L'Eclettico



Quel gran genio di Leonardo



La mostra sul maestro di Vinci a Palazzo Reale

L'ECLETTICO - web "aperiodico"

QUEL GRAN GENIO DI LEONARDO

 

Ci vorrebbe forse un genio come Leonardo per allestire come si deve una mostra su Leonardo.

Su quella che si sta per chiudere a Palazzo Reale c’è chi ha lamentato la lacuna, fra le sue dodici sezioni, di una specifica focalizzazione dell’aspetto religioso (pure presente, trasversalmente, un po’ in tutte), c’è stata la polemica per opere di cui non è stato concesso il prestito ed è stato osservato che all’impossibilità di portarne alcune si sarebbe potuto rimediare con copie di buona qualità anche presenti a Milano e non difficili da spostare.

Da parte nostra riteniamo che, nella presente come per altre analoghe circostanze, una politica di coordinamento fra le sedi espositive cittadine che custodiscono opere del Maestro sarebbe preferibile, ed avrebbe un valore culturale (ed anche commerciale) maggiore, rispetto al trasferire temporaneamente di qualche centinaio di metri dipinti che, lasciati al proprio posto, ed adeguatamente valorizzatane la presenza, con la loro attrattiva porterebbero il pubblico a conoscere anche altri capolavori che li accompagnano nella logica del cosiddetto “museo diffuso” di cui molto si parla a livello nazionale ma che, anche solo a livello cittadino, si fatica a mettere in atto.

Per non dire del fatto che trovarsi di fronte ad una simile quantità di disegni, dipinti e sculture mette a dura prova il visitatore. A chi è convinto che non si possa far pagare un biglietto di 12 euro per vedere soltanto poche opere, viene da rispondere che l’Arte (e questa in particolare) non si vende un tanto al chilo e che, se adeguatamente valorizzata e concepita, ciascuna delle sezioni di questa mostra avrebbe potuto costituire un’ottima mostra a sé stante; meglio ancora se proposta con un progetto unitario, a cadenza regolare nel tempo e - perché no? - magari itinerante in altre sedi espositive o luoghi della città che hanno testimonianze leonardesche nelle proprie collezioni o nel proprio patrimonio.

Del resto non crediamo siano stati tanti i visitatori che si sono soffermati con pari attenzione su ogni oggetto esposto, operazione che avrebbe richiesto di trascorrere per le sale di Palazzo Reale intere giornate: anche volendo, non tutti avrebbero avuto la possibilità di farlo. Le stesse guide, il cui ruolo per questo Leonardo da Vinci è stato più che indispensabile, sono necessariamente costrette a scelte, tanto sofferte quanto obbligate.

Tutto ciò premesso ci ripromettiamo di descrivere, rispettando la scansione proposta dai curatori, la nostra esperienza di una visita che, seppure già durata molte ore, a conferma di quanto sopra abbiamo scritto avrebbe necessitato di tornarvi ancora ben più di una volta.

I. Il disegno come fondamento

Che il disegno sia alla base delle arti, e della conoscenza del mondo, è un dato di fatto che trova conferma fin dalle prime forme di manifestazioni artistiche di cui abbiamo traccia (e che risalgono ad epoche preistoriche) e perdura almeno fino alle soglie del Novecento. Una codifica teorica di ciò la si trova nel Libro dell’arte di Cennino Cennini (1370-1440) pittore fiorentino che scriveva: “El fondamento dell’arte e di tutti questi lavorii di mano principio è il disegno.” ed ancora: “Sai che t’avverrà, praticando il disegnare di penna? Che ti farà sperto, pratico e capace di molto disegno entro la testa tua”.

Convinzioni pienamente condivise da Leonardo che, fra le tecniche in uso al suo tempo: a pennello su tela di lino, a punta d’argento su carte preparate, a penna e inchiostro… prediligeva appunto quest’ultima; praticata, con la particolarità del tratteggio curvo, in innumerevoli taccuini nei quali i suoi disegni erano spesso accompagnati da annotazioni sui suoi studi col tipico andamento da sinistra verso destra!

E poiché la carta era preziosa, e non così diffusa come oggi, la si sfruttava al massimo sovrapponendovi disegni diversi o più esercizi di figure.

Oltre all’esercizio Leonardo, ma non soltanto lui (ovviamente), usava il disegno per studiare la composizione di un dipinto delineandone la rigorosa struttura entro la quale lasciar libera la propria inventiva.
In mostra evidenziano questo modo di procedere un suo studio prospettico per l’Adorazione dei Magi, in cui uomini, cavalli e dromedari sono estremamente dinamici all’interno di una ben precisa forma architettonica, e un disegno per il Trionfo di San Tommaso d’Aquino di Filippino Lippi che, più giovane di Leonardo, con lui condivise alcuni lavori e dal suo stile grafico di schizzo veloce fu indubitabilmente influenzato.
Un disegno, quest’ultimo, che il nostro gusto contemporaneo può arrivare ad apprezzare quasi, forse, più dello stesso affresco finito.

Altra pratica abituale era quella di appoggiare dei panni su una forma in terracotta ed osservare dove e come vi cadeva la luce (evidenziata nel disegno dai cosiddetti “rialzi” a biacca, una sorta di gesso) per poi riprodurne gli effetti sull’opera vera e propria.

Non si può, infine, parlare di Leonardo e del disegno senza soffermarsi sui suoi studi di volti femminili. Il primo che la mostra ci presenta, caratterizzato da un’elaborata acconciatura e datato 1468-1475 è uno dei rari disegni attribuibili alla sua giovinezza quando era apprendista presso la bottega fiorentina di Verrocchio (dal 1465 al 1476 circa).

Un volto che ritroviamo in quello della Vergine nell’Annunciazione (1478-80 circa). A lungo attribuita a Lorenzo di Credi - che nelle “Vite” del 1550 Vasari ricorda come “compagno, caro amico e molto dimestico di Lionardo da Vinci, che insieme, sotto Andrea del Verrocchio, lungo tempo impararono l’arte” - oggi invece viene considerata di Leonardo da Vinci.

È una piccola tavola impaginata in orizzontale dove, per la prima volta, l’episodio evangelico non è ambientato al chiuso o comunque sotto forme architettoniche ma all’aperto e la firma di Leonardo può essere letta nell’introduzione di una molteplicità di punti di fuga prospettici (le cui regole ne prevedevano uno soltanto) e nei cosiddetti “perdimenti”, per cui le figure più vicine sono più nitide e quelle più lontane meno definite.

E poi ancora… nelle ali sollevate dell’angelo, che danno l’idea del movimento appena avvenuto, nel realismo dei fiori, dimostrazione di un accurato studio botanico, nel modo in cui sono rese le pieghe del manto della Madonna di cui più sopra abbiamo visto le premesse.

Ed in effetti in proposito Leonardo scriveva: “Del modo del vestire le figure. Osserva il decoro con che tu vesti le figure secondo li loro gradi e le loro età e, sopra ’l tutto, che li panni non occupino il movimento, cioè le membra, e che le dette membra non sieno tagliate dalle pieghe, né dall’ombre de’ panni. Et imita quanto puoi li Greci e Latini col modo del scoprire le membra, quando il vento appoggia sopra di loro li panni. E fa poche pieghe; sol ne fa assai nelli uomini vecchi togati e di autorità“.

Panneggi resi con stupefacente esibizione di abilità dal venticinquenne Botticelli nella Fortezza (1470), virtù cardinale dipinta subentrando a Piero del Pollaiolo, che tardava nella consegna per la Sala dell’Udienza nel Tribunale di Mercanzia a Firenze, ma che non gli valse l’intera commissione!

La sezione mostra infine il confronto fra Madonna Dreyfus (1469-70) di Leonardo, in cui il Figlio appoggia la mano sinistra su una melagrana aperta e ne porge, interrogativo, due grani con la destra a sua madre, e quella che Lorenzo Di Credi ritrae mentre allatta (1480-85 circa).
Per quanto quest’ultima sia perfettamente conservata, il confronto consente di apprezzare la differenza fra un ottimo artista ed il genio: tanto è “vaporosa” quella leonardesca, tanto è “piatta” quella del compagno di bottega che pure cerca di avvicinarsi allo stile dell’amico. Fuori dal confronto resta comunque un bel dipinto del quale colpisce su tutto la rigorosa suddivisione dei colori accostati in maniera netta e belli nella loro vivace luminosità: come il rosa malva del cuscino ornato di fiocchi agli angoli. Ancora si ammira la leggera trasparenza del velo sulla testa di Maria e della fascia che la cinge in vita e nella quale il Bambino infila curiosamente la mano mentre due figurine si avvicinano dalla strada campestre sulla destra, oltre il colonnato. Sulla sinistra una composizione floreale in vaso è resa con buon dettaglio ma senza arrivare al realismo naturalistico di Leonardo.

II. Natura e scienza della pittura

Negli anni in cui Leonardo (a Firenze dal 1464 circa) completava la propria formazione nella bottega del Verrocchio, la rappresentazione della natura aveva le caratteristiche che possiamo vedere nell’Adorazione dei Magi (1470 circa) che si ritiene cominciata da Filippino Lippi e terminata da Botticelli: due dei più significativi esponenti della pittura fiorentina del tempo.

Personalmente ne abbiamo apprezzato la nitida luminosità e le divertenti scenette di contorno che contiene: dal personaggio che, sulla sinistra, si annoia col cane, al chierico inginocchiato davanti al vescovo sulla destra, a frati ed eremiti che pregano o ricevono apparizioni sulle montagne dello sfondo… Montagne e paesaggio che hanno una gran parte nel dipinto ma le cui rocce hanno un po’ l’aspetto delle rocce di polistirolo dei primi film della storia del cinema girati in studio; ed anche le murature in rovina della capanna sembrano quelle di cartone delle scenografie teatrali.

Caratteristiche presenti anche nella Pietà con san Girolamo e santa Maria Maddalena (1473 circa) del Perugino, anch’esso a bottega dal Verrocchio. Una rappresentazione ambientata in un paesaggio naturale che, verdeggiante sullo sfondo, è invece molto aspro in primo piano per amplificare il forte pathos della scena in cui la Madonna, nel rispetto delle rappresentazioni gerarchiche medievali, è dipinta più in grande dei santi ai lati. Le cattive condizioni della tela, opaca, e la rigida legnosità delle figure, e particolarmente dei panneggi, non ci fanno collocare quest’opera al vertice delle nostre preferenze.

Decisamente migliore è l’attenzione con cui Filippino Lippi rende il folto tappeto erboso, ricco di fiori molto realistici fra i quali riconosciamo margherite ed i batuffoli rosa del trifoglio, sul quale la Madonna ed il Bambino giganteggiano rispetto a Sant’Antonio da Padova ed il frate che sta presentando loro (1470): probabilmente il destinatario dell’opera, il cui pregio sembrerebbe contraddire il voto di povertà! Si ipotizza perciò che potesse essere stata commissionata prima di pronunciare i voti, o donata dalla famiglia al momento dell’ingresso in convento.

La conoscenza di questi presupposti permette di comprendere la portata innovativa del modo in cui Leonardo vedeva e riproduceva la natura partendo dall’osservazione diretta della realtà. Nel suo modo di pensare, la pittura prima che arte è “scienza e legittima figlia della natura” in quanto la natura si comprende con l’esperienza ed il disegno è lo strumento conoscitivo per eccellenza al quale Leonardo affida la registrazione immediata delle sue intuizioni.

“Se tu sprezzerai la pittura, la quale è sola imitatrice de tutte l’opere evidenti de natura, per certo tu sprezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme: aire, siti, piante, animali, erbe, fiori, le quali sono cinte d’ombra e lume. E veramente questa è scienzia […]” Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura.

Ecco dunque perché le rocce di Leonardo, tanto diverse da quelle “fasulle” di Filippino Lippi e Perugino, ci si presentano così vere. Come nel San Gerolamo, nella Vergine delle Rocce, nella Sala delle Asse al Castello Sforzesco e nella sua prima opera datata: “Paesaggio, 5 agosto 1473” (vedi disegno sopra).
Quando disegna questa una veduta a volo d’uccello (modalità di rappresentazione introdotta dai fratelli del Pollaiolo) l’artista era da poco iscritto alla Compagnia dei pittori di Firenze, la Compagnia di San Luca e, grazie alla successione di Lorenzo de’ Medici al padre Cosimo avvenuta nel 1469, per le arti a Firenze era appena iniziata una nuova Età dell’Oro.

Erano invece passati diversi anni da quando Leonardo aveva iniziato il suo apprendistato nella poliedrica bottega di Andrea del Verrocchio e dove probabilmente aveva acquisito l’abitudine all’uso regolare dei “libri di bottega”: raccolte di appunti, schizzi e modelli, destinati a una consultazione interna alla cerchia della medesima. Gli album di schizzi e taccuini di appunti diventano così i suoi strumenti principali per esprimersi come artista e come autore. Ce lo dimostrano il Fiume che scorre tra le rocce (1478-1481), Studi per un orso incedente con sottostante, in orizzontale, il disegno appena visibile di una donna incinta (1482-85 circa) e gli stupendi Granchi (1478-82 circa).

Il primo è un raro e delicato disegno giovanile nel quale è possibile che Leonardo abbia studiato da vicino la topografia accidentata della parte sud-orientale della valle dell’Arno, che presenta formazioni rocciose particolarissime, simili a guglie. Un tipo di paesaggio che continuò sempre ad affascinare Leonardo e che si ritroverà negli sfondi delle due versioni della Vergine delle rocce e nelle osservazioni geologiche annotate nel Codice Leicester. Sul secondo, appartenente al periodo milanese, c’è chi afferma che Leonardo possa averne visto uno dal vero durante una caccia all’orso della corte sforzesca in Valtellina o Valchiavenna.

Come questo continuo esercizio si riflettesse in pittura si apprezza nello smagliante Tobia e l’angelo (1470-72 circa) di Verrocchio in cui tutto è leggerezza ed eleganza.
Le loro figure più che in cammino sembrano intente ad accennare passi di danza fra pietre che appaiono come fragranti michette o, meglio, meringhe.
Seguendo il loro movimento i boccoli dei capelli ondeggiano ritmicamente lanciando tutto attorno lampeggi dorati.
Le pieghe nei panneggi degli abiti sono morbide e ricadono con naturalezza in una fitta alternanza di luci ed ombre.
Mentre frange, mantelli ed i capi della fascia annodata in vita di Tobia… si librano nell'aria come le variopinte ali dell'angelo.
E cosa dire, infine, dell’agitarsi del bellissimo pesce che il giovane regge legato con lo spago e nel quale c’è chi ha riconosciuto la mano di Leonardo.
Sembra sia stato dipinto usando una lente, perché ogni scaglia è una pennellata! Sempre attribuiti all'allievo (ma che allievo!) sarebbero i dettagli dei ricami sulle maniche dei due personaggi ed il barboncino “dell’uomo invisibile” che sbuca da dietro i piedi dell’angelo.

III. Il paragone delle arti

Avesse preso parte alle dispute fra intellettuali sulla superiorità di un’arte rispetto ad un’altra abbiamo già visto che, nel confronto fra pittura e scultura, Leonardo avrebbe decretato la prima prevalente.
Eppure anche la seconda non gli era estranea. Ne è indizio caratteristico il fatto che nei suoi disegni, come in quelli del suo maestro - ad esempio nello Studio per una Madonna col Bambino (1474 circa) -, le forme spesso non sono definitive ma variate di continuo, al punto di arrivare a nascondere l’idea iniziale: e questo è proprio ciò che fa lo scultore nel modellare la creta.
Del resto Verrocchio era più scultore che pittore, e nella sua bottega la relazione tra le due espressioni artistiche si ritiene fosse molto stretta ed era prassi consueta riprendere in pittura modelli plastici o, viceversa, trarre opere tridimensionali da soggetti dipinti.
Primo esempio in mostra di questo interscambio è lo Studio di angelo (1480-83 circa) di Lorenzo di Credi che ricalca in tutta evidenza l’angelo reggimandorla di destra dei due in terracotta realizzati da Leonardo (1475 circa).
Quanto Andrea del Verrocchio fosse bravo lo vediamo in mostra nel meraviglioso Giovane addormentato (1474-75 circa), nel quale la cura del dettaglio rasenta la perfezione.
Di lui Vasari ricorda che “lavorò […] alcune cose di terra nel che era eccellente […], come si vide […] in una testa di san Girolamo che è tenuta maravigliosa”.
Oggi questa non l’abbiamo più ma si può pensare fosse non troppo diversa dal Busto di san Girolamo (1475-1480) proveniente dalla sua bottega, dalle tempie scavate, le ossa sporgenti, la bocca sdentata semi aperta in un lamento e lo sguardo sofferente che invoca aiuto dall’alto.
Tutte caratteristiche che si ritrovano puntualmente nel San Girolamo (1485-1490) dai Musei Vaticani. Non si sa quale destinazione avesse né perché Leonardo non lo terminò.
Forse non era soddisfatto delle proporzioni anatomiche del braccio troppo lungo e largo e delle gambe troppo corte. Però è un non finito che, nei suoi colori bruno e giallo ocra, ci piace e mostra come Leonardo lavorasse: non per sezioni distinte (come si è visto di suoi seguaci nella concomitante mostra sul Primato del disegno a Brera) ma facendo crescere l’opera tutta assieme!
L’ultimo, “definitivo”, confronto fra maestro e allievo che ci è proposto in questa sala comincia dalla Dama col mazzolino (1475-78) di Verrocchio: busto in marmo nel quale fanno la loro comparsa le mani; dalle dita lunghe ed affusolate con un movimento un po’ innaturale per l’inarcamento all’indietro.
Frontalmente un po’ squadrata, nella leggerezza delle pieghe del velo che ne trattiene i riccioli e più spesse, invece, nel vestito dimostra una grande attenzione alla diversa natura dei materiali raffigurati, come anche negli stessi fiori e nella fascia sfrangiata.
È una scultura che per la sua complessiva naturalezza sembra quasi pittura e viene da pensare l’abbia realizzata Leonardo, invece è lo stesso Verrocchio che copia dal suo allievo e cerca di stare al suo passo.
All’opposto, la Belle Ferronnière (1493-95 circa) è scultorea nella sua posa nobilmente distaccata: una distanza sottolineata dal parapetto dietro al quale si trova e che taglia la parte inferiore del dipinto ma contrastata ed equilibrata dallo sfondo nero che fa balzare in avanti la figura nella quale comincia a comparire la tecnica dello sfumato.
Il suo sguardo rivolto in alto a destra continuamente ci sfugge inducendoci a spostarci per inseguirlo, proprio come ci muoveremo attorno ad una statua. Un movimento relativo replicato da quelli, duplici, del busto, presentato di tre quarti, e del volto, frontale, che innescano una sorta di torsione a spirale.
Elegantissima senza bisogno di essere sfarzosa la dama veste un raffinato corsetto vellutato e dagli orli ricamati il cui colore rosso si riverbera sulla sua guancia e le cui maniche, sganciabili e sostituibili come usava all’epoca, sono fissate con nastri annodati e lasciano in mostra sbuffi bianchi della veste sottostante.
Forse la parte meno riuscita sono i capelli, un po’ troppo schiacciati sulla testa e che sembra di intravedere siano lunghi e raccolti nel coazzone (coda), acconciatura di moda all'epoca, che le ricade lungo la schiena.
Il nastro (in altri casi una catenella) che li cinge, e regge un gioiello sospeso sulla sua fronte, è un ornamento tipico del tempo che veniva chiamato ferronnière da Madame Ferron, amante del re Francesco I di Francia.
Da questo particolare prende il nome il dipinto, conosciuto anche come “Presunto ritratto di Lucrezia Crivelli” dama di compagnia di Beatrice d’Este ed amante di Ludovico il Moro, dal quale ebbe un figlio nel 1497, ed in quanto legata al duca la sua anima non poteva essere avvicinata da altri, per questo c'è chi vede in lei una donna senz'anima.

IV. Il paragone con gli antichi

Profili classici

Per esplicitare le relazioni di Leonardo con i modelli dell’antichità la mostra articola la sua quarta sezione in sette ulteriori sottosezioni.
Spettacolare è la prima di esse, dedicata ai profili classici dei busti in marmo dei condottieri Scipione e Alessandro Magno (1480 circa) della Bottega del Verrocchio. Opere nate nel Giardino di San Marco a Firenze, il cosiddetto Orto dei Medici, dove Lorenzo il Magnifico aveva raccolto una serie di sculture antiche che i giovani artisti fiorentini, sotto la guida dei maestri anziani come Verrocchio e poi Bertoldo, avevano il compito di studiare e copiare.
Che si rifacessero tutte agli stessi modelli è dimostrato dal fatto che, seppure in diverse varianti, mostrano elementi ricorrenti nelle stesse posizioni: la forma arrotondata dell’elmo, a ricalcare l’avvolgimento del guscio dei gasteropodi marini, il drago che lo sovrasta, l’arpia alata che dalla piastra frontale della corazza lancia il suo urlo stridulo e la nobile giovinezza del soggetto raffigurato.
Di Leonardo è esposto il disegno di una Testa maschile di profilo verso destra coronata di alloro (1506-08 circa) nella quale si nota che, mentre il volto è ben delineato ed inciso a partire dalla fronte e scendendo in basso fino al labbro imbronciato ed al mento, nella parte posteriore il tratto della matita rossa è invece sfumato e quasi “non finito”.
Un volto che ci sembra di riconoscere nel terzo, più tardo, profilo in mostra: una terracotta invetriata della Bottega dei Della Robbia col profilo, verso sinistra, di Dario (1500-15) ed i dettagli lievemente modificati.
Qui il cimiero dell’elmo è un delfino, il drago scende sulla spalla e l’arpia diventa un leone.
Una raffigurazione nella quale si riconosce ancora un altro disegno di Leonardo (non esposto): Profilo all’antica, ritratto ideale del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio che, in quegli anni, per conto del Re di Francia Luigi XII, aveva spodestato Ludovico il Moro dalla signoria del ducato di Milano.

L'uomo vitruviano

L’attenzione di Leonardo per le forme e le proporzioni i visitatori l’hanno potuta ammirare nel suo più arcinoto disegno: Le proporzioni del corpo umano secondo Vitruvio (Uomo vitruviano, 1490 circa). Esposto soltanto per un mese, e poi restituito per ragioni di conservazione al Gabinetto dei Disegni e Stampe delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, come noto rappresenta il prototipo umano inscritto in forme geometriche.
Lo precedono e seguono note esplicative, non altrettanto conosciute, che si rifanno ad un passo del De Architectura (15 a. C.) di Vitruvio:

« Vetruvio, architetto, mette nella sua opera d'architectura, chelle misure dell'omo sono dalla natura disstribuite in quessto modo cioè che 4 diti fa 1 palmo, et 4 palmi fa 1 pie, 6 palmi fa un chubito, 4 cubiti fa 1 homo, he 4 chubiti fa 1 passo, he 24 palmi fa 1 homo ecqueste misure son ne' sua edifiti.
Settu apri tanto le gambe chettu chali da chapo 1/14 di tua altez(z)a e apri e alza tanto le bracia che cholle lunge dita tu tochi la linia della somita del chapo, sappi che 'l cientro delle stremita delle aperte membra fia il bellicho.
Ello spatio chessi truova infralle gambe fia triangolo equilatero »

« Tanto apre l'omo nele braccia, quanto ella sua altezza. Dal nasscimento de chapegli al fine di sotto del mento è il decimo dell'altez(z)a del(l)'uomo. Dal di sotto del mento alla som(m)ità del chapo he l'octavo dell'altez(z)a dell'omo. Dal di sopra del petto alla som(m)ità del chapo fia il sexto dell'omo. Dal di sopra del petto al nasscimento de chapegli fia la settima parte di tutto l'omo. Dalle tette al di sopra del chapo fia la quarta parte dell'omo. La mag(g)iore larg(h)ez(z)a delle spalli chontiene insè [la oct] la quarta parte dell'omo. Dal gomito alla punta della mano fia la quarta parte dell'omo, da esso gomito al termine della isspalla fia la octava parte d'esso omo; tutta la mano fia la decima parte dell'omo. Il membro virile nasscie nel mez(z)o dell'omo. Il piè fia la sectima parte dell'omo. Dal di sotto del piè al di sotto del ginochio fia la quarta parte dell'omo. Dal di sotto del ginochio al nasscime(n)to del membro fia la quarta parte dell'omo. Le parti chessi truovano infra il mento e 'l naso e 'l nasscimento de chapegli e quel de cigli ciasscuno spatio perse essimile alloreche è 'l terzo del volto »

Il monumento Sforza

Le tre successive sottosezioni hanno a che fare con due monumenti equestri in bronzo, entrambi mai realizzati. Il primo, commissionato da Ludovico il Moro per celebrare Francesco Sforza, suo padre e capostipite della dinastia (si veda anche L'Arte al tempo dei Visconti-Sforza), il secondo per il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, già condottiero delle truppe sforzesche di Ludovico e poi, alla testa dell’armata francese, artefice della caduta della medesima.

Seppure ad oggi non sia possibile attribuire con certezza a Leonardo nessuna scultura, ed i progetti dei monumenti equestri a Francesco Sforza e a Gian Giacomo Trivulzio non arrivarono mai al momento della fusione, i suoi dettagliati studi tecnici e stilistici a essi dedicati ci permettono comunque di almeno ipotizzare cosa egli avesse in mente di realizzare e come pensava di operare, e fanno dei suoi manoscritti la più completa fonte in nostro possesso sulle tecniche di fusione utilizzate alla fine del ‘400.

Il progetto del monumento per Francesco Sforza comincia con la lettera di presentazione di Leonardo a Ludovico il Moro, scritta tra il 1482 e il 1485, nella quale si propone per “dare opera al cavallo di bronzo che sarà gloria immortale et aetterno honore de la felice memoria del signor vostro patre et de la inclita Casa Sforzesca”. Inizialmente, forse ispirandosi a disegni per una statua equestre di Antonio del Pollaiolo, Leonardo pensa di realizzare un cavallo rampante a dimensione naturale. Ce ne dà un'idea il suo Studio per monumento equestre (1485-90 circa).

Ma non convinse del tutto il Moro e dunque, scrive Leonardo, “Adì 23 Aprile 1490 chominciai questo libro e richominciai il cavallo”. Nel nuovo progetto il cavallo doveva essere alto 7,20 metri ed incedere al passo senza supporti scenografici, sul modello della statua cosiddetta del Regisole vista a Pavia (che venne distrutta durante i moti giacobini del Settecento).

Sotto il profilo della statica Leonardo aveva previsto che le due zampe portanti sarebbero dovute essere di bronzo pieno e fuse insieme alla base, il cui peso complessivo doveva essere come i 3/5 dell’intero monumento. Non è chiaro se, date le grandiose dimensioni, pensasse di realizzarlo col metodo a cera persa diretto in una singola colata o avesse inventato un nuovo metodo di fusione alternativo di tipo indiretto che prevedesse la realizzazione della forma in più sezioni distinte da assemblare dentro la fossa di fusione.
Quel che è certo è che dedicò grande attenzione allo studio dei più bei cavalli esistenti a Milano, delle loro forme, dei muscoli attivati nei diversi movimenti. Uno studio fin troppo meticoloso, attestato ad esempio dal Profilo e fronte di cavallo (1490 circa), ma che sembra spazientisse il committente il quale, dubitando che il suo artista sarebbe riuscito a completare l’opera, si informava presso il suo alleato Lorenzo il Magnifico sulla disponibilità di possibili sostituti ai quali passare l’incarico.
Infine però un colossale modello in creta venne realizzato ed esposto pubblicamente nel 1493 suscitando l'ammirazione generale. Era infatti "12 braccia alto la cervice" (più di sette metri). A quel punto l'opera doveva solo essere ricoperta di uno spesso strato di cera e quindi della "tonaca" in terracotta, in cui versare il metallo fuso. Tutto era pronto per realizzarla, ma le verosimilmente 70 tonnellate di bronzo necessarie non erano più disponibili. La situazione politica era nel frattempo precipitata. Nello stesso anno Leonardo lascia Milano riparando a Mantova e nel 1494 Ludovico il Moro, preoccupato dalla discesa in Italia di Carlo VIII, cambia destinazione d’uso al bronzo immagazzinato per il monumento facendone artiglieria.
E così nel 1499, durante la presa di Milano seguita alla cacciata del Moro, il modello in argilla del cavallo fu distrutto a colpi di balestra dalle truppe francesi.
Il lavoro progettuale sviluppato per il monumento Sforza tornò utile qualche anno più tardi, probabilmente dopo il suo rientro a Milano, quando nel 1506 Leonardo venne incaricato dal maresciallo Gian Giacomo Trivulzio di realizzare il suo monumento funebre che voleva sormontato da una statua equestre in bronzo. Leonardo riprese i suoi studi e nuovamente pensò a due versioni, con il cavallo impennato e con il cavallo al passo, ma anche questa scultura non venne mai realizzata, ce ne resta però il Preventivo esposto in mostra (1506-08).
Per inciso, nel Novecento, negli USA venne radunato un comitato scientifico di esperti leonardeschi al quale si fece realizzare un modello del cavallo che nel 1999 venne fuso in pezzi separati e poi uniti a Milano. L’opera venne collocata presso l'Ippodromo di S. Siro, dove oggi è visibile in tutta la sua mole e la sua bellezza. Ad onor del vero bisogna tuttavia precisare che non si tratta di una copia esatta dell’originale, di cui come si è visto restano pochi schizzi, del tutto insufficienti a farsi un'idea precisa del progetto di Leonardo. In proposito l'allora Direttore del Museo della Scienza Domenico Lini scrisse: "siamo di fronte non al "cavallo di Leonardo", ma ad un omaggio a Leonardo che appartiene all'area dell'ispirazione e non a lui".

Questa quarta sezione della mostra potrebbe anche essere definita la “sezione delle opere perdute” perché tali sono anche le altre due che ne sono protagoniste: l’affresco per la Battaglia di Anghiari (Arezzo) e la Leda.

Battaglia di Anghiari

Il primo, celebrativo della vittoria dei Fiorentini sui Milanesi del 1440, viene realizzato attorno al 1503 quando Leonardo torna temporaneamente a Firenze ma l’opera risulta perduta già dal 1549 e il suo cartone durante la stessa sua realizzazione. Ne sono antecedenti di riferimento suoi studi come il Cavaliere in lotta col dragone, la Mischia di combattenti a cavallo ed altri di cavalli rampanti ed impennati che sono al centro dell’opera di cui in mostra (purtroppo anche in questo caso soltanto per il primo mese) è la cosiddetta Tavola Doria o Lotta per lo stendardo che fa rimpiangere quello che non ci è più dato di ammirare.

Attraversata una saletta di passaggio con disegni di soggetti mutuati dall’antichità classica, come Nettuno, il dio del mare, governa la quadriga di cavalli marini (1503-05 circa), eccoci alla Leda, regina di Sparta.

Leda

La vicenda mitologica narra che, per sedurla, Zeus assunse la forma di un cigno e dalle uova frutto della loro unione nacquero Elena, Clitemnestra e i Dioscuri, i gemelli Castore e Polluce. Il celebre dipinto in cui Leonardo da Vinci aveva rappresentato questo mito era già descritto in cattive condizioni nelle collezioni reali di Fontainebleau nel 1625. Oggi ne abbiamo traccia solo dalle fonti storiche che ne parlano e dalle numerose copie arrivate fino a noi, fatto che dimostra quanto fosse apprezzato al suo tempo.
Ne sono esempi in mostra una statuetta di alabastro del primo terzo del XVI secolo, probabilmente proprietà di Isabella d’Este, ed una delle sue versioni di più alta qualità: la Leda Spiridon (1505-10 circa). Per lungo tempo fu attribuita a Leonardo, ma a noi non sembra proprio che la sua mano avrebbe potuto dipingere un cigno dalla testa più simile a quella di un uccello preistorico. Ancora oggi non è ne certo l’autore. Si pensa a Fernando Yàñez de la Almedina: il “Ferrando spagnolo dipintore” che assisteva Leonardo ai tempi della Battaglia di Anghiari, gli stessi a cui risalgono i lavori su Leda.

Ancora una volta, perciò, dobbiamo “accontentarci” dei disegni. Gli Studi di testa femminile (1505-07), ornata da ricercate acconciature, ed il bellissimo Studio per testa di Leda (1505-06 circa) a sanguigna su carta preparata ci suggeriscono le sembianze del volto della sua Leda e ci fanno intuire quanto dovesse essere meraviglioso il dipinto disperso di Leonardo.

V. Anatomia fisiognomica e moti dell’animo

Come si è visto, l’abitudine di Leonardo di produrre schizzi su carta era una fase normale dell’elaborazione delle sue composizioni. In particolare quelli per la Madonna del gatto - che sembra quasi un orsetto - (1478-81 circa) sono il primo esempio nel quale si può cogliere il suo metodo di lavoro: eseguiti con splendida spontaneità, offrono una miniera di idee compositive per la posa delle figure e sembrano addirittura suggerire il movimento come fossero un fotogramma di pellicola cinematografica. Stessa impressione suscitata dall’altrettanto bello Madonna col Bambino, sant’Anna e un agnello (1500-01 circa).

Un altro genere di movimento, quello interiore dell’anima, è protagonista del dialogo di sguardi della successiva piccola saletta di passaggio.

“Farai le figure in tale atto, il quale sia sofficiente a dimostrare quello che la figura ha ne l’animo; altrimenti la tua arte non fia laudabile.” Scriveva Leonardo nel suo Libro di Pittura.

Un’intenzione propria anche di altri due grandi del tempo: Giovanni Bellini ed Antonello da Messina. In una ben riuscita disposizione (forse ad eccezione delle pedane distanziatrici, che grandi e bambini scambiano per gradini messi apposta per salirvi ed avvicinarsi ai dipinti in modo da vederli meglio!) ci è presentato il dialogo di sguardi fra tre ritratti maschili: Ritratto d’uomo che ride (1465-70) del primo, Poeta laureato (1470 circa) del secondo e Ritratto di musico (1485 circa) di Leonardo.

Un vero dialogo muto, la bocca di tutti è chiusa, ma ognuno esprime sentimenti diversi. Interlocutorio nello sguardo del poeta che fissa i suoi occhi nei nostri. Ironico, nell’uomo di Antonello, al quale basta piegare un poco gli angoli della bocca e far socchiudere gli occhi al suo modello per rendercelo vivissimo ed emergente dal nero dello sfondo nel quale si confondono i suoi abiti ed il suo copricapo, illuminati dai lampi bianchi del bavero e della camicia.
Dopo la morte di Zanetto Bugatto, il pittore di corte che aveva importato a Milano i modelli della pittura nordica (si veda ancora la sezione a lui dedicata in L'Arte al tempo dei Visconti-Sforza), sappiamo che Antonello da Messina nel 1476 era venuto a Milano per mostrare un suo ritratto al Duca sperando probabilmente di prenderne il posto.

Leonardo doveva dunque averne conosciuto i lavori ed il suo Musico (1485 circa), che sarà possibile tornare a vedere all’Ambrosiana, ne sembra essere una prova. Anche a Leonardo il busto non interessa, contano solo i capelli che gli incorniciano il viso… ed il suo sguardo: rivolto altrove, come a seguire gli ultimi accordi della musica, l’arte più effimera, che appena eseguita subito svanisce. Al contrario della pittura, fatta invece per durare… si fa per dire visti anche noti esempi leonardeschi che contraddicono questa sua convinzione!

Questa relazione fra azioni, attitudini del corpo e moti mentali, presenti nei ritratti eseguiti alla corte di Milano fra il 1485 ed il 1495, sono presenti in altri numerosi disegni allineati nella sala successiva.

Lo studio della postura di braccia e mani per il ritratto di Cecilia Gallerani, la Dama con l’Ermellino. La Scapiliata (1504-08 circa), che emerge veramente vibrante dalla tavola di pioppo sulla quale è tracciata in terra ombra e ambra inverdita lumeggiata di biacca (foto a lato).
Peccato che anche quest’opera, come un po’ troppe altre, non sia rimasta in mostra per tutta la sua intera durata.
Le pur comprensibili ragioni che obbligano alla restituzione non ci sembrano convincenti e non giustificano questa operazione.
Ad ogni modo gli interessati potranno andare a ritrovarla alla Galleria Nazionale di Parma.

Un’altra dolcissima Testa di donna (1488-90 circa) quasi di profilo, inclinata verso il basso e coi capelli raccolti da un velo sempre leggero.

Altrettanto delicato è il volto maschile nello studio Testa, busto e mano sinistra d’uomo, e quattro studi d’architettura (1492-94 circa). C’è chi ritiene che sia il modello dal quale Leonardo disegnò poi il volto di Giacomo Maggiore nell’Ultima cena.

Più severa è la Testa maschile di profilo verso destra (1495 circa), anch’essa in relazione con i commensali del Cenacolo: o Matteo, terzo da destra, o Bartolomeo, primo da sinistra. Tracciato a matita rossa su carta preparata in rosso, trova la critica unanime nel definirlo uno splendido autografo per l’abilità con la quale Leonardo, fra luce e ombra, fa affiorare e prendere vita al personaggio. Riesce infatti magistralmente nella difficile impresa di rendere la pelle del volto che sarebbe dovuto essere quasi in ombra, visto che la testa è colpita da una luce obliqua che proviene dall’alto e da sinistra, quindi da dietro la nuca.

Questo disegno, che ricorda quello già citato coronato d’alloro, è una sorta di tramite nel passaggio dalla rappresentazione ideale dell’infinitamente bello, come i delicati volti femminili, al mostruosamente brutto: i due antipodi della condizione umana.

Arriviamo dunque, infine, alle caricature delle Cinque teste grottesche (1493-95). Anche qui troviamo un altro “poeta laureato”, serio e contrariato per il fatto di essere l’apparente bersaglio del dileggio di figure burlesche che ostentano gole urlanti, labbroni sporgenti da masticazione inversa e mascelle protratte.

Simpatica è la trovata dell’allegoria Fedeltà del ramarro. Con l’animale che combatte un serpente per difendere l’uomo triste ed ignaro del pericolo seduto sotto un albero.

Ritorna poi in mostra l’interesse per le proporzioni della figura umana studiato a fondo da Leonardo tra il 1485 e il 1495. Per definirla “bene figurata”: “[…] debbe il pittore fare la figura sopra la regola d’un corpo naturale, il quale comunemente sia di proporzione laudabile”.

Nel Busto di uomo di profilo con studio di proporzione (1489-90 circa), il volto è ingabbiato in una griglia di linee che lo dividono in tre parti, ognuna delle quali corrisponde alla misura dell’orecchio!
In altri disegni sono rappresentate l’anatomia della caviglia e delle dita dei piedi oppure i diversi piani degli innumerevoli muscoli della gamba, della cui esistenza, normalmente ignorata, si rende bene conto chi sia stato soggetto ad interventi chirurgici che li abbiano in vario modo interessati!
Per arrivare a questo dettaglio di osservazioni, senza arrivare ad operazioni cruente come la dissezione di cadaveri alla quale si dice che Leonardo si dedicasse, ci è stato riferito che egli guardasse con attenzione le persone gracili: la cui struttura ossea e muscolare era meglio visibile in quanto non nascosta sotto strati di grasso!

VI. Invenzione e meccanica

Quando si diceva, in principio, dell’opportunità di una mostra su Leonardo diffusa in Milano, una delle opzioni più importanti era proprio quella relativa a questa sezione. È chiara e nota a tutti l’importanza dell’attività di Leonardo anche in questo settore, ma sembra un voler proprio mettere “di tutto un po’” il portare a Palazzo Reale anche due delle ricostruzioni di macchine leonardesche del Museo della Scienza e della Tecnica.
Mentre là fanno “massa critica” e “respirano” nell’ampio corridoio, qui ci sembrano, sinceramente, fuori contesto. Meglio sarebbe stato fare l'inverso, ovvero portare nella loro sede permanente una sezione della mostra con i disegni relativi a ciascun modellino. Ad ogni modo di questa sezione ricordiamo lo Studio prospettico di un “mazzocchio” (1510 circa) che non abbiamo capito bene cosa sia ma che di certo deve il nome alla sua forma che ricorda un tipico copricapo dell’epoca. Ed ancor più indimenticabile, nello Studio di carri falcati (1485 circa), è il dettaglio dei nemici fatti letteralmente a pezzi dopo il loro passaggio!

VII. Il sogno

Alla concretezza della realizzazione di macchine Leonardo affianca il sogno di far muovere l’uomo anche nei due elementi, acqua e aria, per i quali la natura non l’ha dotato di caratteristiche che glielo consentano.

I suoi studi per camminare sopra e sotto le acque, tuttavia, non nascono dal nulla. Egli parte infatti da intuizioni e progetti già ideati degli ingegneri senesi suoi contemporanei - Jacopo Cozzarelli, Francesco di Giorgio Martini, Mariano di Jacopo (il Taccola) – e li supera non solo per le soluzioni alle quali giunge, ma anche per l’attenzione che pone ai materiali con cui realizzare i progetti.

Risulta che l’occasione per questi studi, che non ebbero però applicazione pratica, sia stata l’esigenza di contrastare gli assalti dei pirati nelle vicinanze del porto di Genova.
Molto bello è un disegno di palombaro, che non sarebbe stato fuori posto come illustrazione per 20.000 leghe sotto i mari e che, per respirare, tiene in bocca un tubo al quale l’aria viene inviata da un mantice.
Dagli Studi per palombaro (1507-08 circa) e Figure e sistemi galleggianti per camminare sull’acqua e respirare sott’acqua (1480-82 circa) riproduciamo un particolare di uomo che, per camminare sull’acqua, sembra utilizzare delle racchette da neve!

Per quanto riguarda, invece, il volo umano, i manoscritti vinciani dimostrano che Leonardo lo studiò a lungo partendo dall’osservazione del volo di insetti ed uccelli. In un foglio del Codice Atlantico scriveva: “Per vedere il volare con 4 alie va’ ne’ fossati e vedrai le pannicule [libellule] nere”. Arrivò così a progettare prototipi operativi la cui originalità consiste nel tentativo di sfruttare il sostegno del vento (come fa un aliante) anziché usare la forza muscolare.

Non sappiamo tuttavia se provò mai a collaudare davvero le sue macchine per il volo dalle grandi ali come quella del disegno di Grande ala meccanica (1478-80 circa).

VIII. Realtà e utopia

Forse un po’ provato dalla visita che comincia farsi impegnativa, quando arriva alla sala in cui è esposta la bellissima versione di Urbino della Città Ideale (ultimo quarto del Quattrocento), può essere che l’appassionato d’arte cominci a vacillare domandandosi se è ancora nella mostra dedicata a Leonardo.
È pur vero che nei primi anni del Cinquecento, appena lasciata Milano, Leonardo viaggerà anche nelle Marche dove sarà senz’altro venuto a contatto con gli ambienti che hanno prodotto un tale capolavoro.
Tuttavia si tratta di un’immagine a nostro avviso “troppo intensa” per essere collocata come icona in una sala dedicata alle visioni utopiche di città contenute nei trattati di Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini o nella Sforzinda di Filarete.

Non conoscendo il latino Leonardo non può studiare i classici dell’architettura e non rivaleggia con i sopra citati nel proporre soluzioni utopiche.
È invece molto più interessato a risolvere problemi concreti come quelli dell’igiene urbana, a proposito della quale osserva che a Milano, a ridosso delle corti nobiliari, vi sono innumerevoli persone che vivono le une addosso alle altre "come capre", in condizioni di estremo degrado. Fra le soluzioni che propone per progetti di quartieri di Milano c’è dunque quella di costruire strade a dorso d’asino in modo che possano essere ripulite dalle piogge. Un’altra sua idea è quella della città su due piani. Con quello superiore destinato alla vita delle classi agiate e quello sottostante, attraversato anche da canali, dedicato ai commerci ed alle attività di servizio.
In mostra sono inoltre esposti una Pianta di Milano (1507-10) in cui la città è suddivisa in 10 sezioni (immagine a lato), una di Firenze, e poi disegni di fortezze, edifici ideali e, unici legati, forse, ad un progetto reale, gli studi per un Palazzo su un’isola del fiume e per il Palazzo di Romorantin in Francia (tutti del 1516-18 circa).

IX. L’unità del sapere

Personalità emblematica dell’umanesimo rinascimentale, per il suo eclettismo che gli permetteva di spaziare sempre ad alto livello da ogni tipo di arte (pittura, musica e scultura) a tutti i campi del sapere, abbiamo visto che Leonardo riteneva la pittura predominante perché “è sola imitatrice de tutte l’opere evidenti in natura” e con i suoi strumenti permetteva di affrontare tutti i campi d’indagine. Eppure in mostra compare una sua affermazione che rivela qualche dubbio: “Siccome ogni regno in sé diviso è disfatto, così ogni ingegno diviso in diversi studi si confonde e si indebolisce”.

Esempi del tentativo di fare sintesi del suo sapere in questa sezione sono disegni relativi al concorso per la copertura della crociera del “malato domo” come Leonardo lo chiama ed al quale lavora nel 1487-88. L’incarico viene poi affidato all’Amadeo ma ci restano i suoi disegni. Nella Sezione del tiburio del duomo (1485-1490 circa) si vede come i corsi di mattoni a incastro richiamano le vertebre della spina dorsale umana. Le nervature in pietra della cupola sono articolate in modo da poter assumere curvature regolari senza perdere l’integrità strutturale, esattamente la stessa funzione svolta dalla spina dorsale nei vertebrati.
Di poco successivi sono studi meravigliosamente accurati della “cupola” del cranio umano. Sezione del cranio (recto) e Cranio (verso) (1489) sono fra i suoi più celebri disegni anatomici.

Un altro parallelismo che ci è rimasto impresso è il suo paragonare il moto del “vello dell’acqua” con l’effetto di onda dato dal movimento dei capelli. Con l’ordine e il disordine dell’acqua in movimento turbolento, sia in natura sia in esperimenti allestiti in studio Leonardo si misurò più volte ed i suoi disegni su questo soggetto sono fra i suoi più belli. In Figura di uomo anziano seduto su una roccia, in un paesaggio, che guarda pensoso verso destra, e disegni e annotazioni sui gorghi d’acqua (1506-08 circa) si vede l’acqua che scorre veloce, sollevandosi nel superare un ostacolo verticale. Su questo foglio Leonardo scrive: “Nota il moto del livello dell’acqua, il quale fa a uso de’ capelli, che ànno due moti, de’ quali uno attende al peso del vello, l’altro al liniamento delle volte; così l’acqua à le sue volte revertiginose, delle quali una parte attende al inpeto del corso principale, l’altra attende al moto incidente e reflesso”.

A conferma di questa affermazione, nella stessa sala troviamo il San Giovanni Battista (1506-15 circa) in cui la stesura dei riccioli dei capelli richiama i disegni dei gorghi nell’acqua appena visti. L’opera, considerata uno dei vertici dell’attività pittorica di Leonardo, ha già salutato file di Milanesi nell’esposizione natalizia di qualche anno fa. A dimostrazione che il successo di una esposizione non si misura sulla quantità delle opere che è capace di allineare. Non è tuttavia fra le nostre preferite nonostante la particolarità della composizione che appartiene all’ultimo periodo, francese, della vita di Leonardo in cui ci pare di riconoscere, portati all’estremo, alcuni elementi che si erano via via presentati in altre opere del suo precedente percorso artistico.
Nella rotazione composta del corpo, accentuata dal movimento del braccio destro che indica l’alto, ricorda il movimento della Belle Ferronnière, l’inclinazione del capo rimanda ai tanti volti femminili, anche se qui lo sguardo non è timidamente rivolto verso il basso ma diretto a cercare di catturare gli occhi di chi guarda e la bocca è increspata in un sorriso al limite dell’ambiguità che, a dire il vero, non ci si attenderebbe in un personaggio che i vangeli ci presentano al contrario serio e severo.

X. De coelo e mundo: immagini del divino

Nella sezione che porta il titolo dell’opera in tre volumi di Aristotele, l’immagine che più immediatamente colpisce è l’affresco strappato di Bramante Eraclito e Democrito (1486-87). Si dice che nel volto di Eraclito piangente sia ritratto Leonardo (ma i contemporanei vi riconosceranno più banalmente l’allenatore di calcio Fabio Capello), mentre Bramante si sarebbe raffigurato come il ridente Democrito.
Entrambi in deformazione grottesca, costituiscono uno degli episodi (Una vendita di vite all'incanto) contenuti nei Dialoghi di Luciano (II sec. d. C.) il quale, rifacendosi ad una tradizione letteraria più antica, racconta che Giove e Mercurio si improvvisano venditori di filosofi e decantano le qualità dei rappresentanti di ogni scuola ad un acquirente che vuole saggiare la convenienza del suo investimento.
Eraclito e Democrito dunque rappresentano due atteggiamenti opposti nei confronti dell’esistenza: mentre il secondo ride di chi crede di trovare un senso assoluto in una realtà che non ne ha affatto, il primo, per contrasto (ma senza effettivi legami con la sua filosofia), si dispera al cospetto della sua tragicità.
Confidando che questo e gli altri affreschi di Bramante possano tornare al loro posto fra le collezioni permanenti di Brera dove, fra prestiti e mostre che li hanno sfrattati dalla loro sala I, nei mesi scorsi si sono visti poco, invitiamo chi potrà recarvisi ad osservarne la rappresentazione della sfera terrestre posta fra i due: nella quale le diverse regioni geografiche del mondo allora conosciuto sono rappresentate con grande precisione.

E lo sono altrettanto le carte geografiche che in mostra propongono la visione di Tolomeo nelle quali ci colpisce la dicitura “Arabia felix”, così contrastante con la realtà delle vicende internazionali che i notiziari portano quotidianamente nelle nostre case.

Non ci paiono invece meritevoli di grande attenzione gli altri dipinti in sala: l’Eraclito e Democrito del Figino (1570 circa), che inverte le posizioni dei filosofi resi in modo un po’ piatto, ed il Cristo Salvator Mundi (1505-10 circa), buono nel disegno della Terra, meno in quello del Cristo, senza le architetture viste nella versione del Bergognone.

Arriviamo dunque a Leonardo che, nella Veduta a volo d’uccello del bacino del Mediterraneo, note sulla sua formazione (1515 circa) dimostra una capacità di visualizzare e rappresentare il mondo con finissima competenza geografica e geologica, travalicando le convenzionali illustrazioni delle fonti a lui note. E peccato non riuscirne a leggere gli appunti, ci resta la curiosità di sapere se avesse anche ipotizzato il movimento della placca Africana contro quella Europea!

Una possibile sua precoce visione eliocentrica potrebbe invece esserci suggerita da una sua annotazione “El sol non si move” rinvenuta tra i fogli della Royal Library di Windsor 1510 circa. In un’altra scrive della terra che “come balla sta sospesa in fra l’aria”. L’osservazione del cielo fu per lui un interesse non primario ma tuttavia costante e diversi suoi disegni rappresentano i corpi celesti ed i loro fenomeni in relazione alla terra. Se questa pratica non era nuova tra gli artisti rinascimentali, Leonardo evitò le immagini allegoriche e astrologiche al modo dei suoi predecessori (nel trattato sulla Pittura criticherà astrologia e chiromanzia), e ritrasse invece gli oggetti del cielo osservabile così come egli li vedeva. Ne è un bell’esempio la Luna (1513-14 circa).

Il meglio di sé Leonardo però lo dà nella rappresentazione dei fenomeni naturali che può osservare direttamente e da vicino. In particolare nelle sue drammatiche visioni delle forze naturali stravolte nel fragore di un diluvio. Coeve ai disegni paesaggistici, subiscono la suggestione classica della Tempesta marina descritta nelle Metamorfosi di Ovidio e sconfinano in trasfigurazione portentosa inesorabile delle potenze della natura che, anche quando disastrosa, affascinava anche i suoi contemporanei Machiavelli e Giovio.

“Della pioggia. Farai li gradi della pioggia cadente in diverse distanze e in diverse oscurità, e la più oscura fia la più vicina al mezzo della sua grossezza” annotava Leonardo. Ed in mostra si vede come mettesse in pratica questa indicazione.
In Temporale su una vallata (1506-07) propone a matita rossa una virtuosistica veduta a volo d’uccello e in prospettiva aerea di un’ampia vallata sulla quale incombono poderose nubi temporalesche.
In Diluvio (1513-16 circa), qui sopra, le forze della natura piegano alberi e gettano a terra cavalli e cavalieri al cospetto di mitiche divinità dei venti che si intravedono (un po’ a fatica) tra i nembi delle gigantesche nubi tempestose.
E, di nuovo, vortici e gorghi ricordano il movimento dei capelli in Diluvio (1517-18) - immagine sottostante.

Infine, osservando da vicino il foglio Note e disegni del “diluvio” dal Codice Atlantico (1515 circa o dopo), una sorpresa: mentre le annotazioni in piccolo sono, al solito, scritte da sinistra verso destra, la parte principale del testo è scritta al modo di tutti noi comuni mortali e vi si legge un’osservazione importante: “Quando l‘acqua dal monte scende accresce la turbolenza perché raccoglie sassi e legname”.

I danni delle alluvioni anche recenti sono infatti per lo più indotti dal trasporto solido dei materiali che la forza delle acque riesce a strappare. Ad ogni alluvione si parla, spesso a sproposito, di mancato dragaggio degli alvei o “pulizia” della vegetazione spondale (che, al contrario, contribuisce a rallentare l’energia della piena) ma solo in pochi, in relazione all’ultima tragica esondazione del Bisagno a Genova, hanno ricordato che importante concausa della tragedia sono stati i materiali, non certo naturali, strappati dalle acque in una zona di orti abusivi che hanno fatto da “tappo” nel punto in cui il corso d’acqua si immetteva al di sotto della città.
Leonardo lo sapeva, noi continuiamo a dimenticarcene poi, come Eraclito, ne piangiamo.

XI. I leonardeschi: la diffusione dei modelli di Leonardo e del Trattato della pittura

“Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro.” Scriveva Leonardo da Vinci nel 1493 circa. Non troppo allegri saranno perciò stati i suoi seguaci visto che, come ricordava Paolo Giovio concludendo la sua Leonardi Vincii Vita, del 1523-1527, nessuno di coloro che lo circondarono in vita, particolarmente nel suo periodo milanese, raggiunse poi livelli artistici di prestigio.
Il loro ruolo fu invece di un certo rilievo nel diffondere la conoscenza delle opere del maestro grazie alle copie che ne dipinsero dopo, ma anche durante la loro stessa realizzazione.
A Francesco Melzi, che con Gian Giacomo Caprotti, detto il Salaino, ne ereditò i disegni alla sua morte nel 1419, si deve la pubblicazione degli insegnamenti di Leonardo raccolti nel Libro di Pittura del 1540.

Partendo dai quattro discepoli che lo accompagnano dagli angoli basali del monumento dall’alto del quale sovrasta piazza della Scala a Milano, si comincia con un piccolo giallo: la Madonna col Bambino e l’Agnello (1515-20 circa) in mostra è detta di Bottega leonardesca milanese mentre il Poldi Pezzoli, che l’ha fra le sue raccolte, la attribuisce a Cesare da Sesto.
Chi andrà a rivederla noti il curioso intreccio fra le gambe del Bambino a cavalcioni sull’agnello e la zampa di quest’ultimo che incrocia il piede della Madonna dalla veste rossa che spicca sul blu del manto e dell’azzurro vaporoso del fondale di cielo nuvoloso e rocce scoscese.

Non male è il Cristo porta croce (1510 circa) di Andrea Solario. Fatta eccezione per la croce che sembra appena uscita da una falegnameria moderna in cui la trave sia stata tagliata a macchina. Altrettanto fasulli sono la corda ed il nodo che lo stringono al collo.

Il Ritratto di dama (1500 circa) di Giovanni Antonio Boltraffio ricorda, molto alla lontana, la Ferronnière ma bisogna dimenticarsi il movimento di quest’ultima. Qui ad imperare è la rigidità: sia degli sbuffi della veste che fuoriesce dalla maniche, sia dell’intero busto che sembra bloccato da una tavola infilata sotto il corsetto.

Infine, la Sacra Famiglia (1505 circa) di Marco d’Oggiono, con i suoi contorni netti a delimitare gli spazi delle figure dimostra poca dimestichezza con la lezione delle linee che girando potrebbero dare loro volume.
Il risultato è quindi abbastanza piatto e, a nostro avviso, gli sono di gran lunga preferibili le grottesche che ne arricchiscono la parte posteriore.
Fossimo nei privati che l’hanno in collezione l’appenderemmo al contrario per mostrarne la tartaruga, il gallo, l’ariete e tutte le altre bellissime figure di animali o mitologiche che vi sono presenti in un intreccio di arabeschi.

A proposito di animali, imperversano in sala le Madonne con Bambini ed Agnelli. Quella attribuita a Fernando Yàñez de la Almedina è detta anche Madonna del gatto (1500-05 circa).
Chi andrà a rivederla a Brera, dove nel frattempo è ritornata, ne comprenderà la ragione notandovi, assieme a perfette riproduzioni di fiori (un’aquilegia a sinistra e papaveri a destra), la coda di felino dell’animale.
Ci piace, nell’altra attribuita a Hernando de los LLanos in cui è presente anche il san Giovannino (1505 circa), il movimento di quest’ultimo che sbuca da dietro le vesti della Madonna stringendo in mano un cardellino che porge a Gesù; il quale, sulla destra della madre che accenna un gesto benedicente delle mani sul capo di entrambi, abbraccia stretto un agnellino, come per proteggerlo, mentre a terra fra i fiori sul prato il cartiglio Ecce agnus dei è arrotolato su una piccola croce di canne.

Decisamente una brutta copia dell’originale è il San Giovanni (1505-10circa) con la sua testa sproporzionata rispetto al busto e le pelli leopardate, non proprio di capra, sembra opera di una bottega che abbia tradito il suo titolare. Mentre un piccolo Salvator Mundi (1519) ci suggerisce un’altra reminiscenza calcistica degli anni ’80 visto che vi riconosciamo le fattezze di un Michel Platini bambino.

Non brilla neppure il Giampietrino. Né con la Madonna del Latte (1510-15 circa) con l’originale sfondo che vede sulla sinistra (per chi guarda) una quinta di panno verde e sulla destra un castello, un paesaggio ed una scena di paese; né con Venere e Cupido (1530-35 circa), una composizione nella quale la dea riecheggia la Leda mentre a prendere il posto del cigno, curiosamente in piedi su uno sgabello, è il piccolo dio i cui occhi brillanti e luminosi sono l’unica nota vivace in un contesto particolarmente spento.

Diremmo che l'autore migliore di questa sezione è Francesco Galli detto Francesco Napoletano.
Sia nel Ritratto di giovane (1495-1501 circa), nel quale rivediamo qualcosa del Musico: per la concentrazione soltanto sul suo volto, mentre vesti e copricapo sono completamente neri sullo sfondo chiaro di una vetrata piombata.
Sia, soprattutto, per la Madonna Lia (1495 circa), presente in due versioni delle quali è nettamente preferibile quella che finalmente è tornata a riempire la cornice lasciata “orba” nella già cappella ducale del Castello Sforzesco la cui torre del Filarete è ben visibile nel paesaggio riquadrato dalla finestra alle spalle della Vergine; alla sinistra di chi guarda.

XII. Il mito di Leonardo

Con l’ultima, dodicesima, sezione siamo dunque arrivati in fondo al percorso di questa mastodontica mostra leonardesca. E viene da dire… finalmente! È sempre bello ammirare opere d’arte di grandi maestri ma, tuttavia, il troppo a volte stroppia. Ad esempio di questa semi-sala dedicata al mito di Leonardo non si sentiva la mancanza. Anche per lo spazio che le è stato dedicato: un po’ appiccicato appena prima dell’uscita!
Che poi ogni opera comunque riveli aspetti interessanti è un altro discorso. E dunque facciamolo.
La protagonista è, ovviamente, la Gioconda. Presente in sue citazioni o parodie che, cercando di demitizzarla, ottengono l’effetto opposto di accrescerne il mito. A dire la verità, nella maggior parte di esse il riferimento più che alla somiglianza nel volto (che è spesso carente) è alla sua postura ed in particolare alla posizione delle mani.
Nel Cinquecento la svestono Joos van Cleve (Mona Vanna, 1535 circa) che l’adorna di gioielli ed il Salaino che ne accentua l’angolo del busto rispetto al piano della tela oltre a darle volto e capigliatura più simili a quelli del Battista. Come lui fa, nel Seicento, Carlo Antonio Procaccini: che la riduce a pretesto attorno al quale esibire la sua abilità nel dipingere la moltitudine di fiori coi quali la sommerge cercando di non farci notare il rossetto pesante che le pone sulle labbra.

Dall’Ottocento ci arrivano Cesare Maccari, del quale, nel Leonardo che ritrae la Gioconda (1863), di accettabile c’è giusto la copia della Monna Lisa, e Corot la cui Donna con la perla (1858-68 circa) è, fra le opere di questa sezione, l’unica che veramente meritasse di essere esposta anche se, al di là della posizione delle mani (non certo un’esclusiva) non si vede quale altra relazione abbia con il presunto modello.
E per finire davvero, Duchamp, che se ne fa beffe, ed Enrico Baj, che la vendica sostituendo il volto del francese a quello della donna nel collage La vendetta della Gioconda (1965), fanno paradossalmente risultare ben più apprezzabile la Gioconda in bianco su bianco di Andy Warhol White on white Mona Lisa (reversal series) del 1979.

Giovanni Guzzi, luglio 2015
© Riproduzione riservata