Dopo gli italiani che suonano gli italiani, spostandoci il giorno successivo alla sala Verdi del Conservatorio ecco la dimostrazione degli intrecci culturali che, nei secoli, hanno intessuto l’Europa: grazie alla Musica che ha preceduto la Politica in un’opera che ancora tarda a compiersi pienamente. Scende, infatti, “in palco” la Germania. La formazione è di tutto rispetto, nientemeno che l’Akademie für Alte Müsik Berlin, e il programma è quello che ognuno vuole sempre ascoltare da questi musicisti: Johann Sebastian Bach, il Sommo!
Prima che il concerto abbia inizio, guardando gli strumenti già disposti in “scena” e dimostrando una non proprio eccellente preparazione musicale, una giovane donna accanto a noi in platea domanda alla madre che le siede accanto: “Ma quello là in mezzo è un clavicembalo o un pianoforte?” Inteneriti da tale candore (ma il valore di MiTo risiede proprio nell’intento di avvicinare alla Musica proprio chi non le è assiduo) la informiamo che si tratta di un clavicembalo. Al che lei, estratto il telefonino “intelligente” (troppo spesso più intelligente di chi lo possiede, affermazione assolutamente non riferita al caso che stiamo raccontando), si affretta a fotografare lo strumento affermando che “non ne esistono più”, nonostante quello che sta vedendo dimostri esattamente il contrario!
E tuttavia, con il suo interesse la signora aveva già individuato il protagonista del primo brano. Accompagnati da un applauso iniziale “sulla fiducia” pari all’aspettativa che chi ne conosca la fama si attende da loro, i componenti l’Akademie entrano in sala ed eseguono il Quinto Brandeburghese per flauto, violino, clavicembalo, archi e continuo BWV 1050 con una naturalezza che lo fa sembrare un brano semplicissimo. È proprio vero che le vere dimensioni della grandezza dei grandi non la si percepisce in assoluto ma dal confronto con i loro “pari”, e proprio quando davvero pari non sono.
Tornando al clavicembalo, in questo concerto emerge per la prima volta come strumento solista e non, come era stato fino a quel tempo, come strumento d’armonia. Una volontà esplicita, quella di Bach, dimostrata dall’ampia cadenza che gli riserva in coda all’Allegro iniziale. Al tempo era usuale che fosse improvvisata dall’esecutore, invece qui Bach la scrive per intero, concedendole un tempo smisurato nel quale rielabora i materiali musicali già ascoltati in precedenza. Con queste premesse l’applauso che interrompe la continuità del brano tripartito è, in un certo senso, inevitabile.
Nel successivo Affettuoso i tre strumenti solisti intrecciano un gioco di rimandi che riecheggia i modi del Concerto italiano che Bach ben conosceva per averne assimilato lo stile “alla moda” allo scopo di riproporlo con una ricchezza contrappuntistica fino ad allora sconosciuta.
Infine l’Allegro conclusivo, per lo stile fugato al ritmo di Giga rimanda all’analogo tempo del Concerto in La Minore per violino BWV 1041 (anch’esso in programma), rispetto al quale c’è però l’inversione della tradizionale relazione fra orchestra e solisti: qui sono questi ultimi ad esporre il materiale musicale e solo in un secondo momento l’orchestra entra in dialogo con loro.
Nel suo complesso sitratta di un’opera capitale nella storia della musica ed infatti il pubblico se ne rende conto e non appena è risuonata l’ultima nota, deposti i binocoli (di chi con essi seguiva da vicino i movimenti dei musicisti) ed i tablet (di chi vi seguiva la partitura musicale) è tutto uno scrosciare di applausi e lampeggiare di flash dei telefonini per scattare foto ricordo.
E dire che non è ancora “scesa in campo” la “star” della serata. Ma eccola, dunque, anch’essa proveniente dalla Germania, Isabelle Faust entra in sala e, un cenno al primo violino (per questo repertorio non è previsto un direttore sul podio ed a dettare i tempi è il Maestro concertatore), subito attacca il primo dei Concerti per Violino in programma: BWV 1042 in Mi Maggiore. Questo ed il già sopra citato sono fra le poche testimonianze che sono arrivate fino a noi della produzione orchestrale di Bach. Visti i risultati viene da piangere al pensiero di quello che ci siamo persi! Costruiti secondo lo schema classico del concerto barocco presentano un’ampia introduzione orchestrale che espone temi ed armonie poi rielaborate dal solista che, per tutta la durata del brano, letteralmente “duella” (la parola concerto ha origine nel vocabolo latino certamen che significa combattimento) con l’orchestra che ne punteggia l’esecuzione.
La Faust tiene fieramente testa ai colleghi che la circondano: a volte fisicamente acquattandosi si piega sulle ginocchia quasi come se volesse prendere lo slancio per tendere loro un agguato, a volte il suo gesto sembra ricamare con l’archetto sulle corde dalle quali, infatti, ricava arabeschi sonori che lancia fra il pubblico come lampi luminosi intonati ai lampi di colore che accendono il semplice abito che indossa.
Nei tempi lenti centrali, splendidi cantabili ai quali i concerti devono la propria fama immortale, i suoi fraseggi sono ampi e con i movimenti del corpo li asseconda mentre una figura ritmica ricorrente dei soli archi è la piattaforma sonora dalla quale si eleva la melodia che testimonia il debito pagato dal compositore alla musica italiana.
Questa volta, al termine del brano il pubblico ha quasi paura di applaudire, teme quasi di disturbare e solo quando la solista, invece che semplicemente porgere la mano al primo violino come è d’uso, gli getta le braccia al collo e, dopo di lui, abbraccia anche il maestro al cembalo, allora prende coraggio e si lascia di nuovo andare a manifestare quanto abbia apprezzato l’esecuzione.
A dire la verità in sala qualcuno obbietta che la “formazione è un po’ datata, sono ancora i membri della prima ora” e “non ha più lo smalto di inizio anni ‘80” quando i suoi componenti ponevano le basi del loro attuale successo planetario.
Ma questo è solo un inciso inserito per “dovere di cronaca”.
La maggioranza del pubblico è ben felice di richiamare per ben tre volte la Faust in scena, che ogni volta vi ritorna quasi come se camminasse sull’acqua e finalmente concede l’invocato bis per l’esecuzione del quale gli orchestrali le lasciano l’intero palcoscenico e, curiosamente ed inusualmente, abbandonano i propri posti per andare ad accomodarsi sulle sedie e sulle gradinate che lo circondano.
Se non fosse che la produzione di J.S. Bach è sconfinata, questa sera si potrebbe proprio dire di aver potuto “ascoltare tutto quello che avremmo voluto sapere di Bach”. Il brano previsto per il gran finale, infatti è la Suite ouverture orchestrale n. 3 BWV 1068 in Re Maggiore che, dopo l’Ouverture, dalla quale prende nome l’intera forma musicale, tripartita nello stile francese (introduzione lenta e solenne con ritmo puntato, fugato in tempo più mosso e ripresa conclusiva del tempo lento), include la celeberrima “Aria sulla quarta corda”. Denominazione che non deve essere attribuita a Bach ma dipende dal suo essere stata armonicamente trasportata all’ottava inferiore dal violinista tedesco August Wilhelmj (1845-1908) per poterla suonare tutta sulla quarta corda del violino con maggiore effetto legato.