievo su fondo traslucido in vetro blu.
Una maschera su cespo di acanto sul davanti ed eroti che raccolgono e pigiano l’uva mentre altri cantano e suonano arpe, flauti e siringhe immersi nel tripudio di una vegetazione rigogliosissima nella quale, fra tralci di vite e grappoli d’uva, si riconoscono altri frutti come pere, mele, ghiande e pigne invitano a godersi le gioie della vita immersi nella natura.
Nella fascia inferiore l’orizzonte poi si allarga, dal giardino, orto, frutteto alla campagna circostante identificata da alberi fra i quali si riconoscono pecore e capre.

Affreschi con fontane, maschere che spuntano fra foglie di vite e grappoli d’uva e festoni di foglie e frutti o intrecci di fronde di quercia… realizzati anche a mosaico avvolti da nastri completano la panoramica della pittura attinente la natura “domestica”.


DALLA NATURA AL PAESAGGIO (il paesaggio dall’ellenismo a Roma)

Dalla raffigurazione della natura nelle sue forme, riproposte con estrema esattezza, stilizzate per farne “percepire” la presenza come ambientazione di episodi narrativi, o semplicemente utilizzate a scopi decorativi… fin dal suo inizio e per tutto il I sec. d.C. (età di tutte le opere in mostra) in ambito latino si trovano già testimonianze di pittura di paesaggio: seppure non intesa come fedele rappresentazione di luoghi effettivamente esistenti bensì come forma di un paesaggio ideale.
Una scelta che, in questa sezione della mostra, si declina in diverse sottosezioni.


IL PAESAGGIO ESOTICO

La prima, e più curiosa per chi scrive, che potremmo definire “esotica” comprende diverse vedute e scene di ambientazione nilotica. Una terracotta ritrovata a Roma, presso la chiesa di Sant’Eusebio sull’Esquilino, ci propone un paesaggio in rilievo nel quale, inquadrati da due archi e nello scorcio di una visione prospettica in chiaroscuro, compaiono ippopotami, coccodrilli ed uccelli africani di fiume appollaiati sui tetti degli edifici.

Animali resi col consueto vivace realismo anche in paesaggi fluviali a mosaico di area vesuviana e ad affresco dalla Casa del Medico di Pompei.

Quest’ultimo, soprattutto, è animato da un’estrema dinamica nella raffigurazione delle diverse scene che vi coesistono. Con piccoli ometti di pelle scura che combattono contro animali mostruosi ed enormi che sembrano dinosauri, ed i rettili lo sono effettivamente, visto che in primo piano li vediamo affrontare e catturare coccodrilli (arrivando addirittura a cavalcarli) mentre, più in alto, da una barca nel fiume altri battagliano contro un ippopotamo che ha già ucciso uno dei cacciatori (lo si vede galleggiare senza vita in acqua), ne sta mezzo divorando un secondo, strappandolo all’imbarcazione che si sta rovesciando e sulla quale il suo compagno cerca di tenersi in equilibrio, intanto che un altro tenta di sfuggirgli a nuoto aggrappandosi alla vegetazione riparia e l’ultimo, in piedi sul dorso dell’animale, lo ferisce a colpi di lancia.


IL MITO

La seconda sottosezione propone ambientazioni di episodi mitologici.
Monumentale per dimensioni è un affresco da una domus romana sull’Esquilino in cui in due scene si racconta di Ulisse che combatte i Lestrigoni: popolo di giganti antropofagi che attaccano le navi greche non appena approdano alla loro terra. L’unica a sfuggire sarà quella dell’eroe dell’Odissea.

Come già visto sulla ceramica greca, anche in questo caso accanto ad ogni personaggio è scritto il suo nome in greco. Qualitativamente migliore il quadro sinistro nel quale spiccano le due figure femminili: una che scende il sentiero con un’anfora in mano, e la seconda sdraiata di spalle sulla spiaggia in una posa “quasi” manierista!
Il tutto in una baia accennata dagli specchi d’acqua che si intravvedono, con le navi alla fonda, semicoperti da grandi rocce sulle quali crescono alberi imponenti quanto gli abitanti di questa mitica regione che si ipotizza localizzata nella zona di Formia – 170 km a sud di Roma – o in Sicilia.

Altra scena, ancor più cruenta ed ambientata in bosco oscuro dal quale sembra impossibile fuggire, è il massacro dei Niobidi, i 12 figli di Niobe, figlia di Tantalo, che peccò di superbia vantandosi per la sua prole numerosa rispetto a quella di Latona che aveva messo al mondo soltanto Apollo e Artemide.
Questi ultimi, allora, vendicarono l’offesa alla propria madre uccidendo tutti i figli di Niobe.
Anche questo affresco è pompeiano ed estremamente movimentato nel turbinio di personaggi in fuga disperata e vana a cavallo ed a piedi inseguiti dalle spietate divinità evocate dagli animali ad esse correlati, come la cerva di Cerinea dalle corna d’oro sacra ad Artemide, che si può ipotizzare di identificare nel grande ungulato che troneggia sulla roccia al centro della scena e da dietro la quale spunta un feroce ed enorme cinghiale che, a sua volta, seppure in modo a chi scrive meno chiaro, potrebbe essere legato ad Apollo.

Altri paesaggi che fanno da sfondo a scene mitologiche, ma purtroppo ben poco leggibili per la cattiva conservazione dei relativi affreschi, sono: una montagna che sovrasta uno specchio d’acqua con un grande albero in primo piano per il mito di Atteone che spia Diana che fa il bagno con le compagne; lo scoglio-isola al quale è legata Andromeda col mostro marino che già arriva dal mare a ghermirla mentre dal cielo Perseo scende a liberarla; ed il paesaggio bucolico con edifici in rovina fra i quali cresce la vegetazione (una sorta di antesignano dei “capricci” sei-settecenteschi) nel quale Paride pastore sosta col suo gregge (foto a lato).

 

I LUOGHI POSSIBILI

Ultima nostra personale sottosezione, è quella con affreschi di paesaggi legati a luoghi reali o comunque “possibili”.

Molto simbolica, la raffigurazione del Vesuvio, assieme ad un serpente e Bacco rivestito di grappoli d’uva, dall’affresco del larario (la stanza dedicata al culto dei Lari, le divinità propizie alla casa) della Casa del Centenario di Pompei.

Più descrittivi i paesaggi fluviali con imbarcazioni. Molto bello quello pompeiano dal complessivo tono scuro dal quale emergono la piccola nave in primo piano con la vela quadrata tesa dal vento ed, in lontananza, edifici a portici con alle spalle, ben riconoscibili, cipressi e salici piangenti.
E qualcuno dice effettivamente rassomigliante ad Ercolano il “paesaggio con asino e barche” proveniente dalla città medesima.

Passando dal fiume al lago, un’altra rappresentazione, se non fotografica quantomeno verosimile, è il frammento di affresco con il paesaggio di uno specchio d’acqua circondato da rocce e sul quale si svolgono diverse scene di pesca.
Nella parte alta, una barca si accosta alla riva a spinta di remi mentre un membro dell'equipaggio, in acqua, la guida verso l'approdo tirandola con una fune.
Al centro una seconda imbarcazione procede veloce combinando all'azione dei rematori quella del vento che tende la vela quadra spiegata.
Nella parte inferiore ci spostiamo a terra dove, più che propriamente vederli, grazie ai pochi dettagli che ce ne restano, possiamo immaginare altri tre singoli pescatori.
Due sono placidamente seduti sulle sponde del bacino, in attesa che il pesce abbocchi all’amo delle loro lunghe canne da pesca: praticamente la sola parte sopravvissuta ai secoli, oltre a braccia e gambe di uno dei due e ad un piede e una mano dell'altro. Un terzo, invece, lo vediamo dalle ginocchia in su che si affaccenda nell’acqua bassa con un retino.
Tutte situazioni che potevano essere viste direttamente dall’artista che le ha dipinte così come dagli ospiti della Villa della Grotta di Catullo, 20.000 metri quadri su due piani con affaccio a picco sull’acqua, che sorgeva a Sirmione (BS) e dalla quale proviene l’affresco descritto.

Concludono la sezione un molto “moderno” affresco con un paesaggio monocromo ed il rilievo in marmo di un’antica città abruzzese: Marruvium, corrispondente all'attuale comune di San Benedetto dei Marsi in provincia dell’Aquila.
Pezzo, quest’ultimo, del II secolo d.C. e perciò più “recente” rispetto a tutti gli altri fin qui visti in mostra e nel quale sono rappresentati con grande dettaglio la porta monumentale che si apre nelle imponenti mura, il foro, i giardini e tanti altri particolari dell’agglomerato urbano.


NATURE MORTE

Finalmente una seduta! Dopo aver viaggiato attraverso i secoli ed il Mediterraneo osservando centinaia di opere… arrivato all’ultima sala il visitatore, fisicamente provato, accoglie la vista di una seduta come il marinaio il porto dopo una navigazione faticosa o il viandante la casa che si apre ad ospitarlo.
E proprio con l’ospitalità hanno a che fare le raffigurazioni pittoriche di questa sala, nature morte che nell’antichità ebbero molto successo in quanto riproduzioni di xenia: i doni che - come ci riferisce Vitruvio - il padrone di casa offriva agli ospiti sia al loro arrivo sia nel momento del congedo.
L’ospitalità per il viandante era, infatti, un principio fondante della cultura e della religione del tempo. Perché sotto le vesti dell’ospite poteva benissimo nascondersi un dio, e sono molti i miti che raccontano di benefici o terribili punizioni che gli dei concedono o infliggono agli umani a seconda di come la loro visita è stata accolta.

Presentandosi come quadri in false cornici, nel registro superiore delle stanze destinate all’accoglienza ed ai banchetti, sono un’esposizione di frutta fresca (pesche, fichi, uva, melagrane) o secca (noci, mandorle, nocciole) su mensole o in canestri con accanto piatti e vasellame.

A volte la frutta è accompagnata da volatili vivi (come la pernice accanto ad un grappolo di uva bianca dai grandi chicchi dorati o il gallo che sta beccando due grappoli di uva nera) oppure pronti per essere cucinati, ancora gallinacei e pernici… come quelle in primo piano in una sorta di pasto apparecchiato assieme ad una coppa con olive ed un piatto di pesciolini che ricordano quelli che si mangiano crudi, ma potrebbero anche essere fritti (sembra che questa pratica di cucina sia molto antica).

Altri soggetti di questa pittura possono anche essere uccelli e fiori, pesci (spigole e triglie) ed anatre, come quelli meravigliosamente raffigurati nel frammento di mosaico in mostra.

O, ancora, scene di ambientazione marina come il chiaroscuro dell’inestricabile massa di corpi, tentacoli e chele della lotta di un polpo con un’aragosta ed una murena che cercano vicendevolmente di sopraffarsi mentre attorno a loro, in serena, indifferente contrapposizione, nuotano altri pesci dipinti in movimento diagonale ascendente verso destra.

Quasi un’anticipazione di Morandi è, infine, la natura morta che accompagna ad una bottiglia una pagnotta.
In quest’ultima si riconosce perfettamente il cosiddetto “panis quadratus” con incisioni sulla parte superiore, al modo delle odierne michette milanesi, che lo rendevano più agevole da spezzare in diverse porzioni.

Di questo pane è in mostra una pagnotta vera, restituitaci carbonizzata dagli scavi di Pompei assieme ad altra frutta fresca e secca come fichi, datteri, mandorle, nocciole e noci che, per quanto la combustione ne abbia modificato l’aspetto originario, si distinguono ancora bene dal mallo che le avvolgeva.

Completano il quadro delle abitudini alimentari del tempo resti di aglio e cipolla, usati come condimenti ma anche a scopo terapeutico; orzo, miglio e farro, cereali coltivati dai Romani, e conchiglie che, oltre a testimoniare il consumo di pesci e molluschi, erano usate per decorare le fontane delle abitazioni più ricche.

Con frammenti di abiti e suole lavorati, e di tessuti vegetali - come la canapa - che ci indicano ancora altri generi di coltivazioni dell’epoca, si chiude il percorso strettamente archeologico della mostra ed anche il racconto che ne abbiamo fatto... visto che sull’ultima stanza preferiamo sorvolare.
Del resto a proposito di essa stessi curatori hanno ammesso che: “non prevista nel progetto di allestimento, è stata aggiunta solo alla fine, per colmare una sala rimasta tristemente vuota”.

Giovanni Guzzi, giugno 2016
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