Un vero e proprio “dietro le quinte”. Questo è l’effetto che ci ha fatto il vedere esposta in Pinacoteca a Brera, nell’ambito della mostra Il primato del Disegno, un’importante selezione di opere dal suo ricco Gabinetto di Disegni.
Due erano gli obiettivi che ci si prefiggeva di raggiungere con questa iniziativa. Da un lato si voleva far conoscere una parte, meno nota ma non meno bella, delle sue raccolte; di cui la Pinacoteca è proprietaria grazie al legame con l’Accademia di Belle Arti, istituzione che in epoca neoclassica ha sostenuto la grande tradizione del disegno.
Dall’altra si è voluto mettere a tema l’arte del Disegno come strumento fondamentale per leggere e comprendere la pittura (sotto, Salviati: Madonna col Bambino, sant'Anna e san Giovannino, 1550-55 circa - New York - dettaglio).
Per questa ragione gli esemplari esposti, provenienti anche da prestiti dalle più importanti raccolte pubbliche italiane e straniere (Louvre, Albertina di Vienna, Metropolitan Museum, Morgan Library, Uffizi, Castello Sforzesco), sono stati scelti in quanto strettamente correlati ai quadri della collezione braidense.
Il loro accostamento, purtroppo in diversi casi a “qualche sala di distanza” (per comprensibili ragioni di conservazione delle opere e contenimento dei costi dell’allestimento), favorendo un inusuale confronto fra opere su carta e opere su tela o tavola, ha permesso anche al pubblico dei semplici appassionati di comprendere il raffinato e poetico rapporto tra la fase dello studio preparatorio di molte fra le espressioni cruciali della storia dell’arte italiana e la loro stesura finale che siamo usualmente abituati ad ammirare.
Tesi dei curatori era infatti il voler dimostrare come il disegno, dal Trecento al Novecento, sia una fondamentale costante per la genesi dell’opera pittorica.
Pratica prettamente intellettuale, il disegno è in effetti una forma del pensiero umano, una sua manifestazione affidata alla linea ed al chiaroscuro che si avvicina molto alla scrittura. Anche con funzione magico rituale pensiero, disegno e scrittura sono collegati fra loro fin dalla preistoria. Lo dimostrano innumerevoli esempi, primi fra tutti i dipinti sulle pareti delle grotte di Altamira in Spagna.
Come strumento in ambito estetico artistico, il disegno riveste un’importanza non trascurabile già dalla Classicità, anche se l’idea che sia il fondamento dell’arte nasce e diventa preminente dal Trecento in poi.
È questo il tempo in cui Cennino Cennini (seconda metà XIV sec - 1437?), pittore ma anche teorico di formazione giottesca, pubblica il trattato Libro dell’Arte: opera per la quale è ancora oggi ricordato e nella quale sono indicati i fondamenti del disegno e del colorito toscano fiorentino.
In essa Cennini scrive: “El fondamento dell’arte e di tutti questi lavorii di mano principio è il disegno.” E continua: “Sai che t’avverrà, praticando il disegnare di penna? Che ti farà sperto, pratico e capace di molto disegno entro la testa tua” (sotto, Raffaello: studio per due volti femminili, 1503-04 verso).
Dare una definizione assoluta del disegno, dal Trecento a tutto il Settecento e fino all’Otto-Novecento è impresa difficile, per non dire impossibile. Per Giorgio Vasari (1511-1574) il disegno è padre delle tre arti - Pittura, Architettura e Scultura -, è il corretto giudizio dell’occhio. L’aneddoto che racconta sul giovane Giotto intento a disegnare una pecora è emblematico del ruolo prioritario di cui insignisce questa arte che, fin dal XVI secolo, rappresenta un momento fondamentale per la formazione degli artisti. Ne è ulteriore conferma il suo possesso di un’importante raccolta di cataloghi di disegno dei quali, nel Cinque-Seicento, si sviluppa il collezionismo.
Nel 1607 Federico Zuccari, vasariano e seguace della filosofia neoplatonica, ha l’idea del disegno come di una forma di conoscenza della realtà. Ed in effetti, prima di essere un’attività manuale, il disegno è un fatto mentale: è un modo di vedere con estrema attenzione. Dunque, fino al Settecento, tutte le arti visive sono considerate arti del disegno. Soltanto ai nostri giorni si parla anche di arti plastiche.
Nel Novecento Bernard Berenson riconosce alla pittura le capacità di suggerire il movimento, più della fotografia, di esprimere valori tattili e di rendere la pienezza delle forme. Per spiegarsi introduce il concetto di “linea funzionale”, intendendo un segno di contorno particolarmente espressivo che definisce in questi termini appunto per la sua funzione di staccare l'immagine dal fondo piano (che ha solo dimensioni di altezza e larghezza) e di far intuire la terza dimensione, quella di profondità, "facendo mostra anche delle cose che rimangono celate alla vista" come dice Plinio il Vecchio, parafrasando le sue fonti ellenistiche, a proposito di Parrasio (antico pittore greco nato attorno al 460-455 a. C.).
Seppure così importante in ambito fiorentino, di disegno toscano in mostra tuttavia c’è poco, avendo essa, come si è detto, focalizzato il rapporto fra il disegno e le opere della collezione permanente di Brera. Una scelta che, anche a mostra terminata, permette al pubblico che l’ha vista di leggere in maniera nuova quanto può continuare ad ammirare nelle sue visite successive alla Pinacoteca.
Non per nulla Giovanni Morelli - fondatore di una particolare impostazione della critica basata sul riconoscimento di un artista attraverso i dettagli anatomici – parlava di questi disegni con l’auspicio di “farne una galleria per studiare meglio le specialità tecniche di quei maestri”. Cosa che si faceva effettivamente nell’Ottocento e che ha lasciato il segno nelle opere dei pittori formatisi a questa scuola in Accademia.
Ad aprire l’itinerario espositivo, che si dipana ripercorrendo cronologicamente la storia delle scuole pittoriche italiane, sono rarissimi esempi tardo gotici. Della Cerchia di Pisanello è un disegno in cui sul recto sono varie Figure in abiti cortesi, un guerriero seduto su una roccia ed un drago (recto) (1440-1445). Si tratta di diverse figure e studi indipendenti l’uno dall’altro ma compresenti sullo stesso foglio. Allora, nel rapporto disegno-foglio, non si dava l’importanza odierna all’unità di scena. I disegni dell’epoca arrivati a noi isolati lo sono perché successivamente rifilati e ritagliati in funzione del formato.
Relazioni di questi disegni quattrocenteschi, tutti eseguiti a punta metallica d’argento su carte colorate, si colgono, nelle sale dei fondi oro, nel Polittico di Valle Romita di Gentile da Fabriano e nell’abbigliamento del San Giuliano di Bonifacio Bembo.
Sempre alla sala IV, alla figura della Madonna nell’Adorazione dei magi di Stefano da Verona, rimanda un suo modernissimo schizzo: bello e dalle forme aperte che esprimono un’idea compiuta di ritmo e misura.
Seconda tappa è la straordinaria stagione della pittura veneta del Rinascimento, nella quale Mantegna, Giovanni e Gentile Bellini affrontano prospettiva ed interesse per la natura utilizzando il disegno come strumento di indagine della realtà.
Sono ricorrenti i dubbi sull’attribuzione a Mantegna o al cognato Giovanni Bellini dei loro disegni che ci sono pervenuti. Una chiave interpretativa riconosce al secondo la capacità di dare il senso dell’espandersi del dramma e l’effusione del sentimento mentre Mantegna trasmette asprezza irrisolta ed il dramma resta chiuso in sé.
La questione (già affrontata in Non solo Bellini, variazioni sul tema della Pietà) in questa occasione non si pone proprio.
Il disegno Seppellimento di Cristo – recto (1456-59) sembra rinviare direttamente al Cristo morto di Mantegna, mentre il Compianto sul Cristo morto (1490) di Bellini è un disegno in cui sono chiaramente riconoscibili gli elementi distintivi dei personaggi della sua celeberrima Pietà milanese.
Si tratta di un monocromo ad inchiostro nero steso a pennello su tavola: un documento di bottega che serviva come materiale di riferimento per conservare la memoria ed i modelli per il suo teatro degli affetti ma destinato a commuovere ancor più dell’opera definitiva, in quanto autonomo e non mancandogli di essa altro che il colorito della tempera. È interessante anche notarvi la tecnica di Bellini: fatta di sottili tratteggi, resi più duri e fitti per le transizioni tonali, sia nel disegno, sia nella stesura pittorica a velature sovrapposte.
Per inciso sarà poi Giorgione a proporre una stesura del colore piena ed indistinguibile.
Completano il panorama veneto due disegni con riferimenti diretti: la Testa di san Sigismondo (1496-99), particolare vivo ed incisivo della Madonna col bambino in trono, con quattro santi ed angeli musicanti di Bartolomeo Montagna in sala VIII, ed una Figura femminile stante (1502-04) riconoscibile fra le donne che guardano Maria salire la scala nella Presentazione al tempio di Carpaccio in sala VI.
Che la seconda, a penna e pennello e inchiostro su disegno preliminare, sia un cartone preparatorio ripetibile lo dimostrano i suoi profili forati per lo “spolvero”.
Grazie a questa tecnica si poteva trasferire in scala 1:1 su tela o su tavola (o su muro nel caso degli affreschi) un precedente disegno tracciato su carta. Il cartone veniva bucherellato da forellini che seguivano le linee del disegno: più fitti nelle parti più significative e più radi nelle altre. Lo si appoggiava poi sulla superficie del dipinto da realizzare e lo si batteva con un tampone pieno di polvere di carbone. Così facendo, passando dai forellini, la polvere tracciava le linee principali del dipinto che erano poi ripassate dall’artista un po’ come si fa con il gioco di far emergere una figura unendo i puntini numerati che ne definiscono i contorni ed alcune linee essenziali.
Per la sua caratteristica di “salvare il cartone”, lo spolvero era preferito alla tecnica alternativa consistente nell’inciderlo con uno stilo arrivando a graffiare la superficie sottostante. Graffi tuttora ben riconoscibili sotto il colore in alcune opere. Così facendo, però, il cartone veniva danneggiato irreparabilmente e lo si doveva buttare. Sempre allo scopo di proteggere la “matrice” anche dall’umido dell’intonaco preparatorio per gli affreschi, nel Cinquecento si usava interporre un secondo cartone fra il primo ed il muro.
Alla Pinacoteca Ambrosiana è oggi visibile uno dei più grandi ed importanti cartoni arrivati fino ai nostri giorni: quello di Raffaello per la Scuola di Atene affrescata nelle Stanze Vaticane.
Come fossero sull’altra sponda del Lago di Garda, sulla parete di fronte ci guardano Leonardo ed i Leonardeschi, fondatori in Lombardia di una vera e propria scuola del disegno: come per i dipinti del maestro, anche i disegni esposti mostrano un arricchimento di valori quasi cromatici, di sfumati e di effetti luministici. Se in Verrocchio, Pollaiolo e Andrea del Castagno troviamo linee nette a definire i contorni delle figure, pur appartenendo al medesimo ambito e cresciuto alla bottega del primo di essi, Leonardo fa eccezione: eredita questa scuola ma la mette in discussione. Rifacendosi a quanto Plinio scrive di Senocrate (scultore greco e scrittore di cose d'arte attivo dal primo quarto del sec. III a. C.) e Apelle (pittore greco del IV sec a.C.), si differenzia dal linearismo gotico teorizzando che le linee devono essere lunghe e sottili, continue e non spezzate, che devono esprimere altro, far pensare che girino dietro la figura e dare l’impressione del movimento.
Per Leonardo la linea non esiste in natura, è un’astrazione. Nei suoi meravigliosi schizzi (si legga in proposito Quel gran genio di Leonardo) la cerca provandone tre o quattro prima di individuare quella giusta che, una volta trovata, sul foglio diventa un binario.
Per Leonardo il disegno è un mezzo di conoscenza dei fenomeni naturali è una pratica scientifica, una scoperta, un’esperienza empirica. Nel suo Trattato della Pittura in proposito scrive: “Se tu sprezzerai la pittura, la quale è sola imitatrice de tutte l’opere evidenti de natura, per certo tu sprezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme: aire, siti, piante, animali, erbe, fiori, le quali sono cinte d’ombra e lume. E veramente questa è scienzia”.
Di Leonardo in mostra c’è soltanto un suo Ritratto di uomo a mezzo busto (1510-11) nel quale riprende i canoni della medaglistica di Pisanello. E se, come nel San Gerolamo dei Musei Vaticani visto a Palazzo Reale (vedi ancora Quel gran genio di Leonardo), con Leonardo il dipinto cresce, viene avanti, tutto assieme, sdoganando il non finito come faranno nel Cinquecento Michelangelo e Tiziano, i suoi allievi non assimilano a sufficienza la lezione del maestro.
Una differenza che è evidente nel dipinto la Madonna col Bambino e l’agnello in un paesaggio (1515-20) attribuito Francesco Melzi. Seppure suo allievo diretto non comprende il “leonardismo” e lavora al completamento dell’opera per sagome giustapposte e nettamente distinte l’una dall’altra.
Decisamente di buona fattura sono invece i Due bambini che si abbracciano (Gesù e san Giovannino, 1520-25) di Bernardino Luini che in sala XIX ci aspetta con la Madonna del Roseto assieme ad Andrea Solario e Giovanni Antonio Boltraffio
Di quest'ultimo, il Ritratto di Girolamo Casio (1495-1500) pur essendogli antecedente riecheggia il suo disegno di Ritratto maschile (1498-1502) in mostra (e qui accanto).
Infine bisognerà andare all’Ambrosiana per rivedere il disegno di Testa di bambino di profilo verso destra (1495 circa) che il Maestro della Pala Sforzesca ha riprodotto quasi identico nel piccolo Massimiliano Sforza inginocchiato nella pala braidense che gli è riconosciuta.
Nella medesima sala XV si trovano i corrispettivi pittorici degli esempi di Bramantino, Gaudenzio Ferrari e Bernardino Lanino che, nelle loro figure tendenti alla geometrizzazione, portano in mostra la rappresentazione dello spazio secondo la visione bramantesca.
La Maddalena (?) accanto al Sepolcro (1511-13) del primo di essi (immagine qui a lato), nella postura e nel panneggio si avvicina molto alle figure ai piedi della sua coeva Crocifissione.
Ulteriore occasione per addentrarci nelle dinamiche di bottega degli artisti è la curiosa scoperta sul retro delle tavole laterali del Polittico di Monterubbiano (1475-80) dell’austriaco, ma attivo nelle Marche, Pietro Alemanno (solitamente trascurato dai visitatori per la posizione un po' defilata dietro il laboratorio di restauro "a vista" alla sala XVIII).
Si tratta di disegni di Cavalieri in varie posizioni, di profili maschili e femminili oltre ad una figura demoniaca con una testa in mano ed uno studio per la centinatura della tavola.
Questi studi di bottega, vere e proprie prove di grande creatività senza relazioni col dipinto sul recto - ma più moderni dello stesso - mai prima d’ora erano stati esposti al pubblico e testimoniano che la pratica di disegnare sul retro dei dipinti era più diffusa di quanto non si creda.
Debitamente in risalto, al centro della sala, e della mostra, ecco poi l’unico disegno preparatorio conosciuto per lo Sposalizio della Vergine di Raffaello (sala XXVI).
Proveniente Oxford è fra i pochi in preciso rapporto con le opere della Pinacoteca e, nel caso specifico con i volti del gruppo delle cinque donne sulla sinistra del dipinto.
Con i suoi segni lunghi, continui, e le forme semplici è una definizione grafica del disegno che riconduce la forma a geometria ed anticipa Ingres che, nell’800, dirà di “mettere a tacere quei piccoli dittatori che sono i dettagli”.
Tecnicamente è da notare che nel tratteggio, diagonale o parallelo che sia, Raffaello è preciso come un pantografo.
Gli fanno da corte una serie di maestri raffaelleschi e manieristi, in un excursus che dalle forme pittoriche del primo Rinascimento giunge fino alla linea forzata dei grandi del tardo Cinquecento.
In questo periodo il disegno diventa anche strumento col quale presentarsi alla committenza e, sotto il profilo tecnico, si passa dal predominio delle punte metalliche all’uso di sanguigna e pietra rossa o nera (da non confondere col carboncino e ricordando che la nostra matita verrà introdotta nel ‘700).
Ecco allora il disegno di Angelo annunciante (1505 circa) del bolognese Francesco Raibolini, detto il Francia. Anche questo su un cartone che poteva essere riutilizzato più volte per un soggetto pressoché identico a quello dell’Annunciazione di Brera: un’opera tarda che mostra il diffondersi del sentimentalismo religioso e dei modi compassati di Pietro Perugino in terra emiliana.
Ecco il Correggio, per il quale il disegno è ormai autonomo, finito in sé e non strumentale ad un dipinto, come dimostra lo Studio compositivo per una adorazione dei Magi (1515-19) successivo e speculare rispetto al dipinto della Pinacoteca.
Ecco il manierismo di Parmigianino con le asprezze ritmiche, del vero naturale, nelle mani studiate per il Ritratto di san Tommaso e del fiorentino Salviati, con la tenerezza della Madonna col Bambino, sant’Anna e san Giovannino (1550-55 circa).
Dei modelli compositivi dell'urbinate Timoteo Viti, per la Vergine annunciata tra san Giovanni e San Sebastiano (1513-15).
E, soprattutto, ancora da Urbino, di Genga. Singolare, nel suo Studio compositivo per la Sacra conversazione Disputa sull’Immacolata Concezione e santi (1516-18) a pietra rossa, il fatto che nel disegno preparatorio le figure siano disposte nelle posizioni ed atteggiamenti definitivi ma mostrando anche quel che poi non si vedrà, e dunque… nude. Perché al momento di rivestirle dei panneggi si dovrà riuscire a far “sentire” il movimento delle membra sottostanti.
Un capitolo speciale, spiegano i curatori, è dedicato ad un altro pittore di Urbino: Federico Barocci, artista del tardo Manierismo che, aprendo al Barocco, segna il passaggio verso l’epoca moderna e di cui la mostra segnala che un suo disegno poteva anche essere assunto come prova di contratto. Sue caratteristiche peculiari sono l’attenta osservazione del vero, la cura quasi maniacale per il disegno preparatorio, sapientemente arricchito di colore e colpi di luce, la partitura della scena con quinte scenografiche. Tutti aspetti evidenti nel Martirio di San Vitale della Pinacoteca, che si discosta dal suo modello compositivo (1580 circa) in mostra solo per qualche piccola modifica: ad esempio un leggero spostamento verso destra del carnefice di spalle in primo piano e nell’angelo che porge la palma del martirio.
Nella sua pittura è forte il rapporto fra caldo e freddo ottenuto, in fase preparatoria, con i cosiddetti trois crayons: il freddo della matita nera, il caldo della sanguigna ed i rialzi a biacca.
Nello Studio di testa maschile di tre quarti volta a destra (Cristo) 1580-83 questa dinamica è data dal contrasto fra luci e ombre e dai “cambi di ritmo” in punti diversi del disegno: dando la guancia in luce o in ombra e disegnando più grande l’occhio avanzato verso chi guarda, le narici asimmetriche e la bocca in diagonale… Sono tutti aspetti che arriveranno fino al primo Degas che ancora “copierà” il bergamasco Cariani.
Primo alfiere della scuola pittorica veneziana del XVI secolo in mostra è poi il bresciano Savoldo. Ne vediamo una sua tipica Testa di apostolo volta di profilo a destra nel disegno per la Trasfigurazione di Cristo (1533 circa) anticipata, seppure rivolta a sinistra, in quella di San Gerolamo nell’antecedente Madonna in gloria col Bambino e santi (1524-26) in sala X alle spalle di Napoleone. In entrambe le opere si osserva la sua caratteristica dissoluzione della linea nella luce.
Lo seguono Tintoretto e Paolo Veronese.
Più manierista l’uno, dal disegno sfatto e le forme aperte, come nello Studio di nudo maschile sdraiato (1560-65) del Poldi Pezzoli, che prefigura il corpo di san Marco in piena luce nel suo “Ritrovamento” in sala IX.
Più realista e luministico l’altro. I cui cartoni sono studi compositivi ma finiti in sé ed autonomi.
Come quello in mostra nel quale Sant’Antonio abate è in compagnia differente da quella del dipinto di Brera.
Un disegno per il quale, come del resto già altri artisti del tempo, anche Veronese utilizza carta colorata, in questo caso grigio-azzurra, che gli dà la mezza tinta dalla quale, per rendere gli effetti di chiaroscuro, può partire verso una doppia direzione di valori. Per alzarsi verso il chiaro (i già citati, cosiddetti, “rialzi”), si usa la biacca (o bianco di piombo) data a pennello o con acquerellature. Per abbassarsi si punta in giù lavorando sugli scuri con inchiostri ed infittimento delle linee.
Chiudono il Cinquecento altri casi significativi dell’Italia settentrionale. Il ligure Luca Cambiaso, noto per i suoi effetti di luce, come nella Natività di Brera, presente con un’Adorazione dei pastori a penna e bistro (o “fuliggine temperata” di colore giallo bruno) su carta dagli angoli tagliati. E tre cremonesi.
Sofonisba Anguissola (alla sala XVIII un suo autoritratto) il cui disegno di Bambina con fanciullo morso da un granchio (1550-55) è migliore dei suoi quadri!
Ed i Campi, maestri del realismo più naturale.
Bernardino, di cui sono stati messe a confronto due opere del 1574: il dipinto della Pietà con santa Caterina d’Alessandria di Brera ed il disegno di una bella testa della Santa con tracce di gessetto bianco dall’Ambrosiana.
E Vincenzo (che non risulta essere un familiare del precedente), di cui è proposta la Figura femminile (Fruttivendola) preparatoria dell’omonima protagonista del dipinto in cui ha esibito la sua spettacolare abilità nel riprodurre alla perfezione innumerevoli varietà ortofrutticole.
Il disegno inoltre esemplifica un’altra tecnica utilizzata dagli artisti, ovvero la mise en carreau (quadrettatura) grazie alla quale si poteva ingrandire senza limiti il disegno dal vero.
Il Seicento è rappresentato da diverse realtà geografiche.
A Bologna la fondazione dell’Accademia degli Incamminati (già dei Desiderosi) costituisce il primo esempio in Italia settentrionale di insegnamento basato sul disegno.
A scanso equivoci è opportuno precisare che non si trattava di una scuola in senso stretto, bensì di una sorta di "accelerazione", non istituzionale ma di natura privata, legata alla bottega dei Carracci che faceva anche tesoro del pensiero del Cardinal Paleotti, vescovo di Bologna con il quale avevano un rapporto di grande sintonia ed amicizia.
Figura equiparabile per la città a quello che fu il Cardinale Carlo Borromeo per Milano, la sua opera più nota, nella quale confluiscono le sue preoccupazioni intellettuali in ambito artistico, è il Discorso intorno alle immagini sacre et profane diviso in cinque libri pubblicato a Bologna in volgare nel 1582 e successivamente in edizione latina nel 1594.
Da questo ambito in mostra compaiono gli importanti e rarissimi cartoni di Ludovico Carracci, La Fortezza e la Temperanza (1604-05) e Guido Reni, L’Assunta (post 1616-17), di proprietà della Pinacoteca e generalmente non visibili al pubblico.
Del tutto autonomi, a grandezza più del vero e dai ritmi ampi e semplificati, furono acquistati dai segretari dell’Accademia dove sono rimasti esposti, assieme ai gessi, per 100 anni.
Su di essi si è formata tutta la pittura dell’800.
Entrambi portano i segni dell’incisione a stilo dei contorni.
Ancora di Ludovico Carracci, è interessante la resa delle dita serrate nello Studio di mani per la “Predica di sant’Antonio abate agli eremiti” (1615), proprietà dell’Accademia e corrispondente dell’olio su tela della Pinacoteca.
Passando in Lombardia, ammirando il suo Ritratto d’artista (post 1628) dalla Pinacoteca di Varallo si comprende bene perché Tanzio da Varallo, con Michelangelo e Raffaello, sia considerato uno dei massimi disegnatori del suo tempo ed accostato a Van Dyck nella costruzione per diagonali sui punti luce.
Con Giulio Cesare Procaccini in Venere e Amore (1620 circa) scopriamo un nuovo colore: il pigmento di oro zecchino, usato assieme a inchiostro bruno e rosso su carta tinta con acquerello.
Infine, la Figura maschile seduta di Francesco Cairo ci avvisa che il disegno è ormai diventato pittura.
Conclude il secolo Pietro da Cortona. Con un interessante confronto fra un suo disegno barocco di Santa Caterina d’Alessandria inginocchiata (1611-30) e la medesima ad olio su tela in Pinacoteca: con altri santi in adorazione della Madonna col Bambino.
La sezione del Settecento è dedicata alla pittura, e di conseguenza al disegno, di genere: aneddotica, “di carattere” e vedutismo.
Vi torna in auge il disegno a tratto puro, la sua vicinanza all’incisione.
Nell’Autoritratto (1720 circa) di Giuseppe Maria Crespi, lo “Spagnoletto” fa uso della matita come oggi la conosciamo per entrare col busto in diagonale ma lo sguardo frontale in uno spazio ovale che scomparirà nella versione ad olio.
Il disegno di Piazzetta “tocca le cose” ed ha il dono di fa sentire i materiali. E l’occhio davvero tocca la soffice pelliccia che borda il cappello del suo Ragazzo di profilo (1735-45).
E se con lo Studio per la partenza di santa Paola Romana per la Terra Santa si ritrova la "mise en carreau" per riprodurre un disegno su tela di grandi dimensioni, in Canaletto e Guardi, il disegno ritorna ad essere uno studio strumentale al dipinto. Si tratta di studi di vedute dal vero come Venezia: fabbriche di fronte alla chiesa della Salute (1730 circa) sulle quali si leggono, ben visibili, annotazioni e sigle sui colori reali e da utilizzare ed appunti funzionali al quadro che dovranno realizzare.
L’epoca neoclassica è rappresentata da altri confronti diretti fra disegni e dipinti corrispondenti.
Le raffinate opere di Giuseppe Bossi: autoritratti e la Sepoltura delle ceneri di Temistocle. Quest’ultima presenta l’impaginazione dell’historia a fregio, con tutta la scena allineata sullo stesso piano e poche variazioni sul soggetto fra disegno e dipinto (ad esempio la scritta sull’urna).
E, di Andrea Appiani, l’affresco strappato del Carro di Apollo affiancato dal suo disegno preparatorio (1796, in deposito alla GAM), entrambi di grandissimo formato.
L’Ottocento è preso in esame opponendo la visione romantica del Bacio di Hayez, di cui si presentano alcuni studi preparatori, al realismo imperturbato e poetico di Fattori, il cui Cavalleggero appiedato di profilo (1866 circa) seppure analitico e minuzioso, o forse proprio per questo, è esecutivo, molle di forma… c’è troppo.
Non così l’Hayez della Betsabea al bagno (1834 circa). La sua purezza delle forme richiama quasi Ingres per il quale il disegno è la probità, l’onestà dell’arte.
E torna a Carracci che collocava l’historia nel paesaggio.
Qui leggermente differente nelle due versioni, con le alberature sullo sfondo che da palme (nel disegno) diventano monumentali tronchi in un bosco di piante centenarie e l'ancella inginocchiata che diventa un servitore.
L’autoritratto di Segantini introduce invece al disegno del Novecento. L’impaginazione diritta, ieratica, con riprese a oro nel fondo ne fanno un soggetto simbolico con valenze sacrali.
Ma oltre alle opere costruite tradizionalmente basandosi sul disegno, il Novecento lo mette anche in discussione come imitazione della realtà naturale, e propone altre infinite possibilità, dalle avanguardie storiche, alla linea grafica come espressione del tormento umano del secolo che porta il disegno a diventare attività solo cinetica.
In Boccioni l’Autoritratto a olio della Pinacoteca e l’antecedente il disegno a carboncino, tempera e pastello sono due opere decisamente indipendenti.
Modigliani è grandissimo, nel Ritratto di André Salmon (1914 circa), su un foglio di taccuino mette assieme l’eredità toscana senese del ‘200 e di Simone Martini con l’arte primitiva, Picasso e Brancusi.
La qualità sta nella purezza del segno e lui è capace di tracciare segni lunghi, senza esitazioni.
La mandibola, ad esempio, è una delle forme più difficili da disegnare e Matisse e Picasso hanno trascorso del buon tempo nello studio di come disegnare un labbro con un unico tratto: il solo segno della “zeta”.
Morandi rielaborava i disegni anche poco dopo l’esecuzione del dipinto, considerandoli quindi anch’egli concettualmente autonomi rispetto alla pittura.
La sua Natura morta (1962) è la quintessenza del lavoro su sagome scure e chiare, positivo e negativo: la forma vale quanto lo sfondo (da Cezanne), tutto è tremolio pieno sensibilità pittorica, tratteggio dal niente.
Il disegno di Paesaggio urbano (con camion) di Sironi del 1920, nel diventare pittura perde il camion dal titolo e lo propone ridimensionato assieme ad altre modifiche che ci fanno preferire la meno opprimente versione a inchiostro acquerellato.
All’inverso preferiamo l’Angelo ribelle con luna bianca (1955) dipinto da Osvaldo Licini rispetto al meno riconoscibile Angelo ribelle e luna a matita in cui è più forte l’autonomia del segno slegato dall’imitazione.
La scrittura è quasi definitivamente autonoma ed il segno non sta per qualcos’altro. Mentre nella pittura di imitazione il pennello, il braccio, il tubetto non entrano, devono essere qualcos’altro, qui, ora, l’errore entra e la pennellata esiste solo per sé stessa.
Non siamo più di fronte ad un pittore visivo, l’immaginazione è completamente libera, conta la fisicità materica del segno: siamo agli antipodi di Appiani e Bossi!
Infine Giacometti.
È d’obbligo premettere che il suo disegno non ha nessuna relazione con la sua scultura.
Per 30 anni cerca di riaffermare la figura umana. Per lui solo gli egizi e Cezanne sanno disegnare e per dieci anni si arrovella sulle domande: cos’è una testa? Cos’è una figura? Cosa vedo? Dubbio che gli vale la scomunica di Breton che risponderà: “Tutti sappiamo cos’è una testa”.
Nel suo Senza titolo (Nu debout) del 1949, un bianco e nero comunque ricco di valori tonali posto alla fine del percorso, scopriamo che la relazione tra foglio e disegno non è più indifferente come nel primo Quattrocento col quale l’avevamo cominciato.
Per Giacometti conta tantissimo l’insieme "figura più spazio".
La scelta di porre la figura non nell’asse centrale ma a distanze diverse da ogni lato del foglio è studiata apposta, sa benissimo che l’effetto cambia.
La sua donna, che a noi sembra uno scarabocchio, è invece un suo ritorno alla “figura”.
Una figura non statica ma che si allunga e si assottiglia per l’assommarsi di campi visivi: per guardare la donna in viso occorre alzare la testa e per guardarla ai piedi bisogna abbassarla.
Giovanni Guzzi, maggio 2015
© Riproduzione riservata
Un sentito ringraziamento a Riccardo Taiana, pittore egli stesso e collaboratore dei Servizi educativi della Pinacoteca di Brera, al quale sono debitore per molto di quanto è contenuto in questo articolo