L'Eclettico



Lascia ch'io pianga... e che sospiri



L'ECLETTICO - web "aperiodico"

LASCIA CH'IO PIANGA... E CHE SOSPIRI

Nella vita di ognuno c'è una "cruda sorte"


“Grazie di essere venuto” mi dice Chiara (Granata) arpista dell’ensemble La Lira di Orfeo, quando vado a salutarla al termine dello splendido concerto che ha tenuto nella Sagrestia Monumentale della Basilica di San Marco assieme al tiorbista Gabriele Palomba ed al controtenore Raffaele Pe.
Fanno davvero tenerezza, e sono commoventi, i musicisti. Hanno appena offerto al pubblico un’esibizione di tale intensità da non far risultare eccessivo l’aggettivo “memorabile”, che non si può fare a meno di accostarle, e… ringraziano chi è andato ad ascoltarli!

Siamo noi che ringraziamo te, Chiara, e con te i tuoi colleghi di palco, per aver portato nella nostra Milano contemporanea, attraverso la musica di cui è stato protagonista, Gualberto Magli: cantore, arpista e attore nato a Firenze, cresciuto artisticamente alla corte medicea ed attivo nelle principali corti italiane ed europee nel primo ventennio del 1600.

Infatti il recital di questo feriale pomeriggio ci ha portati proprio a girovagare musicalmente da Firenze, a Mantova, a Napoli sulle tracce sonore di questo cantore evirato dalla voce straordinaria, contesa dai Principi mecenati del tempo, e diventato addirittura un blasone politico al punto da essere inviato come pegno dal Granduca di Toscana al Margravio (titolo germanico equivalente al marchese in ambito latino) di Brandeburgo.

Si parte, ovviamente, da Firenze, con un brano strumentale di anonimo, La Monaca, per arpa e tiorba, emblematico della piega che al passaggio fra XIV e XV secolo anche la musica strumentale stava prendendo: “virando dall’intreccio di voci del contrappunto ad un linguaggio più espressivo e allo stile rappresentativo” (Marta Cattoglio). Una rivoluzione musicale ancor più clamorosa nell’ambito vocale dove la monodia si affrancava dalle complesse orditure di voci allo scopo di emozionare e commuovere il pubblico e, con l'innovativo stile del “recitar cantando”, poneva le basi per la nascita del dramma per musica.

Laboratorio di queste nuove tendenze era la Camerata de’ Bardi, cenacolo di nobili che si riuniva nella casa del conte Giovanni Bardi e frequentato da Giulio Caccini, autore de Le nuove musiche (1602), raccolta di arie a voce sola dalla quale proviene il secondo brano in programma: il madrigale Amarilli mia bella.

Amarilli mia bella
Nò credi ò del mio cor dolce desio
D' esser tu l' amor mio
Credilo pur, è se timor t' assale
Prendi questo mio strale
Aprim' il petto, è vedrai scritto il core
Amarilli Amarilli Amarilli e'l mio amore
Amarilli e'l mio amore.

Amarilli vuol dire meraviglia ed anche Raffaele Pe sorprende il pubblico “prendendolo alle spalle” scegliendo l’entrata in scena dal fondo della sala. Un espediente teatrale ormai non più così originale che però, in questa occasione, ha una grande efficacia artistica in quanto enfatizza notevolmente l’effetto su chi ascolta di un così particolare timbro vocale (ben diverso rispetto a quando queste stesse note sono intonate da una voce femminile), e quando gli occhi vedono che questa voce appartiene ad un uomo la sorpresa è notevole e gli applausi scrosciano immediati e copiosi a scena aperta; mentre il cantante sorride compiaciuto per essere riuscito in modo ottimo nel suo intento: il pubblico è già ai suoi piedi e pienamente conquistato!

Un effetto che non doveva essere diverso ai tempi di Magli quando si otteneva chirurgicamente quanto oggi consentono la tecnica e lo studio. Presentando i brani successivi, Raffaele Pe racconta di aver scoperto dell’esistenza di Gualberto Magli per averlo trovato citato nella biografia di Monteverdi che, appositamente per lui, ha scritto un ruolo nell’Orfeo: facendogli impersonare proprio la Musica che, nei versi di apertura dell’opera, programmaticamente canta:

Io la Musica son, c’hai dolci accenti,
so far tranquillo ogni turbato core,
ed or di nobil ira ed or d’amore
Poss’infiammar le più gelate menti.

Grandioso Monteverdi, ed alla sua altezza gli interpreti de La Lira di Orfeo. Da sottolineare quando, nella strofa immediatamente successiva, mentre la Musica canta “Io, su cetera d’or, cantando soglio…” le note pizzicate dall’arpa sembrano davvero essere note d’oro!

Ancora un breve stacco dell’arpa, dal solo che precede l’aria “Possente Spirto”ed eccoci proposto all’ascolto in questo pomeriggio milanese un secondo ruolo, ancora dall’Orfeo, che Gualberto ha di sicuro cantato: quello di Proserpina; se ne ha notizia certa almeno per quanto riguarda la prima rappresentazione dell’opera, a Mantova, nel 1607.

L’ambito germanico è strumentalmente rappresentato dalla Toccata arpeggiata di Johannes Hieronimus Kapsberger alla tiorba che introduce il celebre sonetto “Solo e pensoso” dal Canzoniere di Francesco Petrarca: musicato in forma di Passacaglia e secondo lo stile del tempo di Magli da Alessandro Ciccolini, violino di spalla dell’ensemble dei Turchini.
Una meraviglia, il sonetto, che non ci si può esimere dal riportare per comodità ed elevazione dei lettori

Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l'arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d'alegrezza spenti
di fuor si legge com'io dentro avampi:

sì ch'io mi credo omai che monti et piagge
e fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch'è celata altrui.

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io collui.

Una meraviglia anche la musica, visto che al termine del brano gli applausi non finiscono mai!
A dire il vero chi scrive non ha avuto la stessa entusiastica impressione. Siamo forse meno sensibili di chi ci siede accanto? O forse, pur ammettendo i limiti della nostra personale dote di talento musicale, abbiamo colto la sottile, inevitabile, differenza fra il resto del programma musicale ed un’opera, per quanto in stile, frutto di una sensibilità contemporanea.
Resta un dubbio: avremmo avuto le stesse perplessità se non fossimo stati avvertiti in anticipo che quel che avremmo ascoltato è quel che in gergo musicale viene definito un “calco”? Chissà.

Confessiamo di aver apprezzato maggiormente i successivi passaggi da Napoli, con la Toccata seconda per arpa di Giovanni Trabaci - più noto per le sue composizioni per tastiera e divenuto celebre per il suo stile contrappuntistico pienamente barocco e il suo pioneristico uso delle dissonanze - ad introdurre altre due significative testimonianze del nuovo stile espressivo che si andava affermando.
La prima “Hor che la notte ombrosa” del leccese Girolamo Montesardo: cantore in San Petronio a Bologna e Maestro di cappella a Fano ed Ancona, fu autore del primo vero trattato sulla chitarra barocca e nella sua produzione ha alternato brani polifonici ad una collezione monodica alla quale ha partecipato lo stesso Caccini. Nel brano in programma, voce e strumenti enfatizzano, sottolineandolo, il gioco poetico del dialogo con l’Eco alla quale il sofferente per amore si rivolge. Restano particolarmente impressi nella memoria i ripetuti gorgheggi di Raffaele Pe, imitati dall’arpa, sulla parola finale: Addio.
Una tristezza riscattata dall’ultima composizione in scaletta di cui è autore il napoletano Francesco Lambardi: “O felice quel giorno”.

O felice quel giorno
ch’a voi feci ritorno
poiché siete pietosa
non più sdegnosa.

O soave l’ardore
ch’io sentiva nel core,
hor son lieto e contento
fuor di tormento.

Cara Filli mia bella,
più lucente, che stella,
fammi presto gioire,
e poi morire. Orfeo

Davvero è stato un meraviglioso concerto, con una sola pecca… che sia finito troppo presto! Costretto ai “doppi turni” dalla capienza ridotta della sala insufficiente a contenere tutti gli interessati ad assistervi.

Appassionati premiati con un bis di rara intensità. Già dai primi accordi dell’introduzione strumentale il pubblico riconosce immediatamente la melodia del brano che si annuncia… "Lascia ch’io pianga", dal Rinaldo di Haendel le cui note, serpeggiando fra i presenti, producono meraviglie.
Il nostro sguardo sorprende un’anziana spettatrice con una mano sulla bocca aperta a trattenere l’attesa come fosse tornata bambina al momento di scartare i regali la mattina di Natale…

Lascia ch'io pianga
mia cruda sorte,
e che sospiri
la libertà.

E dal fondo della sala si alza il grido “Bravo, bravissimo!”

Il duolo infranga
queste ritorte
de' miei martiri
sol per pietà.

Ormai nella sacrestia del Bramante in San Marco non c’è più nessuno, ognuno è rapito in un proprio “altrove”, perché nella vita di ognuno c’è una “cruda sorte” ed ognuno ha una sua libertà per la quale sospirare.

Giovanni Guzzi, settembre 2015
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