L'Eclettico



Fascino e mito dell'Italia



Nella visione dei pittori stranieri e di quelli fra loro attivi in Italia dal Cinquecento al Contemporaneo

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FASCINO E MITO DELL'ITALIA

Nella visione dei pittori stranieri e di quelli fra loro attivi in Italia dal Cinquecento al Contemporaneo

 

LA PRIMA IMPRESSIONE
Se devo essere sincera…” sussurrava Anna (Giuliana de Sio) a Vincenzo (Massimo Troisi) nel finale dello splendido film Scusate il ritardo. E così anche per la mostra Il Fascino e il mito dell’Italia dal Cinquecento al Contemporaneo, allestita nella Villa reale di Monza, se dobbiamo proprio essere sinceri la prima impressione che ci ha fatto non è stata di particolare entusiasmo.

Già dall’accoglienza nel parterre della villa, affidata all’audio di una voce lirica, amplificata a volume troppo alto dagli altoparlanti nascosti fra le siepi attorno alla vasca della fontana, e ad una cornice vuota dietro alla quale posare per foto ricordo (a dire il vero apprezzata da tanti visitatori), ha suscitato in noi l'idea del menu turistico offerto a Venezia (10 euro tutto compreso) alle orde dei nuovi barbari che la attraversano.

Impressione che sembrerebbe confermata come esplicita scelta dei curatori, stando a quanto scrive Sandrina Bandera (recentemente spodestata dalla direzione di Brera) nell’introduzione del catalogo dove dichiara che l’iniziativa è rivolta a quello che definisce, con espressione in questi mesi un po’ troppo abusata, il “popolo di EXPO”.
E le cronache confermano quotidianamente come quest’ultimo sia ben più interessato agli aspetti da parco dei divertimenti dell’Esposizione Universale che ai nobili ideali di soluzione ai drammatici problemi planetari sotto i quali i suoi organizzatori hanno ammantato logiche ben più prosaicamente commerciali.

Con queste premesse, procedendo per le sale in un itinerario cronologico che affronta via via vari aspetti che caratterizzano nell’immaginario collettivo la visione che nel mondo si ha dell’Italia (chissà se poi è davvero così), scopriamo poi che, diversamente da quanto i manifesti della mostra ci avevano fatto intendere, non ci è presentata una carrellata dei più rappresentativi artisti italiani, ma – per lo più - l’Italia come era vista dagli artisti stranieri che vi hanno a lungo vissuto e lavorato e, l’influenza su di essi dei nostri connazionali a loro contemporanei o antecedenti.
Sotto questo profilo allora bisogna dire che la mostra è un’iniziativa molto benefica per la nostra autostima di popolo in quanto, nel complesso (e fatte salve alcune eccezioni), le opere presenti ci paiono di qualità ben inferiore agli standard dei modelli “nostrani” ai quali fanno riferimento.
Dobbiamo inoltre confessare che, in alcuni momenti della visita, sollevando gli occhi agli affreschi sui soffitti o intravvedendo le decorazioni delle pareti e degli armadi a muro nelle sale seminascoste dalle opere ed intuendone la bellezza e l’ottimo lavoro di restauro svolto per riportarle in condizioni adeguate alla loro storia, ci è venuto da pensare che il contenitore fosse più degno di nota del suo contenuto!

E PERÒ...
Tuttavia, se Vincenzo risponde ad Anna “No, perché? (devi essere sincera) Mica... Puoi dire pure una bugia...!” nonostante il giudizio un po’ severo fin qui esposto - peraltro confermato da corrispondenze con chi in arte ha competenze ben più solide di chi scrive - noi non dobbiamo arrivare a mentire per testimoniare la soddisfazione di altri visitatori al termine del percorso e riconoscere comunque un certo valore alle opere viste, soprattutto sfogliandone a casa le riproduzioni sul catalogo.

Si parte dal Cinque-Seicento e della prima sala, fra le riprese dei modelli dell’antichità, in scultura con il bronzo del Mercurio di Duquesnoy, che riprende un antico modello romano proveniente dalle collezioni Medicee, ed in pittura, col Paesaggio con rovine romane di Posthumus, ci restano impresse due visioni opposte del Peccato originale.

Nel piccolo bassorilievo in marmo rosso di Ludwig Krug, quella drammaticamente carica di energia dell’aggressiva ferocia del serpente che soggioga Eva, rivelando nella testa da drago col rostro possente la sua vera natura demoniaca.

E quella che fa più riferimento alle sottili capacità seduttive del Maligno, nella delicata ed elegante Eva di Lucas Cranach il Vecchio della quale ci viene mostrato perfino il dettaglio del segno del morso dei denti che lascia sulla mela che regge in mano.

Il Ritratto di Ippolito de’ Medici vestito all’ungherese di Tiziano porta alla ribalta il colore e non gli è da meno lo stupendo Ritratto di madre e figlia che lo affianca e che Van Dyck dipinge quasi cento anni dopo.

Un colore che si arricchisce fino all’eccesso nella descrizione dei dettagli e nell’esibizione di ricchezza fra i quali Rubens ritrae Giovanna Spinola Pavese il cui volto emerge (quasi fosse lo Stregatto di Tim Burton) dai pizzi di un’enorme gorgera. Come siamo lontani dai fondi neri di Leonardo ed Antonello da Messina: contesto neutro per far risaltare i “moti dell’animo”. Della sua committente Rubens non ci mostra cosa pensa ma quanto è ricca!

Se Van Dyck e Rubens sono all’altezza di Tiziano così non è per gli emuli di Caravaggio nella sezione di mostra in cui si vuole dar riscontro della ripresa di temi e soggetti dalla vita quotidiana. Tanto Caravaggio è sempre drammaticamente vero tanto, per chi ne ha in mente i modelli, ne sono lontani i Giocatori di carte di Gherardo delle notti: fasulli e levigati sembrano statue di cera e ricordano le ristrutturazioni mal fatte dei muri degli edifici in pietra in cui col cemento si siano sigillate le fughe fra una pietra e l’altra appiattendoli. Un poco migliore è La negazione di Pietro di Rombouts, il cui elemento di maggiore interesse è l’espressione del volto del soldato che, alzandosi in piedi, interroga beffardo Pietro mentre quello sullo sfondo mette mano alla della spada. Forse il più vicino al maestro italiano è il medesimo soggetto visto da Valentin de Boulogne, particolarmente nelle figure di Pietro che fugge sulla sinistra e dei due armigeri con elmo, mentre del tutto fuori contesto è il bassorilievo sul marmo in primo piano. Scelta evidentemente voluta dall’artista e che sono forse le nostre insufficienti conoscenze a non farcene comprendere il significato.

Analogo ragionamento abbiamo fatto, in un primo momento, per le vedute di cieli, intonaci e paesaggi in cui si indagano nei più piccoli dettagli materiali ed ambienti.
A volte l’essere appassionati d’arte, ma non sufficientemente colti, può far prendere abbagli.

E così il primo giudizio sulle vedute di Van Wittel (1653-1736) di cui pure abbiamo apprezzato una Napoli così ordinata come oggi non riusciremmo ad immaginare ed una veduta del Palazzo ducale di Venezia con dettagli di buoi trasportati su una barca in laguna ed un altro, non proprio elegante, di un marinaio sulla murata della nave all’ancora sulla destra, è stato il paragone con le analoghe, ma a nostro modo di vedere ben più incisive, opere di Guardi e Canaletto…
Peccato che queste siano di decenni posteriori e la citata veduta di Venezia sia stata dipinta proprio nel 1697: anno di nascita di Canaletto.

Tralasciando un paesaggio naturale di Dughet, già attribuito al suo maestro Poussin, che non ci ha particolarmente impressionato, ha suscitato invece il nostro interesse il Porto con Villa Medici di Claude Lorrain: vibrante nell’aria nebbiosa ma carica di luce dorata che lo pervade, attento nella descrizione di oggetti movimenti e gruppi di personaggi - come i liuti e le chitarre barocche appoggiati fra i materiali (bottiglie, bauli e piatti) di una compagnia di artisti in attesa dell’imbarco, e sorprendente nel raggio di sole, potente come un laser, che si riflette sull’acqua e va a colpire in pieno il giovane marinaio che a forza di braccia tende la catena con cui trae a riva una scialuppa.

Un posto d’onore è stato debitamente riservato all’Accademia sotto la lampada di Joseph Wright: nel gabinetto cinese della Villa Reale, fra specchi e decori in legno e oro con fiori e intarsi... luogo che più adatto non si poteva trovare per i suoi colori coordinati con l’assorta atmosfera su toni del bruno e del rosso del gruppo di ragazzi attorno alla statua della Ninfa con la conchiglia che domina la composizione; illuminata da una luce che viene dall’alto e traspare dietro la quinta di una tenda.

Altra sala, altra “cartolina” d’Italia, con Roma che, secondo alcuni, era "per un quarto statue ed un quarto prelati". Qui ne vediamo alcuni ritratti da Voet, il cardinale Flavio Chigi - con la mozzetta rossa resa ad evidenti, veloci pennellate orizzontali -, da Mengs, papa Clemente XIII – quasi fotografico – ed il cardinale Archinto - identificato dall’indirizzo evidente sulla lettera appoggiata sullo scrittoio - in cui la bianca morbidezza dell’ermellino non raggiunge la capacità di farci “toccare con l’occhio i materiali” vista altrove, ad esempio nel bordo di pelliccia del copricapo del “Ragazzo di profilo” di Piazzetta.
Ma l’interesse del pittore in questo dipinto sembra essersi concentrato tutto sulla leggerezza dei bianchi pizzi ricamati del “rocchetto” che sporge dal grande mantello rosso e sugli intarsi dorati del bracciolo del trono, del quale tuttavia sembra sbagliata la prospettiva.

Dai ritratti della gerarchia ecclesiastica, con la Consacrazione del Cardinale Giuseppe Pozzobonelli Giovanni Paolo Pannini ci porta sotto le imponenti architetture interne della chiesa dei santi Ambrogio e Carlo al Corso in Roma. Una raffigurazione di ambiente nella quale troviamo le guardie che tengono indietro la folla, poveri e ricchi inginocchiati a chiedere la benedizione del Cardinale, altri arrampicati sulle colonne per vedere meglio e, mentre sullo sfondo procede la celebrazione e il coro di voci bianche intona le sue melodie, quasi con stupore ci sorprendiamo a notare che… mancano i telefonini per gli odierni, ossessivi… selfie!

La seconda sezione della mostra, dedicata al Sette-Ottocento, si apre riportandoci a paesaggi e soggetti fra i quali predominano le eruzioni del Vesuvio, riprese nel corso del Settecento e diventate tappa imprescindibile per gli artisti in viaggio in Italia.
Lo troviamo sullo sfondo della Grande veduta del Golfo di Napoli dai Campi Flegrei di Thomas Jones, che ci stupisce per la totale prevalenza della natura rispetto all’urbanizzazione odierna a causa della quale un'attuale eruzione del Vesuvio si risolverebbe in una catastrofe.
Lo troviamo protagonista di grandi tele di Joseph Wright, più “scientifiche”, e Pierre-Jacques Volaire che, invece, accentua l’effetto emotivo e scenografico: contrapponendo cromaticamente le gradazioni dal rosso al giallo dell’eruzione sulla sinistra, dove la materia pittorica si fa anche più spessa nel potente getto di lava eruttata verso l’alto, alle gradazioni di blu della parte destra del cielo notturno e nuvoloso rischiarato da una luna velata… perché fa sempre più scena un’eruzione di notte! Enfasi accresciuta nella fascia centrale del dipinto dall’animarsi della gente in fuga a piedi, in barca, su carri e carrozze… una panoramica umana a sua volta suddivisa in singole scenette con la rappresentazione di episodi di svenimenti, cavalli imbizzarriti, uomini con torce che illuminano il percorso ed un trio che si staglia sulle acque del golfo ed osserva e commenta la scena senza aver l’aria di preoccuparsi troppo per quel che accade.

Ancora il Vesuvio è sullo sfondo del ritratto di Joshua Reynolds all’ambasciatore inglese a Napoli William Hamilton, circondato dai vasi antichi della sua celebre raccolta sotto una tenda che ricorda quella appena vista di Wright ma qui non nasconde la fonte della luce ma è semplicemente in accordo cromatico con gli abiti in velluto amaranto di Hamilton.
Un riferimento all’antico ed a collocare i soggetti in paesaggi ed accanto ad opere d’arte celeberrime ispirato a Pompeo Batoni - con Mengs uno dei dominatori della scena artistica neoclassica - di cui è in mostra il ritratto al colonnello scozzese William Gordon che veste l’uniforme in tartan del corpo degli Highlander di fronte alla statua di Roma e con alle spalle il Colosseo.
A scanso equivoci il suo nome è scolpito nel frammento di marmo ai suoi piedi…
E, mai l’avevamo notato altrove, interessante è il dettaglio dell’imbottitura rosso porpora dell’elsa della spada a protezione dal ferro della mano che la impugna.

Oltrepassando la tenebrosa veduta della Tomba di Virgilio al chiaro di luna di Wright, quasi una scenografia da melodramma teatrale, ed il Capriccio col Pantheon di Hubert Robert, in cui due statue in alto a sinistra sembrano arringare nel vuoto ignorate dai gruppi di persone in basso, ciascuno intento alle proprie faccende, come una curiosa donna che pesca nello specchio d’acqua, arriviamo all’Elegia romana dello svizzero Sablet.

Negli sguardi abbassati e nell’abbandono di sciarpe bianche e cappelli i suoi due funerei protagonisti esprimono l’ineluttabilità della decadenza dei tempi segnata dalla chioma del pioppo italico che si inchina sulla sinistra, dalle capre e dalla vegetazione che si appropriano della piramide e delle arche antiche su uno sfondo plumbeo a pennellate trasversali diagonali molto evidenti.

In questa sala la nostra personale preferenza va però alla Veduta di villa Albani da villa Patrizi di Jacob Philipp Hackert, in cui la villa (uno dei celeberrimi luoghi più ricchi di sculture antiche del tempo) cui è intitolato il dipinto, seppure dipinta con puntuale precisione, sembra però solo un dettaglio come le rovine dell’acquedotto in lontananza. Noi titoleremmo quest’opera "Albero e capre con altri animali", in quanto questi ne sono i veri protagonisti: il cane accucciato, il bue in primo piano e gli altri bovini sul pendio prospiciente il lago ma, soprattutto le capre. Quelle al centro che tengono la scena e guardano l’osservatore ed il profilo scuro di quella sotto l’albero che guarda il panorama che si dispiega davanti a sé e nella quale noi spettatori forse veniamo chiamati ad immedesimarci... con l’aggiunta, ancora una volta per noi moderni, della nostalgia per questi panorami ormai deturpati dall’urbanizzazione.

Col passaggio di sala si torna alle figure umane ed al culto dei classici. Il più volte citato Mengs si autoritrae in veste di pittore “filosofo”, come era celebrato al suo tempo, ed è posto accanto ad una sua copia della Madonna della seggiola di Raffaello. Fra le due opere meritano una citazione il camino e la cascata di fiori dal dipinto che lo sovrasta dalla parete della sala che si riesce ad intravedere.

Ancora ritroviamo Sablet, che fa muovere i primi passi alla sua infanzia in piedi su una tavola, ricoperta da un panno già mosso prima di essere percorso, attorno alla quale, assieme a due donne dagli abiti resi con il dettaglio tipico dell’artista, stanno un uomo maturo, che ha davanti a sé un libro aperto e porge al bambino il dito che questi stringe per mantenere l’equilibrio, un anziano alle sue spalle (ma che ne ha i medesimi tratti) che osserva la scena, ed un giovane in piedi che imbraccia un mandolino - all’epoca strumento popolare per eccellenza - davanti all’apertura della stanza che vi fa entrare il paesaggio esterno ed il cielo, verso il quale si innalza, attorcigliandosi al ramo sulla sinistra, un convolvolo di cui sono, al solito, puntualmente rese foglie e corolle. Senz’altro tutti elementi con precisi significati che ci pare di intuire abbastanza evidenti.

Su una terza parete è una sua conterranea, Angelica Kauffmann, pittrice molto ricercata per ritratti idealizzati, a dipingere la poetessa Teresa Bandettini Landucci in veste di una musa. A dire la verità un po’ goffa sia per la posa sia per l’abbigliamento ed il serto di edera sul capo. Chissà se la destinataria avrà gradito il dono che, come si legge nel biglietto che le sta accanto, "l’arte di Angelica dipinse come divina Amarÿlli (dal significato greco di risplendente) e le dedicò come pegno di amicizia": è noto, infatti che entrambe frequentassero i salotti colti dell’Accademia d’Arcadia della quale la pittrice, pur frequentandola non faceva parte, mentre Teresa vi fu accolta col nome di Amarilli Etrusca quando si trasferì a Roma.

Voltato l’angolo ci attende una fra le migliori opere in mostra: di Antonio Allegri, il Correggio, la Danae 1530-31. Di essa più tardi avremo un’ulteriore originale visione dall’alto: dall’ultimo piano della Villa Reale attraverso l’apertura nella stanza della servitù dove, con un montacarichi, si faceva salire il cibo per il re ed i suoi ospiti quando pranzavano nella sala del Belvedere. Una struttura mantenuta dal restauro che, ci dicono, avere un solo analogo in un altro museo italiano non meglio identificato.
Tornando al dipinto, mirabile per innumerevoli ragioni evidenti anche ai non esperti d’arte, sottolineiamo un suo dettaglio che, come gli arcinoti angioletti di Raffaello, potrebbe essere un’opera a sé stante: l’angolo in basso a destra dove un putto alato destra gioca con un altro senza ali e con una freccia su un qualcosa di cui non si capisce la natura e… ci ricorda la quotidiana visione di persone perennemente intente a digitare sciocchezze sui telefonini!

Un’altra svolta ed ecco, rispettivamente di Fabre e Von Amerling, i ritratti dei maggiori scultori del tempo.
Canova, in posa nel suo studio, fra martello, gradina e, sullo sfondo, una versione della Venere Italica di cui si è appena visto un gesso a Milano nello studio Messina.
Bello il soggetto, bello il foulard che porta al collo, un po’ improbabile la sua eleganza nel luogo in cui si trova.
E Thorvaldsen che, da parte sua, con gli occhialetti in mano e senza gli attrezzi del mestiere, ha più l’aria di un medico che uno scultore!

Nell’ultima sala della sezione sette-ottocentesca, nella quale temi attinenti la religione cattolica convivono con la nostalgia di Medio Evo e Rinascimento, passando da Ingres a Winterhalter, a Bard si assiste ad un crescendo nell’analisi del dettaglio.

Di Ingres, Chiavi a San Pietro (del 1820) è emblematica del suo anelito a “liberarsi da quei piccoli dittatori che sono i dettagli”.
Per continuare il gioco - già più sopra tentato - di attribuire alle opere titoli diversi da quelli ufficiali, uno più rispondente al dipinto potrebbe essere “Chiavi e mantelli”.
Sono questi ultimi, infatti, con le loro pieghe evidenziate dalle ombre su colori netti e ben distinti, l’oggetto della ricerca dell’artista.
Non i volti, non gli occhi persi nel vuoto, abbassati o rivolti ad un Alto che nessuno vede e di cui il Cristo è tramite nel passaggio delle “consegne”. Non i corpi, indipendenti dai panneggi che li ricoprono, quasi, senz’altro, volutamente fuori dimensione.
Scelta diametralmente opposta, ad esempio, a quella del Genga di cui a Brera si è recentemente visto il disegno preparatorio della Disputa sull’Immacolata Concezione con i corpi disegnati in un primo momento nudi per capirne bene il movimento che doveva essere ben reso anche dopo averli ricoperti con gli abiti.

Al polo opposto è la Benedizione Urbi et Orbi di papa Gregorio XVI dalla loggia di San Pietro di Jean-Auguste Bard: un’analisi meticolosa del dettaglio che arriva a dipingere perfino le sottili linee dei tiranti che attraversano tutta la piazza per tendere l’enorme telo che ombreggia la finestra dalla quale il papa benedicente sembra quasi prendere il volo. Sotto di lui un allineamento di innumerevoli guardie a cavallo con i loro colori delimitano geometricamente la piazza e separano i fedeli più vicini alla basilica da quelli all’esterno fra i quali circolano carrozze e dove Bard ci propone una successione di scene di genere, in miniatura ma perfettamente descritte, sulla linea del primo piano: un anziano che si sente male, attorniato dai pastori vestiti di pelli che lo assistono mentre altri sono inginocchiati in preghiera, ancora altri gruppi di persone che conversano fino al curioso ritratto dell’uomo in divisa, di profilo nel riquadro della finestrella della carrozza sulla sinistra.
La veduta è una scena che rimanda alle analoghe odierne dalla quale si distingue soltanto per l’assenza della contemporanea smania di portarsi a casa la foto ricordo dell’evento alla quale si sacrifica la possibilità stessa di viverlo appieno.

Fra i due il Decamerone del tedesco Franz Xaver Winterhalter, il dipinto che abbiamo preferito fra quelli in mostra: forse per l’attività esplicitamente richiamata dal titolo dell’opera alla quale sono intenti i giovani fiorentini ritratti (Firenze è ben riconoscibile sullo sfondo dell’apertura prospettica fra le fronde della vegetazione che incornicia la scena). La ricchezza dei loro abiti, curata minuziosamente fino al dettaglio dei ricami su calze e calzature, è agli antipodi della poetica di Ingres.

Uscendo di nuovo nell’alto, solenne corridoio della villa, il Giovane pescatore napoletano che gioca con una tartaruga tenuta al guinzaglio scolpito da François Rude sorveglia l’ingresso alle ultime sale della mostra nelle quali dagli ultimi decenni dell’Ottocento si arriva alla contemporaneità.

Qui il fuoco è posto sulla nobiltà e bellezza del popolo italiano proposto nelle sue varianti regionali: la Siciliana di Von Amerling, i Pifferai (con zampogna) di Leopold Robert, assieme a due zingarelle davanti al piastrello di una Madonna, di cui si legge solo il saluto AVE MARIA.
Il ricco mantello di Una nobile signora di Venezia e la romanesca Nanna di Frederic Leighton e, sopra tutti, il Souvenir d’Italie di Jean-Léon Gérome (immagine qui sotto).
A buon diritto scelto come icona della mostra nel suo rappresentarne l’abbagliante luminosità che ci ricorda, anche se con un gusto più sintetico, il contemporaneo Filippo Palizzi.
Una luce che, nei paesaggi naturali o di rovine archeologiche, è caratteristica anche dei paesaggi romani di Valenciennes che anticipa e prepara Corot, gli Impressionisti e Cezanne, ed ancor più in Waldmuller i cui lampi di luce su agavi e fichi d’india, davanti ad un tempio dorico immerso nel paesaggio naturale, con il mare di Taormina all’orizzonte, nella vista dal vero hanno una forza che la stampa non può rendere e, con le quattro figure al centro, scalze ed affaccendate con vasi e fiori, è davvero l’emblema di un’Italia vista come terra del dolce far niente dove vive gente spensierata… Magari fosse vero!

Per quanto riguarda il nostro personale gusto estetico la mostra termina qui, concedendo ai secoli successivi soltanto un’appendice per la lacrima che scende dall’occhio sinistro della Madonna nella Pietà che Salvador Dalì rilegge perforandola come fosse una roccia scavata in milioni di anni dalla forze del mare che ora presenta perfettamente calmo alle sue spalle.

Giovanni Guzzi, Settembre 2015
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