C’è un angolo di Milano che è un’oasi di pace e tranquillità. È in via Manzoni, a ridosso degli Archi medievali di Porta Nuova, dove, sulla corte interna del civico 45, si affacciano una serie di botteghe che vendono quadri per lo più fine Ottocento e primi del Novecento. Accanto ad esse c’è anche una piccola galleria, la GAMManzoni, che periodicamente organizza interessanti mostre. L’ultima che vi abbiamo visitato è stata Da Boldini a Segantini, riflessi dell'impressionismo in Italia. Filo conduttore dell’operazione è stato il voler dimostrare che, mentre in Francia la scuola che innovò la pittura di paesaggio da metà del XIX secolo (Barbizon prima ed Impressionismo poi) era un fatto nazionale, la sua traduzione italiana si potrebbe definire policentrica, in quanto declinata in maniera diversa nei diversi ambiti regionali, rappresentati in mostra da un solo dipinto per ogni autore.
Fra i MACCHIAIOLI toscani, la Passeggiata in giardino di Odoardo Borrani è emblematicamente rappresentativa del pieno periodo della vera “macchia” e delle influenze dei pittori tornati da Parigi dove avevano visto i lavori degli Impressionisti. Mentre però in questi ultimi le scelte nell’accostamento dei colori per renderli più luminosi si erano sviluppate dal progresso degli studi ottica ed avevano dunque alle spalle molta scienza, gli italiani ne riportano la tecnica ma la vivono a modo loro.
Notato il dettaglio dell’ombrellino parasole che basta appena per le due teste delle figure femminili sotto il pergolato, si vede bene la differenza da Giovanni Fattori che appartiene alla categoria come epoca ma meno come pittura. Le sue Esercitazioni di reclute vedono per una volta i suoi soldati conservare della divisa il solo berretto e, in tenuta bianca davanti a uno sfondo di mare tranquillo, trattenere, per contrasto, a fatica i propri cavalli o inscenare, fra la polvere sollevata sulla destra, un goffo tentativo di salire in arcione.
Per gli ITALIANI A PARIGI, Telemaco Signorini ci propone una Via di Ravenna (1876 ca) con crocchi di persone sugli usci, donne che lavano o chiacchierano, bambini che giocano mentre in primo piano, ma di lato, un bambino piange. Al centro invece, fra le macchie di colore dei ciottoli, bianchi in pieno sole scuri sul lato in ombra, un altro bambino con un cesto in mano avanza deciso verso lo spettatore.
Dalla città Boldini ci porta alle campagne adiacenti della sua terra ferrarese che non è più Romagna ma non è ancora Emilia. In Morning stroll (passeggiata mattutina) una donna, vestita con eleganza come se fosse per le vie di Parigi, passeggia col cane in un viottolo di campagna accanto ad un campo con qualche papavero e un albero dai rami disordinati sotto il quale lavorano contadini ed anch’essa si muove verso di noi accanto alla prospettiva di un’inusuale muro cieco che si allunga sulla destra a dare al dipinto profondità ma anche un certo senso di peso incombente.
Infine De Nittis: secondo alcuni presenti i suoi soldati sul piazzale molto ampio e polveroso Davanti a Buckingham palace non sono una delle sue prove migliori. A noi invece è piaciuto, e ci ha divertito, il suo limitarsi a tratteggiarli nel solo movimento delle gambe (in grigio), nella macchia rossa della giubba e, di nuovo, nel nero del colbacco calato su una testa che non c’è!
Viceversa, tornando in Italia fra TORINO E PIEMONTE, La lettera di Zandomeneghi, che alla nostra valutazione soltanto estetica non risulta granché attraente, per gli esperti che ci circondano è un’opera importante. A parer loro questo artista particolarmente attento alla forma, anche perché discendente da una famiglia di scultori (il padre ed il nonno), realizza opere o belle o brutte: e questa con la giovane dalla lunga treccia va catalogata fra quelle belle.
Piemontese d’adozione, per aver esposto le sue opere in numerose rassegne nella capitale Sabauda ed esservisi trasferito a vivere dopo aver girovagato in Europa e Medio Oriente, Alberto Pasini in realtà nasce a Busseto, la terra di Verdi. Dopo gli studi iniziali all’Accademia di Belle Arti di Parma, dal direttore della medesima, l'incisore Paolo Toschi, viene indirizzato alla litografia. Si sposta poi al nord per prendere parte alla Prima Guerra d'Indipendenza e, nel 1854, arriva infine allo studio parigino di Théodore Chassériau che ne valorizza la propensione per la pittura ad olio e lo inizia all’orientalismo.
Nel marzo dell’anno seguente, sostituisce il suo maestro, ammalato, come disegnatore aggregato ad una missione diplomatica del governo francese in Persia, Turchia, Siria, Arabia ed Egitto. Un viaggio durante il quale realizzò una sessantina di studi e molti disegni, che furono la base delle opere del genere verista di stampo esotico e fecero la sua fortuna, prima in Francia e poi in Italia. Un’abilità che colpisce anche noi al cospetto della sua Sosta di cavalieri siriani davanti a un bazar del 1888: nella resa delle decorazioni ottomane, strepitose sugli edifici nei quali si apre la porta del bazar, degli oggetti sferici in vetro, che non si capisce bene cosa siano, appoggiati a terra e che i personaggi si scambiano, dei curatissimi dettagli di giubbe ed armi… mentre un venditore di frutta risponde al richiamo del bambino per la via di Ravenna sulla parete accanto ed, all’interno, personaggi misteriosi si muovono avvolti da un magico fascio di luce.
Al minuzioso dettaglio di Pasini si contrappongono, in chiusura della parete subalpina, i segni di colore spessi, grossi e pesanti con le quali è ritratta, di spalle ed all’opera su una panchina in pietra, La pittrice, con autografati sulla tela la datazione 29.7.90 e la dedica di Lorenzo Delleani “alla sua gentile cugina Catterina”.
Scendendo in SICILIA nella calma di mare sullo sfondo del Golfo di Palermo Francesco Loiacono ci porge la scena di tre ragazzini accucciati che stanno giocando (forse con un granchio?) mentre due più grandi vigilano su di loro.
Più folta è invece la rappresentativa di NAPOLI e dintorni.
Antonino Leto coglie due bambini sulla Spiaggia a Capri che ne guardano altri giocare a spruzzarsi nell’acqua dalla quale uno di essi sta uscendo, piangente.
Su un’altra spiaggia moderne sirene, adagiate su teli davanti ad una barca in secca sulla quale hanno abbandonati i propri vestiti, acquistano verdura da una popolana che Edoardo Dalbono dipinge davanti a loro mentre gliela pesa attorniata da altri bambini.
È proprio un bambino, invece, l’acquirente del Fruttivendolo di Vincenzo Irolli. Addossato ad un cumulo di grandi cipolle, rape rosse come il rosso delle angurie aperte e sparse un po’ ovunque sulla scena e con santi e la Madonna appesi alla parete alle sue spalle, sembra un Bacco che, con la pipa in bocca ed un grande fiore, ancora rosso, all’orecchio, sta pesando fichi che mette in grembo al ragazzino. Per contenerli quest’ultimo solleva la sua camicia scoprendo le gambe che muove quasi accennando un passo di danza.
Con le Due bambole (1878) di Antonio Mancini l’atmosfera cambia completamente e diventa cupa e malinconica in una scena ambientata nell’interno di una stanza dove, accanto ad un’accozzaglia di cianfrusaglie sul comodino, una bambina, dal pesante rossetto sulle labbra e che i tre anelli e l’orecchino bene in vista fanno supporre di famiglia ricca, non dà proprio l’idea di divertirsi giocando con la bambola che regge in braccio ed, anzi, al contrario, fa paura.
Per fortuna, subito accanto, una luce abbacinante illumina la sala anche da lontano. Anche la figura centrale della donna che Filippo Palizzi ci impone in primo piano è essa stessa costretta a socchiudere gli occhi per guardare, controsole, gli affreschi che emergono dagli Scavi di Pompei e sono, perciò, in ombra. È una donna altera che, a piedi nudi su un cumulo di cocci decorati, interrompe il lavoro e, poggiata a terra la sua cesta, si sofferma, incuriosita da quel che vede, a contemplare le scene di vita dei ricchi antichi romani. È un po’ (ma un po’ di più!) quello che fa oggi chi si estranea dalla propria mediocrità quotidiana sfogliando su una rivista di costume la vita dei "VIP" o sognandola nelle fiction televisive. Da notare il fatto che le ceste in equilibrio sulla testa delle sue altre tre compagne che si allontanano non sembrano molto credibili: guardandole non si “sente” il peso della terra che dovrebbero contenere e riportano alla memoria i massi in polistirolo dei film mitologici sollevati senza alcuno sforzo dai protagonisti dei primi anni del cinema.
Con VENEZIA il sole scompare. La Mietitura del riso nel basso veronese (1878) di Giacomo Favretto è dipinta quasi come una stampa, stilizzata fino a diventare fumettistica nel disegno della vegetazione che, lungo il corso d'acqua, ricorda l’Egitto.
Pietro Fragiacomo ripropone Le Zattere, un luogo sempre affascinante di Venezia, nella bruma tremolante e umida della laguna nebbiosa: fra la luce del sole che cerca di diradarla sulla sinistra e, sulla destra, il fumo che sale da un battello sul quale sembra essere scoppiato un incendio a bordo.
In città Ettore Tito fissa sulla tela il commento La fa la modela (1884) di un vecchio che osserva passare lungo un canale un ragazza: vestita con eleganza ma che sembra un po’ goffa e non abituata ad indossare quel genere di abbigliamento (e soprattutto quel tipo di scarpe!).
Si torna sul mare con la Veduta sulla laguna (1875) di Guglielmo Ciardi: bambini sembrano raccogliere molluschi sulla spiaggia da cui la marea si è ritirata, ma il movimento del bambino che si china sembra statico come sono immobili le vele sul mare e le nubi sull’orizzonte mentre su tutto incombe, al centro della composizione, la massa dei pali catramati sulla cima per l’attracco delle imbarcazioni.
E, pur restando nell’ambito della scuola veneziana ottocentesca, si passa ad altri paesaggi con Mattino (1892) di Luigi Nono, nonno dell’omonimo musicista. Davanti al campanile con una montagna sullo sfondo, una donna nel suo vestito rosa a pois bianchi tiene per mano una bambina con in testa un’elegante cuffia, forse vanno a Messa? Forse ad una festa di paese? Non si sa. Però spicca il rosso sangue del parasole i cui orli ricamati svolazzanti sono un’esibizione di tecnica perché non si ha l’impressione che sulla scena soffi un vento tale da giustificarne il plateale movimento.
DALLA SCAPIGLIATURA AL DIVISIONISMO è il titolo che sottende gli ultimi dipinti in mostra.
Il primo movimento, in pittura, si fa risalire al bergamasco Giovanni Carnovali, detto il Piccio. Secondo alcuni, questo diminutivo col quale si firmava non era ereditato dai suoi anni giovanili e legato alla sua statura, ma avrebbe origine nel fatto che, in dialetto bergamasco e milanese, il vocabolo è riferito a chi ha un’identità non precisamente definita: è un po’ una cosa e un po’ un’altra. Comunque sia, rispetto alla dirimpettaia campana, la sua Bambina con bambola è ambientata in uno spazio indefinito, è più semplice - porta anche lei orecchini, ma piccoli – e, soprattutto, la sua bambola non sembra una morta.
I fratelli Induno verrebbe da dire che anche un non esperto li potrebbe riconoscere… ad occhi chiusi! Domenico (1815-1878) in La visita alla balia (1861) traspone nell’ambientazione dettagliata di un interno di casa rurale una composizione che palesemente fa riferimento alla classicità delle più tradizionali adorazioni dei pastori o dei magi. Se è pur vero che si dà dignità a soggetti popolari e non più solo sacri o mitologici, la scuola dalla quale si viene è pur sempre quella dell’Accademia.
Vi ricorrono elementi tipici come la finestra aperta che, anche se semicoperta da un tralcio di vite, dà ugualmente luce all’interno. Sotto di essa è appesa una gabbietta vuota in legno, alcuni piatti rotti sono appoggiati sul mobile davanti alla parete di fondo, sulle sedie si è deposto un evidente strato di polvere (come sugli strumenti musicali di Baschenis) e viene da pensare: chi mai avrebbe dato a balia in un ambiente simile il proprio bambino?
Davanti alla scena un cappello a cilindro è abbandonato nella culla a dondolo (che ricorda quella, lugubremente funerea del Bagatti Valsecchi) ed a terra si notano un ombrellino ed un altro cappello. Come in tanti altri dipinti del tempo si riconosce Garibaldi raffigurato nel quadretto appeso al muro.
Il tutto sembra una collezione di nature morte e fa pensare a Giorgio Gaber che in un suo monologo parla di un personaggio spettinato… ma spettinato bene! Ed allo stesso modo, questo propostoci da Domenico Induno è sì un disordine… ma organizzato. Per questa ragione, pur destando la nostra ammirazione per le sue qualità tecniche, per la nostra sensibilità contemporanea suona tuttavia un po’ falso.
Sullo stesso stile del fratello è Il figurinaio di Gerolamo Induno (1825-1890): un artigiano che dipinge la statuetta della Madonna di un rosso vivo che risalta evidente anche nel contenitore del colore, sulla punta del pennello ed in una macchia caduta “con esatta precisione” sul tavolo di lavoro. Forse il meglio del dipinto risiede nel barboncino sotto il banco che solleva il muso a guardare il lavoro del suo padrone.
In piena Scapigliatura si entra con Mosè Bianchi nell’Uscita di chiesa. La scena è divisa orizzontalmente in due grandi fasce: bianco abbagliante della luce riflessa dalla pietra della facciata dell’edificio sacro (in cui sembra di riconoscere i portali del Duomo di Milano) quella superiore, grigio scuro la metà inferiore in ombra. Su di esse si stagliano le due figure femminili che le tagliano verticalmente procedendo verso di noi che le guardiamo. Il rosso vivo dell’ombrello parasole di una di loro è presente anche qui ed attrae il nostro occhio facendoci notare lo schizzo di un cavallo che corre da sinistra a destra alle loro spalle. Vestono abiti raffinatissimi. L’uno è interamente nero ma presenta una fascia bianca ricamata e bottoni d’oro, come i guanti di entrambe, e il pomello del parasole. L’altro nella gonna è bianco ma rigato di azzurro in verticale, per compensare la netta divisione orizzontale dello sfondo. Nella parte superiore è ancora bianco ma coperto dal velo nero, anch’esso fittamente ricamato, per una precisa scelta compositiva, visto che si staglia sulla parte chiara dello sfondo. Il tutto è dunque un meraviglioso esercizio di eleganza ed equilibrio fra tutti gli elementi della composizione: figurativi, geometrici, di colori, perché cos’altro è l’eleganza se non manifestazione di equilibrio?
Non ci è chiaro come contestualizzare nel titolo indicato dai curatori l’ultimo dipinto in mostra: Lungo il sentiero (1887) dell’abruzzese, amico di D’Annunzio, Francesco Paolo Michetti che dalla frequentazione di Palizzi aveva rafforzato l’innata inclinazione verso una pittura fortemente realistica e naturalistica, anche nella scelta dei soggetti: per lo più animali, preferiti dall’artista «perché Palizzi li aveva messi di moda in pittura, perché gli facevan pensare alla campagna desiderata e lontana, infine perché come modelli non gli costavan niente» commenta uno studioso.
E per l’appunto in quest’opera in mostra sono ritratti, quasi fotograficamente e forse un po’ rigidi, una ragazzina che esibisce una collana con croce e gioielli ed il fratellino che, scalzi e armati di canna, riportano alla cascina tacchini bianchi e neri mentre cala la sera e sagome di ali di uccelli svolazzano sopra una chiesa alle loro spalle.
Nulla da dire, infine, se non manifestare muta ammirazione, per Dall’alto (1895 ca) di Filippo Carcano. Proprietà di un’importante raccolta statunitense e non più esposto in Italia da circa un secolo, è un bellissimo primo piano di un grande prato prealpino dove prevalgono fiori bianchi (ma vi spunta anche qualche altro colore) sul quale sostano quattro pecore all’apparenza ignare di tanta bellezza mentre sotto di loro la pianura sfuma nell’azzurro ed un filo esile e trasparente di fumo bianco fra il lago e il meandro ampio del fiume è l’unico segno della vita che vi si svolge.
Sensazioni analoghe a quelle suscitate da Giovanni Segantini in Alpe di maggio dove sono protagoniste in primo piano una capra ed il suo capretto, ma a ben guardare se ne possono scoprire altre seminascoste fra le pennellate, ed una betulla contorta per resistere al vento. Da notare che fra le sue fronde basse un occhio attento potrà individuare la presenza di una figura femminile che l’autore si diverte a nasconderci, rendendola quasi invisibile, ma anche a seminare indizi, come la macchia rossa del suo foulard, che ci permettano di riconoscerla.
Giovanni Guzzi, luglio 2015
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