È davvero scioccante, per chi non sia già un ambientalista convinto e acculturato in materia, vedere le fotografie di Edward Burtynsky esposte nella mostra Acqua Shock a Palazzo della Ragione a Milano. A dire la verità lo è anche per la categoria di persone citata.
Quando si varca la soglia di una mostra di fotografia che ha a che fare con la natura si ha sempre l’aspettativa che si vedrà comunque qualcosa di bello. Ed un po’ lo è stato, almeno all’inizio, di fronte al verde della vegetazione che sembra arrivarti addosso, quasi fosse in rilievo in 3D, in Georgia Bay n. 2.
Il messaggio che il fotografo canadese vuole infatti darci con questo suo progetto è quello di renderci consapevoli che al futuro noi consegniamo le nostre scelte di oggi. Se quindi, sotto il profilo puramente artistico, l’abilità dell’autore rende piacevoli allo sguardo anche scene di colossali disastri, la consapevolezza di cosa rappresentino davvero queste immagini fa spaventare. Il problema della nostra società è infatti che, al di là dei problemi quotidiani di quello che comunque non funziona nelle nostre città sotto il profilo ambientale, non ci rendiamo conto di quanto la nostra vita, pur ordinaria, incida sulla terra in luoghi dei quali non abbiamo esperienza diretta.
Viene da dire che le immagini delle foto di Burtynsky dovrebbero campeggiare per le strade sui cartelloni pubblicitari dei prodotti che per la loro realizzazione le determinano. Dovrebbero avere una par condicio di tempi negli spot televisivi ed altrettanta foliazione di pagine patinate sulle riviste. Un po’ come si fa con le scritte e le immagini crude sui pacchetti delle sigarette. Visto l’effetto di queste sulla diminuzione del numero di fumatori non c’è da farsi troppe illusioni e tuttavia pensiamo che sistematiche campagne di questo genere alla lunga potrebbero dare i propri benefici frutti. Ad esempio troveremmo più corretta una pubblicità di automobili che, invece di presentarci il nuovo modello correre solitario fra i paesaggi incontaminati dell’Islanda, ce lo presentasse sulla riva canadese dalle cui sabbie bituminose si estrae il petrolio: sacrificando 10 barili d’acqua per ricavarne uno di oro nero; ovviamente grazie all’azione di agenti chimici che “naturalmente” restano nell’ambiente.
Altro esempio: il disastro ambientale causato dalla BP nel Golfo del Messico per la fuoriuscita di petrolio causata da un guasto nella trivellazione in alto mare. Tutti ne abbiamo viste in TV le immagini. Ma un conto è vederle sul piccolo schermo, in pochi secondi di servizio subito incalzato dal successivo; tutt’altra cosa è vedere le stesse immagini in grande formato, in diverse inquadrature, davanti a te, nel silenzio di una sala. Magari leggendone la didascalia grazie alla quale apprendi che la gigantesca macchia galleggiante è stata sì “cancellata” dalla superficie del mare… però non grazie all’olio di gomito di una generosa divinità marina, bensì al prezzo di potentissimi agenti chimici poi precipitati sui fondali assieme ai sottoprodotti del processo di “ripulitura”. Tutta roba che al mare non fa certo bene, e nemmeno alle forme di vita che lo popolano e che fanno parte della nostra catena alimentare.
Passando sulla terraferma, anche l’agricoltura, si sa, ci fornisce di che alimentarci, ed è dunque una buona cosa. Ma grazie a quale agricoltura possiamo permetterci di servirci in centri commerciali dove si vende tutto a 1 euro? Ad esempio, uno degli elementi utilizzati nell’agricoltura industriale è il fosforo: bene, Burtynsky ci mostra che disastri provocano i bacini di decantazione nei quali viene prodotto, colorando il mare con tinte da far invidia al più ardito esponente della pittura espressionista. Ci mostra cosa sono gli allevamenti di gamberi davanti al delta del Colorado, perché noi possiamo averli sulla nostra tavola, o le distese infinite di serre in Almeria.
È utile che qualcuno ci metta sotto gli occhi gli impatti che il nostro stile di vita provoca sul mondo e dei quali non ci rendiamo conto. Sì, qualcuno potrebbe rispondere: non è colpa nostra, sono altri che lo fanno perché chi governa lo permette. Ma se le nostre scelte quotidiane premiano questo modello di “sviluppo” anche noi ne siamo complici… e corresponsabili. Proprio in questi giorni qualcuno si rallegra per la ripresa dei consumi… C’è poco da stare allegri a continuare di questo passo e con questi effetti. Il problema forse è quello di sentirsi invincibili e che tutto ci è possibile, come coltivare il deserto, o viverci.
In effetti la capacità e l’inventiva del genere umano sono ammirevoli, e perfino curiosi nei loro effetti. Sia quando la tecnica di irrigazione a pivot nella Bassa California ricopre la superficie arida come fosse un enorme tappeto di quadrate piastrelle regolari, con anelli inscritti al loro interno, appoggiato su di essa. È uno shock anche la sua rigorosa schematicità giustapposta, sulla linea di confine, alla natura aspra che lo circonda.
Sia quando si riprendono dall’alto le casette di Salt City: seppure in pieno deserto ciascuna ha il suo proprio piccolo recinto. Una scena che emblematica del significato del vocabolo: patetico. Come patetico sarebbe il tentativo di delimitare e recintare l’universo. Davvero appaiono ridicole queste piccole cittadine tutte regolari ed ordinate pur nel nulla della vastità in cui si trovano. Altro che Marte! Davvero viene da domandarsi come possano dei nostri simili vivere lì.
Se ben ricordiamo ci troviamo negli USA, in Texas, dove grazie all’All American Canal si è compiuta un’opera grandiosa riuscendo a portare acqua a città che non l’avrebbero perché costruite dove non ce n’è. Il problema tuttavia si pone nel momento in cui il sovrasfruttamento ha prosciugate le risorse idriche alle quali si attingeva determinando situazioni decisamente problematiche. Per rifornire di acqua Los Angeles è stato prosciugato il lago Olang.
Stessa sorte per il fiume Colorado. È meravigliosa la forma del suo delta prosciugato che ricorda quello di un albero fantastico. Ma la situazione è grave, il corso d’acqua è incassato e ritirato al fondo dell’alveo e, in certi suoi rami, neppure più arriva al mare.
La necessità d’acqua è comune ad ogni società umana e ciascuno cerca di “domarla” piegandola alle proprie esigenze. A Rotterdam sono argini colonizzati dalle strutture portuali ad opporsi all’oceano. Impressionante come una fortezza inespugnabile di un film ambientato in epoca post atomica è la diga sul Fiume Giallo.
Dove invece l’attività umana è compatibile con la natura il paesaggio dall’alto non fa più paura ma è semplicemente bello.
È il caso delle risaie a terrazze nello Yunnan, delle saline di Cadice e dell’aridocoltura di Los Monegros in Aragona.
L’effetto per chi, grazie a queste foto, ne ammira le panoramiche riprese dall’alto è quello di capolavori dell’arte astratta.
A tradirne la natura di “finzione” rispetto ai dipinti veri è la materia del supporto di queste stampe che - seppure tirate a grandi dimensioni – non hanno una qualità adeguata a consentire loro di darci l’effetto che ci può dare un quadro di cui possiamo vedere i dettagli della tela e dei colori che vi sono stati stesi.
Se però in un dipinto la realtà, pur dura, viene sempre “trasfigurata” per effetto della mediazione dell’artista, la foto svolge invece il ruolo di realistica cronaca di quanto una malintesa idea di progresso possa portare una regressione nelle condizioni di vita dei popoli, ovunque essi si trovino.
Constatazione evidente osservando i pozzi a gradini scavati nel Rajasthan, in India, con tutte le loro rampe di scale che permettono di scendere per decine di metri nel sottosuolo fino a raggiungere la superficie dell’acqua, verde smeraldo sul fondo di uno di essi mentre in quello della foto che gli sta accanto ne ha preso il posto un ammasso di rifiuti, per di più le scalette non sono manutenute e crollano in più punti manifestandone palesemente lo stato di abbandono.
Sempre in India, passando alla sezione della mostra il cui tema sono le Rive (o Waterfront come è di moda dire oggi in architettura), sono sconcertanti le foto di Haridwar, sul Gange.
Il luogo del mondo dove si svolgono i più grandi raduni di persone, che vi giungono a centinaia di milioni per il rituale del Kumbh Mela nell’ambito del quale svolgono le abluzioni sacre nell’acqua inquinata.
A suscitare il nostro sconcerto è sufficiente la vista dell’assurdità di un posto dove il culto dei morti è praticato bruciandone i cadaveri nello squallore di un disordine generalizzato fra rifiuti, barche con carichi di legna per allestire le pire dei roghi e lettighe di canne semidisfate qua e là.
All’apparenza agli antipodi è Verona Walks a Naples in Florida. L’ordine frutto di un’architettura finalizzata alla speculazione edilizia dà luogo ad un panorama urbanistico fatto di casette tutte addossate le une alle altre su isolotti. Tutte uguali, tutte con la propria piscina coperta, con i campi da tennis e quello da basket e pallavolo a disposizione di tutti gli abitanti. Una città il cui ordine si capisce essere artificioso, al punto da far amare il disordine delle nostre. Una città che, soprattutto, nasconde il problema di cui la speculazione edilizia non ha tenuto conto: l’assenza di raccolta delle acque reflue che trasforma in un’unica enorme fognatura l’apparentemente poetico specchio d’acqua dal quale sorge.
Seppure con sviluppo verticale, anziché orizzontale come quello appena visto, analoga sensazione di repulsione ce la dà la spagnola Benidorm. Dove la speculazione edilizia in questa località costiera si è spinta al massimo grado sviluppando i suoi palazzi per un’altezza di decine di piani (30 almeno ed oltre). Davvero sanguina il cuore a pensare come questo posto è stato ridotto per favorire un turismo di massa finalizzato a massimizzare i guadagni grazie all’abbruttimento delle “orde” davvero barbariche che lo popolano a migliaia nella stagione turistica. Non per nulla, di fronte a queste immagini due visitatori accanto a noi commentano ad alta voce: “È proprio uno schifo!” ma di questo schifo siamo complici con le nostre scelte quotidiane.
Per non lasciarci affogare nella disperazione, l’ultima sezione della mostra appena prima dell’uscita ha per tema le Sorgenti e vi si torna a vedere la natura incontaminata di puri paesaggi: dalle montagne innevate di un Parco Nazionale in Canada, ai fiumi dell’Islanda con opere di protezione dall’erosione e gli effetti del disgelo.
Tanto sono “stravolte” queste immagini che neppure si riconoscono i paesaggi originari in qualche caso ma, come già nelle sale precedenti, anche qui sembra di nuovo di trovarsi di fronte a quadri astratti o, come per l’immagine utilizzata sul materiale promozionale della mostra - il fiume Olfusá in Islanda -, all’illustrazione di romanzo fantasy e si fatica a credere che quello che è sotto in nostri occhi sia una realtà in luoghi della Terra.
Invece è proprio così e dipende anche da quello che faremo e da come ci comporteremo se queste meraviglie potranno rimanere tali.
CREDITI E TITOLI FOTO IN ORDINE DI PUBBLICAZIONE
© Edward Burtynsky / courtesy Admira, Milano
1. Fuoriuscita di petrolio n. 2. Discover Enterprise, Golfo del Messico, USA 2012
2. Cerro Prieto – Centrale geotermica. Bassa California, Messico 2012
3. Irrigazione a pivot n. 8. High Plains, Texas, Panhandle, USA 2012
4. Delta del fiume Colorado n. 2. San Felipe, Bassa California, Messico 2011
5. Diga di Xiaolangdi n. 1. Fiume Giallo, Provincia di Henan, Cina 2011
6. Aridocoltura n. 2. Regione dei Monegros, Aragona, Spagna 2010
7. Pozzo a gradini n. 2. Panna Meena, Amber, Rajasthan, India 2010
8. Kumbh Mela n. 1. Haridwar, India 2010
9. Fiume Olfusá n. 1. Islanda 2012