L'Eclettico



Collezionismo di Dante in Casa Trivulzio: un viaggio nel tempo e nella storia del libro



Il racconto della mostra al Castello Sforzesco di Milano

L'ECLETTICO - web "aperiodico"

COLLEZIONISMO DI DANTE IN CASA TRIVULZIO: UN VIAGGIO NEL TEMPO E NELLA STORIA DEL LIBRO

Il racconto della mostra al Castello Sforzesco di Milano


Raccontare una mostra significa associare parole a immagini: la parte visiva e quella discorsiva contribuiscono allo stesso grado a creare il senso dell’esposizione. Questa massima non è mai tanto vera quanto per una mostra di libri antichi quale è “Il collezionismo di Dante in Casa Trivulzio”, esposta nella Sala del Tesoro (cortile della Rocchetta) del Castello Sforzesco a Milano, fino al 22 novembre e curata dalle dott.sse Isabella Fiorentini e Marzia Pontone (orari ed info al sito della mostra).

Il percorso (illustrato dalle ottime presentazioni offerte da studentesse del Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Torino, che lo rendono accessibile anche agli "analfabeti" della materia, che a torto si riterrebbe ostica per i non addetti ai lavori - NdR), si articola attraverso sette vetrine e venti esemplari tra manoscritti ed edizioni a stampa, dal Fondo Trivulziano dell’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana, accompagnando il visitatore in un vero e proprio viaggio nel tempo e nella storia del libro.

LA FILOLOGIA, UN ANTIDOTO
Per comprendere al meglio l’esposizione è necessario fare una piccola premessa: come si sono trasmessi fino a noi i testi antichi, prima dell’invenzione della stampa? Attraverso copie manoscritte: come si può immaginare, si trattava di un processo compiuto in condizioni non ottimali, da copisti più o meno colti e consapevoli, e portava inevitabilmente al moltiplicarsi degli errori da una trascrizione all’altra, in maniera direttamente proporzionale rispetto al numero di copiature che l’opera subiva.
Con il passare degli anni e dei secoli, al crescere costante degli errori si somma la scomparsa, per le più varie ragioni, dell’esemplare originale o di quelli a lui più vicini: per avvicinarci al nostro caso, non possediamo alcuno scritto originale di Dante vergato dalla sua mano (detto autografo).
Arriva, così, un momento nel quale è necessario fermarsi e chiedersi: quando siamo di fronte a un testo, siamo davvero sicuri di star leggendo quello che l’autore scrisse?
Antidoto contro questo processo degenerativo è la filologia, lo studio dei testi e dei loro errori, che si pone come obbiettivo proprio la risanatura di un’opera alla ricerca della lezione originale, cioè della variante corretta tra le tante offerte dai suoi testimoni, vale a dire i manoscritti (o codici) e le edizioni a stampa.
Questa disciplina è più antica di quanto si possa pensare (i primi filologi risalgono all’età ellenistica) ma per quanto ci interessa ora, cioè per le opere dantesche, si può dire che sia nata verso la fine XVIII sec. - inizio XIX sec.

SORPRESA
In accordo cronologico con questa nascita, si apre l’esposizione: è quasi inaspettato per una mostra che, ad una prima rapida occhiata, sembra vertere sul tema di Dante, trovare nella prima vetrina alcuni esemplari ottocenteschi.
In realtà, infatti, la mostra non è focalizzata sul Poeta in senso stretto, bensì sulla storia della tradizione della sua opera, collezionata e studiata dai Trivulzio, nobile famiglia milanese di uomini di stato (si pensi a Gian Giacomo Trivulzio il Magno, 1440-1518) e collezionisti.
La figura del Marchese Gian Giacomo Trivulzio (1774-1831), accademico della Crusca, amico di Vincenzo Monti e tra i protagonisti dell’animato clima culturale della Milano del primo Ottocento, è particolarmente rilevante ai fini della mostra per la dedizione che tributò all’opera di Dante. La sua passione lo portò ad ampliare il già consistente scaffale dantesco nella libreria di famiglia guardando, però, alla sua opera come oggetto non solo di collezionismo da Wunderkammer ma anche di studio letterario e filologico.
La prima vetrina stringe il senso della mostra, esponendo i frutti più alti del lavoro filologico di Trivulzio e dei suoi collaboratori, gli “editori milanesi” (tra cui anche Vincenzo Monti), l’edizione del Convivio e quella della Vita Nuova.
Il primo pezzo esposto (Triv. 1069) è un manoscritto redatto anteriormente al 1826, lavoro svolto in preparazione al secondo esemplare (foto a lato), l’edizione a stampa del Convivio per i tipi della Pogliani, casa editrice milanese con sede nella stessa piazza Sant’Alessandro sulla quale si affaccia ancor oggi anche il palazzo dei Trivulzio (perfettamente conservato, nonostante i bombardamenti, grazie alle cure degli eredi Brivio Sforza; che si possono contattare per strappare il permesso per una visita - NdR). Tale edizione, il Convito di Dante Alighieri, ridotto a miglior lezione (e già nel titolo si può vedere l’intervento degli editori sul testo), è a sua volta un pezzo preparatorio alla redazione finale e definitiva per la casa editrice Minerva di Padova: il lavoro di Trivulzio rientrava infatti nel più ampio piano editoriale di quest’ultima che, data alle stampa nel 1822 la Commedia, aveva affidato agli editori milanesi la cura delle altre opere dantesche.
Nei fatti, però, il Convito è stato l’unico lavoro davvero portato a termine: infatti l’altra edizione a stampa, realizzata sempre per i tipi della Pogliani (esposta come quarto esemplare di questa prima vetrina) non vide mai la sua redazione padovana definitiva: si tratta della Vita Nuova di Dante Alighieri, ridotta a lezione migliore (Triv. E 296) che, a dimostrazione dell’insoddisfazione del Marchese per il suo lavoro, mostra nei margini diverse postille con correzioni, apportate da Trivulzio stesso.

Ma come lavoravano gli editori milanesi? Il primo manoscritto è un eccellente esempio: si presenta come un quaderno a righe con i fogli piegati a metà e, mentre nella colonna di destra è riportato il testo del Convivio secondo un’edizione settecentesca, a sinistra sono annotate le varianti che gli studiosi potevano trovare nel manoscritti in loro possesso o nelle altre opere a stampa che avevano consultato. Nel caso della Vita Nuova è possibile osservare in mostra uno dei due manoscritti utilizzati per svolgere questo lavoro detto di collazione, cioè di confronto: è il terzo esemplare della vetrina (Triv. 1058) risalente al 1425, prodotto nell’area di Treviso e acquistato da Trivulzio nel 1817. Nell’Ottocento curare un’edizione non richiedeva, come oggi, lo spoglio e il confronto integrale di tutti i codici esistenti dell’opera interessata: ci si poteva basare anche solo su pochi esemplari, quelli facilmente consultabili. Inoltre era stimato più l’apporto dell’ingegno dell’editore che la lezione del testo antico tramandata nel codice.

IL FIUTO DEL SEGUGIO
Il collezionismo, comunque, non si esaurisce con l’interruzione dell’attività filologica e riguarda tutte le opere di Dante. La seconda vetrina offre in apertura un pezzo che mostra la grande abilità e raffinatezza di Trivulzio: egli riuscì a riconoscere un volume di così grande valore come il manoscritto su carta del De Vulgari Eloquentia di fine XIV sec. (Triv. 1088) e ad impossessarsene in seguito alla soppressione degli enti ecclesiastici in Veneto, voluta da Napoleone nel 1797, che portò alla dispersione dei patrimoni delle loro biblioteche.
La sua importanza è duplice: per la tradizione del testo, poiché si tratta di uno degli unici tre codici primari (ovvero di cui non possediamo il modello da cui furono copiati - gli altri due sono a Grenoble ed a Berlino NdR) che ci trasmettono il testo del famoso trattato linguistico e letterario dantesco (redatto in caratteri gotici, o littera textualis, vedi sotto - NdR); e per la sua storia personale, poiché fu posseduto, tra gli altri, anche dall’umanista Gian Giorgio Trissino (1478-1550) che, ritrovando questo esemplare, riscoprì il De Vulgari Eloquentia, fino ad allora sconosciuto per via diretta.
Curiosamente, l’opera tornò alla luce in un periodo in cui le discussioni attorno alla lingua italiana animavano vivacemente i dibattiti degli intellettuali. Trissino decise di non pubblicarlo nella sua versione originale in latino, forse per meglio porlo al servizio delle sue teorie linguistiche e temendo una cattiva reazione degli umanisti al latino medievale dantesco; lo diffuse, però, nella sua traduzione italiana, dandola alle stampe a Vicenza nel 1529 (secondo esemplare di questa vetrina, Triv. C 761/1).
Particolarità del Trissino riconoscibile sia nel manoscritto che nel frontespizio dell’edizione è la calligrafia: egli fu inventore e promotore di una non fortunata riforma ortografica che avrebbe voluto la differenziazione dei suoni aperti e chiusi delle "e" e delle "o" attraverso l’impiego delle lettere greche "ε" e "ω".
(Un esempio di ciò è visibile sulla sinistra della foto: l’autografo di Trissino che riporta un estratto dalla Vita di Dante di Boccaccio sul verso della guardia antica - NdR).

Il terzo esemplare della vetrina dimostra come la passione per Dante non si fermò con la morte di Gian Giacomo ma continuò con i suoi eredi: questa copia cinquecentesca della Monarchia entrò nel patrimonio di famiglia come parte della dote di Giulia Amalia Barbiano di Belgioioso, in seguito al matrimonio contratto con Gian Giacomo iunior, negli anni Sessanta dell’Ottocento. È un codice tardo, cinquecentesco, per nulla sfarzoso: si potrebbe pensare che non si tratti di un testimone di grande pregio. Al contrario, lo è.
La causa dell’aspetto dimesso del codice è la particolare storia dell’opera: il trattato politico dantesco fu ben presto condannato al rogo (1329) e, in seguito, posto all’Indice, così che la sua diffusione dovette sempre avvenire in maniera clandestina. Forse, però, è proprio la difficile trasmissibilità dell’opera che dobbiamo ringraziare se il testo di Triv. 642 è così corretto e conservativo: chi ne redigeva una copia, infatti, doveva essere mosso da un interesse reale per il testo, motivato più da ragioni di studio che di collezionismo erudito.
È il libro stesso a raccontarci la storia della tradizione della Monarchia: come nascosta all’interno del manoscritto (che contiene molti altri scritti), nei fascicoli finali, è senza decorazioni o miniature e soprattutto senza titolo, aggiunto da una mano successiva. Alcuni indizi, inoltre, ci permettono di capire che il modello impiegato era probabilmente trecentesco: un motivo in più che rende eccezionale questa copia.

LA COMMEDIA
Dalla terza vetrina in poi l’attenzione è catalizzata dalla Commedia: il percorso tra gli esemplari esposti diventa un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio, alla scoperta di come poteva presentarsi e di come è cambiata la forma libro dell’opera dantesca per eccellenza (l'aggettivo Divina le venne accostato per la prima volta da Boccaccio per evidenziarne l'ispirazione ultraterrena e la natura teologica; questa felice intuizione venne ripresa nel '500 dal letterato senese Claudio Tolomei e, influenzato da questi, lo stampatore veneziano Lodovico Dolce la pubblicò con il titolo che conosciamo nel 1555 - NdR).

Questo viaggio non poteva che iniziare con uno dei più antichi manoscritti conservati della Commedia: si tratta del Triv. 1080 (su pergamena), risalente al 1337 e datato con certezza. Esistono solo due manoscritti probabilmente anteriori a questo (uno del 1336 e un altro del 1334, ma la datazione è discussa).

Nuovamente, una breve parentesi è necessaria: Dante terminò di scrivere il Paradiso nel 1321, anno della sua morte, ma quasi certamente Inferno e Purgatorio circolavano autonomamente già dagli anni Dieci del secolo: nel 1321 però, le tradizioni del testo “in vita” e “in morte” dell’opera si fondono, dando vita al poema unico. Non conserviamo alcun manoscritto risalente al quindicennio che intercorre tra questa data simbolica di inizio della diffusione dell’opera intera (1321) e il decennio successivo (1334-1336).

In ogni caso, l’eccezionalità di Triv. 1080 risiede anche nel fatto che conosciamo il nome del copista che la redasse, Francesco di Ser Nardo da Barberino, e la città in cui operò, proprio Firenze: questo assicura che anche la veste linguistica sia molto simile a quella dell’originale (non si tratta di un dato da dare per scontato). Questo codice fu studiato e ammirato da tutti i filologi che si sono interessati a Dante e spesso fu ritenuto il migliore, il codex optimus per eccellenza (il cui testo è quello dell’antica Vulgata prima della Rieditio boccaccesca - NdR).
Si sommano ai pregi testuali quelli artistici: le splendide miniature sono da attribuire al Maestro delle Effigi Domenicane. Le tre cantiche sono introdotte ciascuna da una grande iniziale abitata. Per Inferno e Purgatorio vi è rappresentata la figura del poeta accompagnato da Virgilio, invece per il Paradiso (la pagina sulla quale in mostra è aperto il volume - vedi foto sopra NdR) la scena è quella dell’incoronazione della Vergine davanti alla corte celeste, in parallelo con il bas de page nel quale, a sua volta, Dante stesso riceve dal cielo la corona laurea. Il margine di queste pagine incipitarie è incorniciato da un fregio vegetale colorato con bottoni e foglie in oro, ulteriormente arricchito da scene narrative.
Nel Paradiso anche da medaglioni con busti di angeli, cherubini (alcuni dei quali scacciano demonietti che fuoriescono dalla bocca di anime sospese su nuvolette) e un Cristo benedicente in alto al centro. Ciascun canto è introdotto da una maiuscola di penna filigranata a colori alternati blu e rosso, con filigrane anch’esse a colori alternati rosso (per l’iniziale blu) e viola (per l’iniziale rossa); ogni canto è inoltre preceduto da una rubrica in rosso (che prende il nome proprio da quello latino del colore rosso utilizzato: ruber - NdR), e le singole terzine sono individuate da maiuscole aggettanti ritoccate in giallo paglierino.

Dando una rapida occhiata anche agli altri due esemplari della vetrina (Triv. 1077 e 1078) si possono notare impressionanti somiglianze: tutti e tre i manoscritti sono stati redatti a Firenze prima del 1350, sono di formato medio grande, in pergamena, su due colonne (lasciando bianca la pagina sinistra quando la scrittura non la riempie per intero - NdR), scritti con la stessa calligrafia detta cancelleresca (è la grafia dei notai, della burocrazia, dell’alta borghesia: il primo pubblico di Dante) e con miniature incredibilmente simili e ricorrenti.
In realtà, siamo in possesso di numerosissimi codici che seguono questi stessi moduli di impostazione grafica e decorativa. Già dal Cinquecento circola una leggenda al proposito, la leggenda dei Danti del Cento: un copista, bisognoso di denaro per poter fornire una dote alle sue figlie, si sarebbe procurato il necessario ricopiando cento volte la Commedia e rivendendola.
Ovviamente, si tratta solo di una leggenda, ma è abbastanza eloquente per cogliere un aspetto della realtà: a Firenze, nella prima metà del XIV secolo esisteva uno standard editoriale per la produzione della Commedia, che conobbe fin dai suoi esordi un successo incredibile.
Al lettore del tempo l’opera risultava riconoscibile al primo impatto.

LA PESTE E LA DIFFUSIONE AL NORD
Nella seconda metà del Trecento accanto alla riproduzione dei modelli del passato se ne propongono altri, meno prestigiosi. Questo cambiamento, ben illustrato dalla quarta vetrina, è da attribuire da un lato alla peste del 1348 che si portò via un’intera generazione di copisti e miniatori, e con essi il loro sapere tecnico, e dall’altra all’emergere di altre aree di produzione: se il primo manoscritto (Triv. 1079), che è ancora di area toscana, ripropone stancamente su pergamena e con alcune differenze il modello dei Cento (sono ancora presenti l'impaginazione su due colonne e le alternanze dei segni di paragrafo in colore blu o rosso fuori dal testo accanto alle iniziali; mentre si riduce di molto l'apparato decorativo ed il testo è impaginato senza soluzione di continuità: con l'inizio della nuova cantica - in questo caso del Purgatorio - che segue senza lasciare spazi bianchi il finale della precedente sulla pagina sinistra - NdR) con gli altri due ci spostiamo in area settentrionale, emiliano veneta (Triv. 1047) e lombarda (Triv. 1076).

Triv. 1047, del 1372, è il prodotto di un copista per passione, non professionista di nome Donato, su supporto cartaceo, dunque meno prestigioso della pergamena e con un nuovo tipo di miniature a inchiostro e non a tempera (la mostra ne presenta una con scena di caccia di un cane che azzanna un cervo - NdR).
Ancora da notare, le decorazioni di Triv. 1076, di modello francese, secondo gli stilemi decorativi dei romanzi cavallereschi: proprio la Lombardia, infatti, era la regione italiana attraverso cui la cultura francese penetrava nel nostro territorio. L'autore è individuato nel Maestro del de Natura Deorum, un seguace del modello di Giovannino de’ Grassi (già incontrato in "dai Visconti agli Sforza"). Nell'immagine qui riprodotta si riconoscono Dante, in verde, e la sua guida Virgilio, con tunica blu e manto rosa, che incontrano Paolo e Francesca.
In entrambi i manoscritti, si vede chiaramente l’affermarsi del modello a colonna unica, nonché una variazione nel tipo di calligrafia adottata: alla cancelleresca si sostituisce poco per volta la littera textualis, altrimenti detta gotica, cioè la scrittura libraria (forse anche per via dell'uso di una penna con la punta tagliata grossa - NdR).

A beneficio dei lettori non filologi, può essere utile illustrare come si distinguono i caratteri gotici (o littera textualis) da quelli della scrittura cancelleresca. La differenza che chiunque può subito notare è che la seconda è più “arrotondata” e ci fa pensare alla nostra scrittura corsiva. Ed è proprio questo aspetto a differenziarle. Infatti la gotica è una scrittura libraria, quindi posata, non corsiva, caratterizzata dalla presenza di molte linee verticali (la parola "uomini" per esempio sarebbe quasi una sequenza di trattini) mentre la cancelleresca è corsiva, quindi ha più legature tra le lettere, aste molto allungate, andamento meno posato e via dicendo (in calligrafia e in paleografia con scrittura posata si intende una scrittura eseguita con i singoli tratti ben distinti tra loro e quasi disegnati più che scritti, con prevalente orientamento diritto, con speciale riguardo alla bellezza e perfezione della forma - NdR).

La Commedia ha iniziato il suo percorso che la porterà dallo status di best seller a quello di grande classico della letteratura italiana ancora prima di uscire dal secolo che ne ha visto la nascita. Un altro indizio della sua “promozione” è dato dal proliferare di commenti, generalmente riservati ai libri giuridici, ai classici latini, alla patristica, alla Bibbia: proprio Triv. 1076 riporta a lato dello specchio di scrittura una rigatura, predisposta proprio per ospitare un commento che, però, non fu mai realizzato.
Non deve stupire la precocità dell’operazione (siamo alla fine del XIV secolo) perché il commento più antico che possediamo è databile tra il 1324 e il 1328, a pochissimi anni di distanza dalla morte di Dante. L’autore è Iacomo della Lana e la sua operazione fu incredibilmente innovativa: egli infatti, bolognese, mise in volgare e al servizio di un testo volgare tutto il sapere del prestigioso Studium della sua città. Dalla filosofia alla teologia, da Aristotele a San Tommaso d’Aquino: si tratta di un sapere gelosamente custodito nelle università per le università e tassativamente riservato al latino.

NEL QUATTROCENTO LA COMMEDIA È ORMAI GIÀ UN CLASSICO
Nella mostra (quinta vetrina, Triv. 2263) è possibile ammirare un pregiatissimo codice di inizio Quattrocento (1404 o 1405, a seconda del calendario seguito, quello pisano, del copista Paolo di Duccio Tosi, o quello di Firenze, dove probabilmente fu realizzato il codice) che riporta questo antico commento: la grande dimensione, l’impostazione della pagina, i riquadri istoriati con le miniature (in foto: Inferno, l'incontro con Farinata degli Uberti) attribuite a una delle botteghe più famose di Firenze (quella di Gherardo Starnina), la purissima littera textualis o gotica - con le iniziali maggiori abitate e le maiuscole di ogni terzina aggettanti ed in vari colori -, il commento, tutto dimostra che la Commedia ormai non ha nulla da invidiare ai classici e ai libri universitari. Si tratta davvero di un prodotto di lusso: basti pensare che è formato da trecento carte e per realizzarne solo una era necessaria la pelle di una pecora o una capra intera. Si noti che nella rilegatura si faceva attenzione a presentare il lato "carne" e quello "pelo" della pergamena sempre su pagine affrontate. I più attenti scorgeranno inoltre, in colore rosso e blu fra le righe nel testo, il simbolo di paragrafo: lo stesso che ritroviamo oggi attivando la funzione mostra/nascondi nei programmi di scrittura al computer in corrispondenza del comando di "a capo". Non risulta che l'alternanza fra gli inchiostri blu e rosso per i segni di paragrafo risponda ad una precisa regola. Molto semplicemente il gusto estetico vuole che l'alternanza sia più bella a vedersi, e consenta anche maggior chiarezza. Inoltre, questo simbolo si trova accanto alla colonna, fuori dal corpo testuale, quando si tratta di segnare, ad esempio, l'inizio di un canto (di cui evidenzia la rubrica in rosso: un riassunto del suo contenuto) ed internamente al testo per segnare la divisione dei paragrafi nella prosa del commento: come un "a capo" ma senza spreco di carta, o meglio, di pergamena.

DAL COPISTA FENOMENO AL LIBRO CHE CI PARLA DI CHI L'HA POSSEDUTO
Spesso, tuttavia, soprattutto se si tratta di esemplari personali da studio o lettura, non più in pergamena ma in carta, i commenti venivano riportati sottoforma di glosse a lato del passo interessato: nella sesta vetrina, e siamo ormai in pieno XV secolo, il copista del primo esemplare (Triv. 1085) dichiara di aver trascritto tutta la Commedia in soli dodici giorni, impresa che ha dell’incredibile considerando che il tempo impiegato generalmente andava dai sei ai dodici mesi.
Anche il codice successivo (foto a lato) probabilmente è stato redatto per motivi di studio ma, al contrario del precedente, venne glossato e fittamente annotato (in latino) da numerose mani: è un manoscritto a dir poco vivace, che sembra parlarci della sua storia attraverso i mille inchiostri diversi (nero, bruno e rosso-marrone evanido - NdR), le note a margine, i fogli inseriti in aggiunta per mancanza di spazio, i disegni realizzati nel margine libero della pagina probabilmente da uno dei possessori del libro. Qui ne proponiamo due, che "si arrampicano" fra le terzine ed il commento, con i supplizi dei dannati nell'Inferno: a sinistra (canto XVIII) ruffiani e seduttori, fustigati dai demoni, camminano sull'orlo di un cratere fra vulcani eruttanti fuoco e fiamme, a destra le gambe scalcianti dei simoniaci (canto XIX) fuoriescono dalle fosse nelle quali sono infilati a testa in giù. Sul lato destro di entrambi i disegni, più piccoli nel primo, meglio evidenti nel secondo, Dante e Virgilio assistono alla scena.

I commenti riportati sono diversi: alcune note sono tratte da Benvenuto da Imola e precedute da una B, altre introdotte da una Y rimandano al commento di Iacomo della Lana. Altre ancora riportano come fonte la sigla COS: si suppone che siano tratte da un perduto commento, forse integrale, alla Commedia scritto da Niccolò Lelio Cosmico, bizzarra figura di umanista e maestro del Quattrocento, dallo stile di vita libertino, sfrenato e mondano. Da sempre è stata riconosciuta una grande influenza di Dante sulla sua produzione di rime in volgare ma non si ha notizia di un commento al poema: probabilmente proprio Triv. 1083 potrebbe esserne l’unico testimone.

DIGRESSIONE DI COSTUME
Per i curiosi sui capi d'abbigliamento di Dante e Virgilio: il Poeta indossa una sopravveste chiamata "Pellanda", ha il viso avvolto da un cappuccio a gote ed in testa un cappuccio "a Becchetto", ossia con un lunghissimo "Batolo" - termine usato nelle cronache quattrocentesche - pendente.
Il Duca non si vede benissimo se porti lo stesso cappuccio a gote di Dante, o una cuffia con lembi annodati sotto il mento sopra la quale esibisce una berretta simile alla "Capitanesca" ma di dimensioni più contenute e definibile appunto "Capitanetta". Per quanto riguarda la mantellina che gli copre le spelle - che a chi non abbia dimestichezza con la moda dei tempi antichi può ricordare la più tarda "Mozzetta" con pelliccia di ermellino portata dai Pontefici, fino a Francesco che l'ha dismessa - il nome con cui i contemporanei la identificavano è quello di "Collare" o "Collaretta dottorale" di "varo"; ossia una mantellina composta all'esterno da pance (bianche) e dorsi (grigi) accostati del vaio: piccolo roditore le cui pelli erano ritenute di valore appena inferiore all'ermellino.
Questo accessorio, unito al colore cremisi o rosso di grana che dir si voglia dell'abito, è segno di prestigio sociale e dunque nell'insieme rafforza a livello abbigliamentario la connotazione di Virgilio quale "auctoritas". Elisabetta Gnignera.

Altra questione è il colore della "Pellanda" di Dante. Chi, incuriosito dalla vivacità delle illustrazioni, avesse deciso di approfittare della bellissima opportunità offerta dall’Archivio Civico, ed avesse “sfogliato digitalmente” il Triv. 1083 - pagina per pagina e per giunta potendone ingrandire le immagini in alta definizione in modo da ammirarne alla perfezione ogni dettaglio - avrà senz’altro osservato che, pur trovandosi sempre all’Inferno (le altre Cantiche non presentano illustrazioni), Dante a volte è in bianco ed a volte, la maggior parte, vestito di blu.
Il perché di questa diversa colorazione non sembra riconducibile ad alcuna particolare regola legata agli episodi illustrati o ad altre possibili ragioni, ad esempio legate al fatto che il bianco fosse un colore di moda presso la corte borgognona, che al tempo dettava legge non soltanto in Francia ma anche a sud delle Alpi, o che avesse significati simbolici legati all’ambito spirituale.
Marzia Pontone, curatrice della mostra, precisa infatti che quello che a prima vista può apparire come bianco non è assenza di colore, bensì inchiostro bruno diluito, di cui ad un esame più attento si notano le ombreggiature. Secondo la studiosa, dunque, l'alternanza tra il blu steso a tempera e il bruno dovuto all'effetto dell'inchiostro diluito può allora, più verosimilmente, essere semplicemente dettata dal fatto che il Triv. 1083 non ospita un ciclo di illustrazioni professionali, ma disegni apposti dallo stesso glossatore, con un intento esplicativo analogo a quello assolto dall'apparato di glosse verbali. Pertanto non si può escludere che i disegni risalgano a momenti diversi e che l'uso della tempera blu sia stato soggetto al gusto del momento o alla disponibilità della materia prima.
Se infine sorgesse l’ulteriore curiosità di conoscerlo, questo disegnatore, come premio per a chi all’accarezzare gli schermi dei dispositivi di telefonia mobile - risucchiato dalla vacuità delle reti sociali - preferisce trascorrere ore affascinanti esplorando opere d’arte, per giunta divertenti come leggere un fumetto, quasi a fine manoscritto può scoprirne il nome, Arnesto Pidi, ed il “selfie” che egli stesso si è fatto, accompagnandolo con una dedica alla donna amata: guardare per credere >>>

COL RINASCIMENTO IL RITORNO ALL'ANTICO
Con la fine del XV secolo ci avviamo ormai verso il Rinascimento: come i secoli precedenti, anche quest’epoca lasciò la propria traccia nella sua visione della Commedia.
Oltre all’oggetto di lusso posseduto dai notai del Trecento, oltre al grande classico universitario, oltre al libro da studiare attentamente e annotare, l’opera di Dante diventa anche oggetto di moda antiquaria.

Triv. 1048 (a lato) è, infatti, un esempio delle cosiddette Commedie all’antica: un gruppo di giovanissimi umanisti, come Poggio Bracciolini, Niccolò Niccoli e Coluccio Salutati, aveva fatto esplodere a Firenze il gusto per l’antico.

L’amore per la classicità che animava questi personaggi li aveva resi ostili verso il Medioevo (categoria storica che viene a crearsi proprio in questi anni), rendendoli desiderosi di saltare, con un balzo all’indietro, questo periodo e di recuperare quello precedente.
Non avendo più a diposizione gli originali dei classici latini, decidono di recuperarne il formato in voga nel periodo di rinascita culturale carolingia (dal IX secolo): oltre alla dimensione più piccola, all’uso della colonna unica, all’impiego della decorazione a bianchi girari, viene recuperata la grafia, la minuscola carolina (una scrittura del IX-X secolo che prende il nome proprio dall’imperatore Carlo Magno - che peraltro risulta fosse analfabeta NdR). Il nuovo carattere (che chiamarono littera antiqua - NdR) dai filologi viene descritto come umanistica posata. Si tratta, infatti, di una scrittura umanistica (ovvero del 1300-1400) che, prendendo come modello la carolina, ne recupera i caratteri ma ne cambia alcuni aspetti. Per esempio, la carolina era una scriptio continua, cioè le parole non erano separate tra loro: la scrittura umanistica invece le separa, adottando una innovazione introdotta dalla gotica (1200 ca) che agevolava il lettore.

Questa riforma aveva lo scopo di aggirare l’uso della gotica, scrittura che comunque restava di difficile lettura e tipicamente medievale, ed ebbe talmente successo che la stampa adottò quel carattere (il nostro attuale Times New Roman, fra i font più utilizzati nei documenti di testo al pc - NdR).

LA STAMPA
La settima vetrina illustra l’anno 1472, eccezionale per la storia della Commedia: ne vengono infatti alla luce, quasi contemporaneamente e per la prima volta, tre edizioni a stampa.

La prima, stampata nell’aprile a Foligno (foto a lato), è generalmente riconosciuta più propriamente come editio princeps ed è il presupposto della seconda (luglio, Venezia o Iesi) sia dal punto di vista testuale che da quello grafico. La calligrafia riprende la littera antiqua (che si rifaceva alla carolina - NdR) della prima maniera fiorentina con le iniziali ripassate a mano in rosso. I lettori noteranno nell'immagine il riquadro bianco corrispondente al posto della lettera "N" iniziale del verso (riportata in piccolo vicino al margine sinistro della pagina, come pro-memoria per il miniatore - NdR). In effetti le miniature non sempre venivano eseguite perché erano a carico dell'acquirente dell'opera e dipendevano dalla sua volontà e dalla sua disponibilità economica; i motivi per cui a volte non le troviamo possono quindi essere svariati: morte del proprietario, mancanza di denaro...

Più lontana dalle altre, soprattutto per l’impiego della doppia colonna (ma anche per le decorazioni di minore qualità - NdR), è l’edizione mantovana, indipendente anche per quanto riguarda il testo: i manoscritti da cui parte sono molteplici, tra cui quelli del cosiddetto “filone Boccaccio”, cioè il gruppo derivato dalle tre copie che l’autore del Decameron fece della Commedia (di questa edizione ci restano oggi una quindicina di copie, mentre sono una trentina quelle di Foligno - NdR).

Il percorso si conclude così con l’inizio della stampa (gli studiosi chiamano questi volumi della seconda metà del XV secolo "incunaboli": proprio perché realizzati quando quest'arte era appunto "nella culla" - NdR), che renderà sempre più standardizzati i canoni editoriali grafici, ma non il testo: se si vuole provare a confrontare un solo verso in ognuna delle tre edizioni dell’ultima vetrina, infatti, si noteranno sicuramente delle differenze, quali più e quali meno vistose.

Il processo degenerativo degli errori, infatti, non può essere sanato senza un intervento filologico consapevole: se ne inizierà a sentire la necessità proprio al principio dell’Ottocento, quanto studiosi come il Marchese Trivulzio metteranno il loro ingegno e le loro risorse al servizio della più grande opera della nostra letteratura.

Per gli interessati ad ulteriori approfondimenti o notizie più specifiche è consigliabile la consultazione del sito della mostra dove si possono trovare saggi di importanti dantisti e studiosi italiani, oltre alle riproduzioni digitali dei manoscritti (ed alle relative schede tecniche e storiche che li illustrano) che non mancheranno di appassionare chi vorrà sfogliarli, seppure elettronicamente!

Paola Gonella, novembre 2015
© Riproduzione riservata
 
 

Paola Gonella è studiosa di letteratura, filologia e linguistica italiana
Università di Torino, Dipartimento di Studi Umanistici
 
Tutte le immagini dei volumi in mostra sono pubblicate su gentile concessione dell'Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana. © Comune di Milano. Tutti i diritti riservati.