L'Eclettico



Dai Visconti agli Sforza, arte lombarda al centro dell’Europa.



Per continuare a visitare la mostra ora diffusa in Milano.

L'ECLETTICO - web "aperiodico"

DAI VISCONTI AGLI SFORZA
Arte Lombarda al centro dell'Europa

Un parallelo fra arte e storia per continuare a visitare la mostra di Palazzo Reale nelle sue opere tornate alle loro sedi in Milano

Dall’interpretazione stessa del suo nome si può riconoscere la nostra città.
Comincia infatti Mediolanum con M e con la medesima lettera finisce.
Con la M, prima e ultima che d’ogni altro segno è il più largo, si intende l’ampiezza della gloria di Milano, diffusa per il mondo intero.
Con la M al principio e alla fine si significa anche il numero millesimo, oltre il quale non esiste né numero semplice né vocabolo semplice che lo esprima; e per questo numero, che si intende così perfetto nella sua semplicità, ben si conosce che Milano, dal principio fino alla fine dei secoli, è annoverata e sarà annoverata nel numero delle città perfette.
Bonvesin de la Riva, Le meraviglie di Milano, 1288
Partiamo dalla musica.
È oggettivamente difficile trovare una chiave di lettura univoca ad una mostra enciclopedica quale è stata, con le sue centinaia di opere esposte, Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, da poco conclusasi a Palazzo Reale di Milano. E dunque partiamo dalla musica che, con ottima scelta dei curatori, ha accompagnato la visita presentando, nel procedere delle sale, selezioni di brani musicali del tempo al quale si riferivano le opere via via esposte.
Proposta nelle esecuzioni di alcuni fra gli ensemble di più alto livello nell’esecuzione di questo repertorio vocale e strumentale (La Reverdie, Odecaton, La Pifarescha, Mala Punica… solo per citarne alcuni) davvero questa musica, accarezzando le orecchie del visitatore mentre le opere d’arte pittorica e plastica ne accarezzavano gli occhi, ha avuto un ruolo determinante nel farlo immedesimare nella parte migliore di una società capace di produrre simili meraviglie nonostante, dal punto di vista sociale e politico, fra guerre, congiure, tradimenti ed assassinii (anche fra gli stessi membri di questa duplice dinastia)… in quanto a violenza e sopraffazioni non fosse certo da meno della pur difficile nostra contemporaneità e questi mecenati, dal punto di vista umano e morale, fossero quantomeno discutibili, anche per i loro tempi.
Non è mai stato facile, per chi scrive, districarsi fra le date ed i nomi, spesso ricorrenti quasi identici, dei personaggi coinvolti in questa genealogia ambrosiana. Dunque, il poterne associare le figure ed i volti (opportunamente presentati all’ingresso ma che sarebbe stato utile ritrovare di nuovo nelle sezioni di cui erano protagonisti) all’arte che ne ha caratterizzato il tempo in cui hanno governato, è stato di grande utilità per contestualizzarli e memorizzarli, ed uno stimolo una volta tornati a casa, a passare ore sulle pagine elettroniche del Dizionario Biografico Treccani e su quelle stampate della Storia di Milano di Alessandro Visconti, ritrovata nella biblioteca di famiglia, per sistematizzare quanto appreso (ad entrambe queste fonti sono debitrici le note storiche publicate in queste pagine).
Se una mostra invita il visitatore all’approfondimento viene da dire che uno dei suoi scopi è stato raggiunto ma, in questo caso, l’effetto, specialmente per chi vive a Milano e dintorni, è stato quello di una porta aperta su un mondo e storie che ti parlano da ogni pietra, da ogni piazza e monumento e dalle sale dei musei cittadini, dove alcune delle opere in mostra tornano a riprendere posto accanto ad altre che in mostra non sono state, ma meritano altrettanto interesse.
Se in questi stessi luoghi, prima, le osservavamo soltanto dal loro profilo artistico, al rivederle ora risalteranno in maniera diversa e ci sarà possibile richiamare alla memoria il contesto nel quale, in questa mostra, sono state inserite. Un’impresa che può durare una vita, ma affascinante, come diventa tutto quel che si conosce dedicandogli, non uno sguardo veloce e superficiale, ma l’attenzione, anche di ore, che ciascuna di queste opere d’arte merita di ricevere da noi.
Un’impresa che contiamo di continuare a raccontare sull’Eclettico per quel che è sempre possibile ammirare nelle collezioni permanenti o in esposizioni temporanee in città.
 
Tornando ad Arte lombarda, Milano al centro dell’Europa, proviamo dunque a ripercorrerla ricordandone le opere che ci hanno colpito maggiormente in ciascun periodo storico e sezione nella quale i curatori l'hanno suddivisa.
Doverosa premessa è che l’ascesa della dinastia si fa partire dalla battaglia di Desio del 1277 (che si svolse proprio sotto la torre poi diventata campanile della odierna basilica dei Santi Siro e Materno), che vide prevalere l’arcivescovo di Milano, Ottone Visconti (1207-1295), sulla famiglia rivale dei Della Torre, che non ne aveva accettato l’investitura voluta da Papa Urbano IV il 22 luglio 1262. Un predominio che non sarà definitivo ma vedrà diversi decenni di alternanza al potere fra il pronipote di Ottone, Matteo I (1250-1322), da lui fatto eleggere Capitano del Popolo nel 1287, e i Della Torre, definitivamente usciti di scena nel 1311 con la venuta a Milano per imporre la pace dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo: l’alleanza con Matteo per una comune ribellione viene tradita e, lasciati soli, vengono sopraffatti dai soldati tedeschi e del loro palazzo distrutto resta il nome di via Case Rotte sul lato nord di piazza della Scala.
Al tempo di Matteo I, e del figlio Galeazzo I (1277c.-1328) a favore del quale abdica nel 1322, risale la prima opera che ci accoglie in mostra: l’imponente Madonna con bambino in pietra arenaria (con tracce policrome) attribuita al Maestro degli Osii, unica superstite di una serie di nove sculture che adornavano l’omonima Loggia e primo esempio del gotico lombardo che segnerà a lungo l’arte di Milano.
A Galeazzo I succede, nel 1327, il figlio Azzone (1302-1339) al quale si deve il consolidamento della signoria dei Visconti su tutta la Lombardia (anche edificando il proprio palazzo-fortezza al posto del Broletto vecchio, poi trasformato dal Piermarini nell’odierno Palazzo Reale, e la chiesa di San Gottardo in Corte di cui resta il campanile, in cui fece installare il primo orologio pubblico e dove fu posto il suo stesso sepolcro). Autorità rafforzata dopo la battaglia di Parabiago del 1339 (febbraio), vinta contro gli oppositori alleati dei veronesi, dopo la quale l’opera di Azzone è proseguita dagli zii Luchino (1292-1349) e Giovanni (1290-1354) (arcivescovo) mentre il terzo loro fratello, Marco, si dedica alla guerra.
Di questo periodo, in mostra, ci si impone la personalità di san Pietro Martire, scolpito in diverse opere (dal 1330 al 1350) di almeno ottant’anni successive al suo martirio (avvenuto a Seveso nel 1252) dal pisano Giovanni di Balduccio: “immigrato toscano”, chiamato dai Domenicani a lavorare a Milano per Sant’Eustorgio (vi si vedano il sepolcro marmoreo nella cappella Portinari ed il san Giovanni Battista e donatori per l’altare dei Magi), vi ritrova Giotto col quale aveva già collaborato in diversi cantieri a Firenze e Bologna.
Lo sguardo affilato e intelligente del Santo ed il suo volto squadrato incorniciato da una corta barba ben curata, sono lineamenti molto ben caratterizzati che lasciano trasparire un carattere deciso e fanno pensare che, come nel caso di san Bernardino per la gran parte delle sue raffigurazioni, quelle che possiamo vedere siano davvero le sembianze di Pietro da Verona.
Persona senz’altro di grande carisma ed autorevolezza che, ci si perdoni l’ardito volo pindarico, trasmette un fascino che ricorda Sean Connery. I lettori milanesi che vorranno dire la loro sul tema, potranno farlo andandosi a rivedere il san Pietro Martire in marmo policromo rientrato al Castello Sforzesco.
Altra significativa opera del tempo in mostra, purtroppo impossibile da rivedere perché appartenente a collezione privata, è la Diva Faustina (1350 ca) alla quale il Maestro delle sculture di Viboldone ha cesellato una ricercata acconciatura.
Alla morte di Luchino (1349), il figlio Luchino Novello è estromesso dalla successione perché l’arcivescovo Giovanni interviene a favore dei figli dell’ultimo fratello (il più in ombra, Stefano): Galeazzo II (1320-1378), Bernabò (1323-1385) e Matteo II (1319-1355). Ad avere un ruolo politico di rilievo, governando assieme dopo essersi spartiti il territorio, sono i primi due: Galeazzo,  dapprima dalla Rocca di Porta Giovia - edificata dove oggi sorge il Castello Sforzesco e della quale oggi resta il basamento in pietra grigia di serizzo sul "fossato morto" e sui lati esterni della Rocchetta e della Corte Ducale - e poi da Pavia, e Bernabò dal suo palazzo che sorgeva fra gli attuali ruderi della chiesa di San Giovanni in Conca e Palazzo Reale, sede della prima rocca fortezza di Azzone Visconti.
Particolarmente ricordato per la sua cinica spietatezza, Bernabò Visconti non mancava di apprezzare l’arte ed aveva una predilezione per Bonino da Campione: presente in mostra con diverse opere come la Prudenza e la Madonna col Bambino che si potrà rivedere al Castello Sforzesco dove vale da solo una visita il monumento funebre per il suo mecenate. Accanto ad esso si potrà così ammirare anche la lastra tombale per Bianca Maria di Savoia (moglie di Galeazzo II), realizzata dal fratello Giacomo, da confrontare in mostra con la lastra tombale di Alda d’Este (foto a lato), un po’ rigida e squadrata nel volto mentre estremamente accurati sono i dettagli dei cuscini traforati sui quali appoggia, testimonianza del fatto che Bernabò non era “geloso” del suo artista prediletto e lo “prestava” alle corti amiche.
A questa fase della storia viscontea si riconduce anche l’imponente San Cristoforo in legno dall’omonima chiesa di Milano sul Naviglio.
Nel 1378 a Galeazzo II succede il figlio Gian Galeazzo (1351-1402) che, giovanissimo, inizialmente si mostra docile alla volontà egemonica dello zio Bernabò ed alle sue strategie politiche (anche matrimoniali) finalizzate all’affermazione internazionale dei Visconti.
Già nel 1360, con la decisiva mediazione sabauda, sposò Isabella di Valois (1348-1372), figlia del re di Francia Giovanni II.
L'unione costò ai signori di Milano un cifra enorme, compresa fra i 400.000 e i 600.000 scudi, ma risultò funestata dalla cattiva sorte.
La sola figlia Valentina (1366-1408) sopravvisse ai tre fratelli maschi, che morirono tutti da piccoli.
Alla nascita dell’ultimogenito, nel 1372, morì anche Isabella e Bernabò impose al nipote in seconde nozze la propria figlia Caterina.
Secondo il racconto di Pier Candido Decembrio, letterato e storico di corte, in questo periodo Francesco Petrarca coniò per il giovanissimo Gian Galeazzo l'emblema araldico della tortora nel sole radiante con il motto "à bon droyt".
Un buon diritto che improvvisamente il principe fece valere sorprendendo lo zio Bernabò, attirato in un agguato ed imprigionato nel 1385 (morirà in carcere) per diventare unico signore di Milano e farsi nominare primo duca dall’imperatore Venceslao nel 1395.
Intanto, proprio pochi anni prima che il ducato venisse riconosciuto, nel 1389 la figlia Valentina andava in sposa a Luigi d’Orleans ponendo le premesse per la sua caduta in mano straniera nel XVI secolo!
Sotto Gian Galeazzo Visconti il ducato raggiunse la sua massima espansione e stava per assoggettare anche Firenze quando, improvvisa e preceduta dal passaggio di una cometa, interpretato dai contemporanei come un presagio di sventura, la morte lo colse il 3 settembre 1402 nel castello di Melegnano; oggi più nota per il “casello” autostradale!
Sono anni nei quali l’arte risente delle influenze di Francia, Boemia, Bologna, Pisa, Siena. La mostra la declina in tre ambiti.
* L’avvio dell’edificazione del Duomo (nel 1386) di cui propone antelli di vetrate con tre profeti: due dei quali sono chiaramente variazioni in colori diversi da cartoni del medesimo autore: Michelino da Besozzo. Una presenza diremmo “simbolica” che, esplicitamente, invita il visitatore ad approfondire il tema nell’antistante Museo del Duomo… e nel Duomo stesso!
* L’avvio della costruzione della Certosa di Pavia, voluta da Gian Galeazzo per farne il mausoleo dei Visconti con le sue mogli: Isabella di Valois e poi Caterina Visconti lasciando agli altri rami del casato le tombe in Sant’Eustorgio.
* E la corte di Gian Galeazzo.
Michelino da Besozzo e Giovannino de’ Grassi sono fra i maggiori protagonisti del periodo. Artisti poliedrici (miniatori, pittori, scultori, architetti…) toccano i vertici di un naturalismo che diventa grazia innata e si diffonde ovunque. Dalle miniature sui codici, di Michelino sul De consolazione philosophiae di Boezio e di Giovannino sul Theatrum Sanitatis, un trattato di medicina con indicazioni sull’uso delle erbe medicinali ma, soprattutto, sull’Officium Beatae Mariae Virginis aperto in mostra su una pagina nella quale “si aggirano” mosche ed altri insetti rappresentati con eccezionale verosimiglianza. Non tanto come trompe l’oeil, ma come esibizione di maestria.
Ai veri e propri disegni di animali esotici (ma realmente presenti nei serragli di corte) come lo splendido Ghepardo, dal Louvre come altri disegni di santi di Michelino, ed alle figure (quasi schizzi di moda) dal Taccuino di disegni di Giovannino; a confronto dei quali non sfigurano anche ghepardi, leopardi, cervi e caprioli del Maestro dei modelli.
Fino ad arrivare agli altri oggetti di alto artigianato sacro e “domestico”, come la Spilla con dromedario in avorio ed argento di provenienza Parigina o il Cofanetto con la storia di Piramo e Tisbe in legno intagliato e avorio realizzato dalla cosiddetta bottega degli Embriachi di Firenze, che dovevano al contrario essere molto sobri per riuscire a cesellare con una simile accuratezza per i dettagli.
In pittura testimonianza milanese del periodo sono il Crocifisso di Anovelo da Imbonate, rientrato al Diocesano ed il San Gaudenzio (1390-1400) al Poldi Pezzoli. Autore di quest’ultimo è il Maestro dell’Ancona Barbavara. Un nome che evoca Francesco Barbavara uno dei protagonisti dei primi confusi anni immediatamente successivi alla morte di Gian Galeazzo di cui era stato consigliere.
Venuto meno il Duca, ed essendo molto giovani i suoi eredi Giovanni Maria (1389-1412) primogenito erede del ducato e Filippo Maria (1392-1447), le città che aveva sottomesso si ribellarono ma gli stessi capitani viscontei inviati a domare le sedizioni cominciarono ad accarezzare disegni signorili e ad agire da padroni.
Fra gli altri si distinsero per attivismo in questo senso Pandolfo Malatesta (che, domata la ribellione di Brescia, se ne impadronì) e, soprattutto, Facino Cane.
Da parte loro, sostenitori della fazione di Bernabò insediavano il legittimo potere di Giovanni Maria esercitato dalla duchessa reggente Caterina sostenuta da Francesco Barbavara al quale aveva di fatto affidato il governo.
Già nel 1403, in una aperta ribellione venne ucciso Giovannolo Casati, devoto sostenitore ed educatore dei due giovani che aveva tentato una mediazione, e il Barbavara venne cacciato.
Ma Caterina reagì e l’anno successivo dispose l'arresto e la decapitazione dei capi della rivolta e lo richiamò a Milano.
Nel frattempo a Pavia i ghibellini Beccaria manovravano Filippo Maria e, tramite lui, Giovanni mettendolo contro la madre ed il Barbavara fino al punto da fargli riportare in città gli eredi di Bernabò, Antonio e Francesco Visconti.
Ormai impotente Caterina si ritirò nel castello di Monza dove lo stesso anno morì.
Qualcuno ritiene per avvelenamento su ordine del suo stesso figlio.
Ormai ai Visconti, del ducato di Gian Galeazzo, che era arrivato ad estendersi su gran parte del nord Italia, non rimanevano che qualche terra in Piemonte, la città di Bergamo e le due capitali, Milano e Pavia, peraltro dominate dalle fazioni locali.
Coronamento di questa politica di dissoluzione dello Stato visconteo furono ampie concessioni in materia tributaria al Comune di Milano: l’esatto contrario dell’accentramento perseguito da Gian Galeazzo per consolidare il suo potere.
Ma nel 1407 era di nuovo guerra. Da una parte Francesco e Antonio Visconti, con l’appoggio del più potente fra i condottieri viscontei, Facino Cane, nel frattempo sostituitosi ai Beccaria nel controllo di Filippo Maria. Dall’altra Pandolfo Malatesta e gli altri capitani Iacopo Dal Verme e Ottobuono Terzi. In mezzo Giovanni Maria e Milano, di volta in volta minacciata di saccheggio sia dagli uni sia dagli altri.
Dopo innumerevoli disinvolti cambi di alleanze, inframmezzate da guerre contro i Francesi per il controllo di Genova, nel 1409 Facino, ormai in possesso di domini più estesi di quelli del Duca, assumeva il titolo di governatore di Milano, della cui politica interna ed esterna era diventato l’arbitro incontrastato. La situazione andava stretta a entrambi che, pertanto, cercavano di sopraffarsi a vicenda.
Da un fallito tentativo di Giovanni di catturare a tradimento il rivale nel 1410, Facino uscì rafforzato al punto da tentare l’attacco finale ai discendenti di Bernabò ed a Pandolfo Malatesta, l’unico in grado di resistergli.
Ma proprio mentre le sue truppe assediavano Bergamo fu colpito da un attacco di gotta e le sue gravi condizioni allarmarono i ghibellini milanesi. Temendo che la sua scomparsa avrebbe potuto indurre l'instabile Giovanni Maria ad una nuova alleanza coi guelfi, dopo aver identificato nel figlio e nel nipote di Bernabò, Estorre e Giovanni, i nuovi eredi del potere visconteo, promossero una congiura nella quale, il 16 maggio 1412, mentre si recava nella chiesa di San Gottardo in Corte, Giovanni Maria fu pugnalato a morte.
Poche ore dopo moriva anche Facino Cane lasciando in eredità alla moglie, Beatrice di Tenda, contessa di Biandrate, il suo esercito mercenario - che solo l'energia del capitano Sicco da Montagnana riuscì a mantenere unito - ed un capitale, pare, di circa 400.000 ducati nonché vastissimi territori.
Ed è a questo punto che rientra in gioco Filippo Maria Visconti. Sposata la vedova di Facino Cane (maggiore di lui di 20 anni) ne utilizza abilmente le ricchezze e le forze militari ereditate dal marito arrivando nel 1422 a riconquistare l’unità territoriale del ducato.
Principale artefice dell’impresa è il suo miglior condottiero, Francesco Bussone, il Conte di Carmagnola (1385-1432), al quale diede in sposa Antonia Visconti e un palazzo nel Broletto Nuovo (oggi via Rovello) e che teneva in grande considerazione.
Una fiducia che venne meno, forse per invidie di corte, ed indusse il Carmagnola a passare nel 1425 al servizio di Venezia per conto della quale sottrasse a Milano Bergamo e Brescia. Fatto che non impedì a Filippo Maria di continuare a tentare di soggiogare Genova e Bologna e mantenere comunque saldo il potere ancora per più di un ventennio.
Un tempo di stabilità nel quale l’ambito artistico gotico dominante nel ducato non muta, seppure diventando più raffinato. A questo stile si adatta anche Pisanello che ci lascia un’immagine di Filippo Maria col suo tipico copricapo di panno in una medaglia nelle collezioni del Castello Sforzesco.
Massimo artista è sempre Michelino da Besozzo di cui la mostra propone anche tavole come lo Sposalizio della Vergine, nel quale al realismo nei volti, facce da contadini, non corrisponde una pari attenzione nel rendere i volumi sotto le vesti: che sono solo stoffe senza consistenza di figure scorporate.
Come lo Sposalizio mistico di Santa Caterina la cui tunica ha il tipico colore lombardo rosa malva e nel quale il trono non esiste, mangiato dall’oro del fondo.
Per arrivare, infine, alla Madonna del roseto.
Fra le più belle opere in mostra presenta la Madonna accomodata a terra come fiore tra i fiori in un hortus conclusus dove la fontana è come un’opera di oreficeria, gli angeli sembrano uccelli fantastici (e ricordano le Sirene volanti che tentano Ulisse sui vasi greci) e movimentano la scena sia quando discutono attorno ad un messale sia quando trasportano ceste di fiori, ed i motivi ripetitivi rimandano ai tappeti orientali già evidentemente conosciuti.
È attribuita a Michelino o a Stefano di Giovanni che, nel caso, dimostrerebbe di aver ben conosciuto il maestro lombardo.
Così come ha fatto Jacopino da Tradate che di Michelino, in scultura, è diventato un vero alter ego.
Ci sono piaciuti tanto i suoi Pleurants, frati col cappuccio calato sugli occhi, in marmo di Candoglia policromo dal museo di Sant’Ambrogio.
Sempre alto si mantiene poi il livello dell’artigianato.
In ambito sacro citiamo una coppia di Reliquiari con vetri a oro e pergamene miniate dal Diocesano e, dal Museo di Sant’Ambrogio, una Pace di proprietà di Filippo Maria. Non è superfluo precisare che questo oggetto dell'antica liturgia cristiana prende il nome dal latino osculum pacis o tabella pacis ed è una tavoletta decorata sulla parte frontale da una scena sacra che veniva baciata dal sacerdote durante la celebrazione della messa, e poi offerta al bacio degli altri officianti e infine dei fedeli. Introdotta dal XIII secolo, sostituì l'usanza dell'antico bacio della pace, che aveva luogo prima della comunione, e che oggi è diventato lo "scambio di un segno di pace" con la stretta di mano.
In ambito civile la mostra ripropone lavori della Bottega del cremonese Bonifacio Bembo visti a Brera nel 2013: i meravigliosi Tarocchi di proprietà della Pinacoteca Brera ed un’Historia di Lancillotto del Lago del 1446, molto nota ed importante per le quasi trecento illustrazioni a penna e mina di piombo.
A dimostrazione che al tempo erano molto diffuse e ricercatissime anche opere di intrattenimento come i romanzi cavallereschi, non meno illustrati dei codici di soggetto sacro o storico-filosofico-scientifico.
Sempre di Bonifacio Bembo la mostra ha favorito la ricomposizione di un trittico costituito dall’Incoronazione di Cristo e Maria (ora a Cremona) con le tavole che l’accompagnavano lateralmente e temporaneamente rientrate da Denver: Incontro alla porta aurea, con il profeta Eliseo e San Nicola da Tolentino alla sua sinistra e l’Adorazione dei magi alla destra.
Diversi aspetti di quest’ultimo in particolare hanno attirato la nostra attenzione. Doverosamente occorre evidenziare l’informazione - non per tutti scontata - che al collo del Bambino, di un bianco marmoreo, spicca il rosso del corallo (non così ben riuscito come il più noto di Piero della Francesca a Brera) a prefigurare la sua Passione.
Si notano poi la rappresentazione contemporanea di episodi cronologicamente distinti che vedono i Magi sia in primo piano in adorazione del Bambino, sia in alto: piccole figure che guardano la stella, anch’essa presente anche nel cielo sopra la Natività… e sempre senza coda.
Ma il dettaglio per noi più curioso è la testa di uno dei cavalli del corteo dei Magi. Seppure con la parte inferiore del muso incompleta, nascosta dal profilo di una collina dietro la quale stanno altri personaggi sproporzionati rispetto al paesaggio, la sua posizione è centrale nel dipinto ed i suoi grandi occhi placidi, in un contesto in cui anche i movimenti accennati dai personaggi sembrano pietrificati nel momento in cui la scena si stava svolgendo, sono l’unico elemento che appare decisamente vivo e, direttamente rivolti allo spettatore, ne calamitano irresistibilmente lo sguardo quasi ponendogli una muta domanda.
 
Dalla vipera al cotogno
Parenti serpenti, cugini assassini e fratelli coltelli. Il proverbio popolare, come si è visto, ben si addice ai Visconti e la vipera campeggia a buon diritto nell’impresa di famiglia continuando a mordere per tutta la sua storia, che attraversa due secoli ed è particolarmente ricca di episodi cruenti che vedono contrapporsi zii contro nipoti e figli contro madri. Se nel percorrerla non avevamo patito l'assenza di matrimoni di interesse e tradimenti coniugali, ancora ci mancava la loro evoluzioni in assassinii.
Una lacuna alla quale pone rimedio Filippo Maria che nel 1418, pochi anni dopo averla sposata per impadronirsi del suo potere (territoriale, economico e militare) ereditato da Facino Cane, accusa per un mai provato adulterio e fa giustiziare, assieme al suo presunto amante, Beatrice di Tenda (protagonista di un melodramma di Vincenzo Bellini).
Secondo suo matrimonio politico, celebrato nel 1427, che forse non fu neppure consumato, fu quello con Maria di Savoia figlia del duca Amedeo VIII e di Maria di Borgogna.
Forse per “punizione divina” a causa di queste scelleratezze, la linea Ducale di Milano si estinse nella linea maschile con la morte di Filippo Maria nel 1447 che non lascia eredi.
Pier Candido Decembrio (effigiato nella sua arca sepolcrale sotto il portico di Sant’Ambrogio, accanto all’ingresso di sinistra), segretario e, dopo la sua morte, biografo di Filippo Maria Visconti, già negli ultimi anni del Duca ha sentore di questo declino e scrive “di non permettarsi di continuare a trar nome dalla casata dei Visconti: per loro era giunta la fine”.
Venuto meno il presupposto dell’investitura imperiale, un gruppo di notabili dà vita alla Repubblica Ambrosiana, sostenuta da Decembrio al quale l’assiduità con i classici la faceva preferire al dominio dei “tiranni”.
Per la necessità di continuare la sempre latente guerra con Venezia il comando delle forze milanesi viene affidato a Francesco Sforza (1401-1466), capace condottiero di origine romagnola col quale Filippo Maria aveva relazioni controverse: da un lato ne temeva la crescente importanza, dall’altro confidava in lui al punto da promettergli in moglie Bianca Maria (1425-1468), la figlia illegittima avuta dalla donna che gli stette sempre al fianco, Agnese del Maino, alla cui famiglia Filippo Maria fu sempre legato e che privilegiò largamente.
Il matrimonio, a lungo rinviato per le ragioni citate, e per le molteplici alleanze di Francesco anche con gli avversari di Filippo, avvenne il 24 ottobre 1441. Questo stato non garantì la fedeltà di Francesco che, per perseguire il progetto di conquistare il diretto controllo di Milano, non esitò ad allearsi con i nemici veneziani che avrebbe dovuto combattere e mise sotto assedio la città che, nel 1450, gli si arrese e della quale, anche senza legittimazione imperiale, divenne il signore incontrastato.
Francesco riporta la corte da Pavia a Milano con l’intento di farne ben presto l’unico centro del suo potere che immediatamente si preoccupa di consolidare avviando, nel 1452, i lavori di rinforzo del castello Visconteo nel quale Filippo Maria aveva vissuto quasi da recluso per oltre vent’anni.
Per ingentilire il progetto chiama ad affiancare gli ingegneri militari il Filarete, Antonio Averulino, architetto civile fiorentino detto al quale si deve la torre centrale d’ingresso verso la città (ricostruita dal Beltrami dopo il crollo del 1521) e che progetterà anche il nuovo ospedale: la Ca' Granda (ora Università degli Studi).
Ben presto però lo sostituisce con l'architetto militare Bartolomeo Gadio, suo uomo di fiducia e Commissario per le fortezze del Ducato.
Gadio modifica la facciata verso la città aggiungendo due massicce torri angolari rotonde con rivestimento in serizzo a punta di diamante, più consone a resistere alle nuove artiglierie dell’epoca; inoltre fortifica ed amplia la “Ghirlanda”, una cortina muraria più esterna già esistente in età viscontea (poi demolita nel 1893) che, munita di due torri rotonde agli angoli e di una strada coperta, difende il fronte settentrionale.
La nuova politica di Francesco, indotta anche dalle mutate condizioni geopolitiche ai confini del Ducato, si riflette anche sulle sue committenze artistiche. Se nella prima metà del 1400 comincia a farsi largo il gusto rinascimentale per la terracotta, testimoniata in mostra dal rilievo del Maestro degli angeli cantori, in cui si ipotizza sia raffigurata sant’Elisabetta d’Ungheria con malati dai volti deformi che le mostrano gli evidenti segni delle rispettive malattie, resta ancora decisamente imperante il gusto tardo gotico per i fondi oro ed il lusso che, con facile gioco di parole fa di quella sforzesca una corte… sfarzesca.
Con le aperture alla toscana e al primo Rinascimento si avvia però anche una capillarità di scambi con il mondo oltr’alpe. In particolare attraverso Genova che era in contatto con i fiamminghi.
Questo ruolo di cerniera fra Nord e Sud Europa si trova nei dipinti di Donato de’ Bardi (1426 - prima del 1451) che, per scelte stilistiche, uso della luce e prospettiva aerea invece che geometrica, differenzia dalla produzione precedente le sue opere, fra le quali i Santi Stefano e Ambrogio (1445-1450) da collezione privata milanese.
Temi che ritroviamo nell’Uomo di dolori tra i santi Ambrogio e Agostino (1445-1450 circa) qui attribuito a Maestro tedesco di Chiaravalle già esposto in anticipo su questa mostra al museo Diocesano nei mesi scorsi dove era accreditato a Giusto di Ravensburg e di cui si è già scritto. Qui esposto ad altezza d’uomo ed a confronto con altri dipinti del suo tempo ben si comprende perché sia stato definito un capolavoro.
In questo contesto è doveroso apprezzare la lungimirante scelta della corte di inviare addirittura i propri artisti a conoscere direttamente quel che il mondo artistico contemporaneo proponeva. Ed è così che nel 1461 Zanetto Bugatto (notizie dal 1458 al 1474), pittore di cui numerosi documenti testimoniano il favore e l'alta stima che godette nella corte sforzesca di Milano, viene inviato espressamente a Bruxelles nella bottega di Rogier Van Der Weyden. Non si ha di lui alcuna opera certa tant’è che pur facendone il nome in mostra, dove sono state riunite le tavole che gli sono state attribuite, in catalogo è più prudentemente indicato soltanto come Maestro della Madonna Cagnola: opera stupenda, come dimostra l'immagine a lato, nello splendore dei suoi colori (particolarmente il celeste del manto che davvero rimanda al cielo evocato dal nome del pigmento) e nella quale si manifestano gli affascinanti effetti dell’ars nova fiamminga, premessa al nordismo di Bergognone.
Non da meno sono i soggetti della “corte” di santi che l’accompagna, secondo alcuni parte di un unico polittico.
Sia le figure intere del Battista, avvolto in un manto di un rosso particolarmente infuocato, ma che sembra discostarsi dallo stile degli altri santi: Ambrogio e Orsola con le compagne, dolci nei visi e curatissime nei morbidi verde e bordeaux di stoffe e velluti delle vesti, un po’ meno riuscite nei corpi che ricoprono.
Sia le mezze figure, dal portamento molto nobile, dei santi Cristoforo, Gerolamo e Lorenzo che occupano il registro superiore.
Notevoli sono anche il San Gregorio Magno, con le cui splendide decorazioni del manto stonano un poco i piedi disassati. Problema al quale pone rimedio ricoprendoli con le vesti (anche qui ecclesiastiche) che scendono fino a terra nel San Gerolamo che mostra ben evidenziato sulle pagine aperte del volume che regge in mano un monito sempre d’attualità: sermo indicat qualis est homo.
Indicativamente tutte datate 1470-1475 appartengono al tempo in cui, dal 1466, signore di Milano era diventato il figlio primogenito di Francesco Sforza: Galeazzo Maria Sforza (1444-1476).
A partire dal 1461, dopo una grave infermità che lo aveva portato in punto di morte, il duca Francesco iniziò a fare partecipe il figlio dei suoi progetti politici, legandolo alla potente e capace figura del primo segretario Cicco Simonetta.
Fra i tre andò maturando una sorta di intesa profonda che si prefiggeva la continuità e il potenziamento del casato sforzesco.
Fra le sue prime iniziative è la scelta di trasferirsi, dal 1468, nel Castello; con la moglie Bona di Savoia (1449-1503), cognata del Re di Francia Luigi XI, e con la sua corte.
In pochi anni vengono completati la Rocchetta e la Corte Ducale, si affrescano le sale e viene costruita e decorata la Cappella Ducale. Opere alle quali Zanetto collabora fianco a fianco con gli altri maestri del tempo, fra i quali il Bembo, che abbiamo già incontrato, ed il Foppa.
Pittore pienamente lombardo, quest’ultimo rimedita Gentile da Fabriano, Donatello, Mantegna e le suggestioni fiamminghe per arrivare ad una propria originalità tuttavia non ben compresa dai contemporanei. Un primo vertice milanese delle sue qualità sono gli affreschi sulla volta della cappella Portinari.
In mostra fa la sua prima comparsa con la Presentazione di Gesù al tempio del 1470 da Brera; pressoché coeva del prezioso Trittico della Madonna della Misericordia (1470-1475) del piacentino Gottardo Scotti dal Poldi Pezzoli che dimostra come al tempo coesistessero stili e gusti tanto differenti.
Se dal punto di vista politico il regno di Galeazzo si caratterizza per irruenza e volubilità delle decisioni (fatto che lo pone in contrasto con la madre e gli alleati, che spesso scontenta) sotto il profilo sociale si dimostra, invece, innovativo introducendo le coltivazioni del riso e del gelso, avviando la produzione della seta, favorendo l’introduzione della stampa e migliorando la rete viabilistica e fluviale dei navigli.
Quanto all’arte, oltre ad attrarre a Milano alcuni dei migliori musicisti del tempo (anche sottraendoli alle corti concorrenti costringendo il suo segretario Cicco Simonetta a redigere diplomatiche lettere di scuse), durante il suo governo suscita anche un rinnovato interesse per la scultura. Fino a quel momento, infatti, era la terracotta a primeggiare per il valore innovativo delle proposte.
Nel settore del marmo le due principali imprese scultoree lombarde erano quella dei Mantegazza e quella dei Solari. La seconda praticava uno stile figurativo apparentemente ereditato dai Caronesi. I Mantegazza erano invece guidati da Antonio (1466-1476) dallo stile aspro e quasi espressionista e poi dal figlio Cristoforo, di formazione tardogotica ed uno dei migliori scultori di figura allora sulla piazza.
Lo dimostra ampiamente l’Annunciazione (1475-79) in mostra, realizzata a quattro mani da padre e figlio.
Una lezione di cui farà successivamente tesoro l’architetto e scultore Giovanni Antonio Amadeo (Pavia 1447 circa - Milano 1522) la cui fama maggiore risiede nei tiburi del Duomo di Milano e, soprattutto, in quello del santuario di Santa Maria dei Miracoli a Saronno ed è in mostra con opere in marmo (fra le quali alcune Virtù ed una splendida Pietà) ma anche in legno, come una Madonna dal Castello Sforzesco.
Anche il legno, intagliato e in scultura, ha dunque un posto di riguardo nell’epoca di Galeazzo Maria e, di conseguenza, in mostra. Dai Santi in legno di pioppo intagliati dipinti e decorati, al Profeta in legno di tiglio, cavo sul retro (forse per alleggerirlo e facilitarne il trasporto in processione?), alla Cattedra lignea (1469 circa) dal Bagatti Valsecchi fino ai Dossali di coro in noce intarsiato e laccato (1469 -1471) tornati al Diocesano accanto al letto sant’Ambrogio.
Questi ultimi sono opera di Giacomo della Torre e Giovan Angelo Del Maino, figlio di Giacomo del Maino e, dal 1469, titolare della bottega e riconosciuto come massimo intagliatore del ‘500.
Da rivedere, al Castello Sforzesco, anche le scene evangeliche (molto spesso riferite alla Passione del Cristo) come la Andata al Calvario (1476-1482) del Maestro di Trognano.
Il buon gusto per l’arte non mise però Galeazzo Maria al riparo da coloro che scontentava, primi fra gli altri i suoi stessi fratelli, probabilmente non estranei ad un primo tentativo di sopraffarlo a seguito del quale vengono avviati all’esilio. Ma Ludovico Maria, detto il Moro (1452-1508), Sforza Maria (1451-1479) ed Ascanio Maria (1455-1505) non si esclude abbiano avuto parte anche nella congiura andata, per loro, a buon fine che, il 26 dicembre 1476, in Santo Stefano dove si era recato per partecipare alla messa come consuetudine della corte, lo vide pugnalato a morte, come già Giovanni Maria Visconti in San Gottardo; anche approfittando del fatto che non aveva indossato la corazza, si dice che l'avesse fatto per non sciupare le vesti.
Il sospetto che la manovra avesse mandanti così importanti è avvalorato dal fatto che, dopo aver immediatamente trucidato gli esecutori materiali, le indagini, come spesso accade, non furono particolarmente approfondite e ci si affrettò ad organizzarne la successione a favore del figlio Gian Galeazzo Sforza (1469-1494) di appena 7 anni.
Come stabilito dal testamento gli fa da tutore la madre Bona di Savoia, proclamata reggente il 9 gennaio 1477 e coadiuvata da un consiglio in cui aveva grande peso Cicco Simonetta, amico di Francesco Sforza e consigliere ducale sia di quest'ultimo che del duca assassinato. Costui, per mettere in sicurezza il Ducato dalle mire dei fratelli di Galeazzo Maria, li esilia nuovamente il 25 maggio 1477.
Essi, infatti, guidati dalla convinzione che il Ducato di Milano "non è Stato da governarsi per mane di femine vedove, né per mane de putti: il populo et la cità non gli piace per niente" ed accecati dall'odio per il duca defunto e la sua legittima discendenza, sostenuti inoltre all'esterno da potentati tradizionalmente ostili agli Sforza, come il Ducato di Ferrara, ma anche Savoia e Venezia, capitanati dal condottiero Roberto Sanseverino avevano tentato l'aperta sollevazione di Milano per estromettere lui e Bona con un colpo di forza non riuscito ed a seguito del quale Ottaviano Maria (1458-1477), il fratello più giovane, morì annegato nel tentativo di guadare l’Adda durante la fuga.
È a seguito di questo episodio che, per proteggere meglio la reggente e suo figlio, viene fatta erigere la cosiddetta torre di Bona che sovrasta la Rocchetta del castello.
Mentre Filippo Maria (1449-1492) si dimostrò fedele al Duca e disinteressato alla politica, gli altri tre, dalle rispettive sedi di esilio, Sforza Maria a Bari, Ascanio Maria a Perugia e Ludovico Maria a Pisa non si dettero per vinti e, di nuovo sostenuti da Roberto di Sanseverino, tornarono a marciare contro Milano.
Tra il 1478 e il 1479 i fatti precipitarono. Per legittimare ulteriormente il piccolo Gian Galeazzo Maria, il Simonetta lo fece incoronare in Duomo il 24 aprile 1478. Poi cercò di difendere militarmente Milano e il Ducato accettando la perdita di Genova (inizi 1479) e poi quella di Tortona (agosto 1479).
Nel frattempo, l'avversione interna alla sua onnipotenza del Simonetta cresceva di continuo ed i suoi nemici esterni ne approfittarono. La duchessa Bona, pressata e intimorita per l'avanzata dei cognati verso Milano, convocò in città Ludovico il 7 di settembre per ristabilire la pace siglata il giorno dopo. Il 10 dello stesso mese il Simonetta veniva arrestato attribuendogli le responsabilità per la guerra fratricida e, il 30 ottobre dell’anno successivo, il celebre e capace statista fu decapitato a Pavia.
Ma ormai Bona non ha più alcun potere, estromessa dalla reggenza si ritira nel castello di Abbiategrasso, dove non le mancavano pregiati volumi come il Libro d’Ore di Bona Sforza (1487-1495 circa) decorato da Giovan Pietro Birago e miniatori lombardi.
Se dal punto di vista morale la storia continua dunque a ripetersi sempre uguale, e la mela cotogna simbolo degli Sforza (da Cotignola, in provincia di Ravenna, luogo di nascita del capostipite della casata) non si dimostra meno velenosa della vipera viscontea, in campo artistico l’ultimo ventennio del 1400 porta grandi novità. Un contributo determinante lo danno le grandi personalità di Bramante e Leonardo da Vinci che proprio in questi anni arrivano alla corte del Moro.
Il primo è a Bergamo nel 1477 ed arriva quasi subito a Milano dove comincia a lavorare a San Satiro e dove è documentato dal 1481 grazie alla Stampa Prevedari: un'incisione su lastra di ottone, realizzata da Bernardo Prevedari su disegno di Donato Bramante il cui nome è riportato sull'incisione stessa in caratteri lapidari "BRAMANTUS FECIT IN MEDIOLANO". Nel suo soggetto imprecisato (una visione architettonica rappresentante il grandioso interno di un edificio all'antica, quasi in rovina, con membrature possenti) l'incisione rappresenta le ampie conoscenze architettoniche di Bramante, in una sorta di manifesto-compendio delle tematiche che svilupperà nelle successive opere lombarde. L'edificio è inteso come rappresentazione della sua struttura formata da celle tridimensionali, la parete piana è negata, gli archi appoggiano all'antica su pilastri e non colonne, la costruzione è intesa come organismo "vivente".
Il secondo vi arriva nel 1482 per assolvervi i molteplici incarichi che il suo genio gli permetteva di accettare ed ai quali è dedicata la mostra, sempre in Palazzo Reale, che idealmente prosegue questa sui Visconti-Sforza.
Non arrivano però a coltivare il deserto! Già Bergognone ha appreso la lezione fiamminga e lo dimostra facendo entrare il paesaggio nella Pietà con angeli e nell’Adorazione dei pastori (1480-1485) da Brera, anche qui con girotondi di angeli che riecheggiano quelli di Benedetto Bembo nella Madonna dell'umiltà e angeli musicanti.
Foppa continua a proporre il suo realismo anche nei cartoni per le vetrate del Duomo realizzate su suoi disegni come quelle in mostra realizzate da Cristoforo e Agostino de Mottis: la Visitazione (post 1482) ed i santi Pietro e Paolo (1479-82). Stefano de Fedeli ricama lussuosamente le vesti dei suoi Santi Pietro e Paolo (1478 - 1480) e ne disegna con un curioso contorno nero su fondo oro gli attributi della spada e delle chiavi.
È questo l’ambiente artistico nel quale Butinone comincia ad ambientare le sue forme scheggiate in architetture che testimoniano la diffusione della citata stampa Prevedari, come nella Madonna col Bambino in trono e angeli tra i santi Giovanni Battista e Giustina (1482-1485 circa ).
Ed eccoci dunque all’esperienza bramantesca, qui presentata con una riproposizione quasi puntuale della mostra recentemente dedicata all’artista marchigiano dalla Pinacoteca di Brera.
Da notare il fatto che quest’ultima, occupando il corridoio d’ingresso con esposizioni temporanee, non ha più posto per gli uomini d’arme e personaggi che frequentavano l’abitazione del suo mecenate, il poeta Gasparo Ambrogio Visconti, e dunque li manda “a spasso” per mostre.
Di questa eccelsa compagnia ci viene proposto l’Uomo d’arme con barba e elmo (1487-1488), accompagnato da due Teste di “barone”, con barba e con turbante (1486-1488), di plasticatore lombardo dal Castello Sforzesco dove, nella Sala del Tesoro del Cortile della Rocchetta, per dissuadere i malintenzionati, in collaborazione con Bartolomeo Suardi (il Bramantino), Bramante aveva affrescato il gigantesco Argo dai cento occhi.
A proposito di occhi, il fatto che spesso il pubblico non ne abbia a sufficienza per avvedersi di mostre più circoscritte ma altrettanto valide di quelle più pubblicizzate, merita una citazione il fatto che, nel medesimo luogo, proprio pochi mesi fa, assieme ad altri manoscritti visconteo sforzeschi della collezione settecentesca di don Carlo Trivulzio, è stata esposta una splendida edizione delle Rime di Gasparo Visconti dalla meravigliosa sovra copertina in oro ed appartenuta a Beatrice d’Este che vi è ritratta da Ambrogio de’ Predis.
Proseguendo nel nostro personale percorso della mostra troviamo due bellissimi San Rocco e, soprattutto, San Sebastiano del Bergognone (Ambrogio da Fossano) degli anni, 1488-89, nei quali Gian Galeazzo, già da tempo esiliato fra gli agi della corte di Pavia ma comunque necessario alle strategie diplomatiche del Moro, viene fatto sposare, per procura, ad Isabella d'Aragona (1470-1524) il 21 dicembre 1488.
Partita da Napoli, Isabella iniziò un lungo viaggio via mare arrivando al porto di Genova il 18 gennaio dell'anno successivo ed il 1 febbraio a Vigevano cosicché, il 5 dello stesso mese, le nozze ufficiali possono essere celebrate nel Duomo di Milano dal vescovo di Piacenza Fabrizio Marliani.
I festeggiamenti durarono a lungo e famosa fu la rappresentazione tenutasi il 13 gennaio 1490 di un'opera musicale il cui testo poetico era stato composto da Bernardo Bellincioni, su scene realizzate da Leonardo da Vinci: era la famosa Festa del Paradiso.
Ma tanta festa era, dal punto di vista politico, effimera in quanto il 1490 segna proprio la piena affermazione di Ludovico il Moro. Posizione ulteriormente consolidata il 17 gennaio 1491 dal matrimonio con Beatrice d’Este (1475-1497), la cui forte personalità accentua tuttavia l’insofferenza di Isabella d’Aragona per la propria condizione subalterna rispetto alla coppia di usurpatori che ormai hanno dato vita in Milano ad una vera corte parallela e di ben maggiore rilevanza rispetto a quella dei Duchi, sempre più limitata nelle proprie libertà ed attorniata da spie di Ludovico.
A precipitare le cose giungono anche l’avvicinarsi di Gian Galeazzo Maria all’età in cui avrebbe potuto far valere il proprio diritto all’investitura a Duca e, soprattutto, la nascita del figlio, e dunque legittimo erede, Francesco (1491-1512), detto il Duchetto.
“Guarda caso”, dopo ripetuti misteriosi malesseri, nel 1494 Gian Galeazzo Maria Sforza muore ed è molto fondato il sospetto che sia stato avvelenato da emissari dello zio, al quale non mancava certo la spregiudicatezza per compiere un simile gesto.
Ed è così che, finalmente, il 26 marzo 1495 Ludovico il Moro prende definitivamente tutto il potere ottenendo l’ambita investitura imperiale a Duca, anche grazie a manovre a seguito delle quali la sorella di Gian Galeazzo, Bianca Maria Sforza (1472-1510), viene data in sposa all’imperatore Massimiliano I d’Asburgo (1459-1519) al quale porta una dote enorme che però “rovina” economicamente il ducato.
Di questo periodo in mostra si trovano le due meravigliose tavole di Bernardo Zenale dagli Uffizi (e già viste a Brera): San Michele che trafigge il demonio e San Baudolino (o san Bernardo da Chiaravalle?) e un frate umiliato inginocchiato (1490).
Testimonianza della volontà di nobilitare con opere monumentali di grande impatto la legittimità di un potere, come si è visto, usurpato ma che si vuole consolidare celebrandone il capostipite, è in mostra (dalla Pinacoteca Civica di Vicenza) un Francesco Sforza in arme (1491-1494) scolpito in marmo in dimensione più che naturale da Alberto Maffioli e con significato analogo a quello che avrebbe dovuto avere il mai realizzato monumento equestre per Francesco Sforza commissionato a Leonardo.
Da parte sua, il genio di Vinci, che in Toscana lavorava pressoché isolato, a Milano in pittura faceva scuola e gli artisti del tempo cercavano di seguirne le intuizioni nella rappresentazione dei cosiddetti moti mentali che sapeva evocare nei soggetti che rappresentava.
Una lezione ripresa un po’ superficialmente dal Maestro della Pala Sforzesca nella Vergine e san Giuseppe (1492-1493 circa) mentre molto più qualitativamente riusciti sono la Madonna Allattante ed il Salvator Mundi (1492-94) di Bergognone.
La scuola leonardesca è invece ben evidente nelle tele dei suoi discepoli Marco d’Oggiono, Ritratto di fanciullo (1492-1495) in cui è ben reso il cardellino che il ragazzino tiene in mano, e Giovanni Antonio Boltraffio, Giovane con freccia e mano al cuore in figura di san Sebastiano (1496 Circa).
Non per nulla questi due artisti hanno posto, assieme a Cesare da Sesto ed Andrea Solario, ai quattro angoli del monumento a Leonardo al centro di piazza della Scala.
Ma anche il vecchio Foppa, seppure costretto a cercare committenze in provincia, si dimostra capace di restare sulla breccia e di innovarsi rileggendo Leonardo alla luce della sua passione per la realtà come nell’Arcangelo Gabriele e Vergine Annunciata (1500 circa).
Chiude la mostra Bernardo Zenale. Altro gradito ritorno dalla mostra su Bramante in Brera (ma qui posti ad un’altezza che ne permette una migliore visione) sono i suoi Angeli cantori e musicanti (1500 circa) dove nei putti nudi alle prese con i rispettivi strumenti Zenale si cimenta con sperimentazioni prospettiche bramantesche e riflessioni sul cenacolo.
La più tarda Circoncisione (1520 circa) è, invece, un omaggio alla precedente mostra sull’arte visconteo-sforzesca che queste stesse sale di Palazzo Reale avevano ospitato nell’immediato Dopoguerra. Con essa, infatti, siamo ormai usciti dalla cronologia della dinastia.
Infatti, nel 1498 Luigi XII d’Orleans, figlio di Carlo di Valois-Orleans, diventa re di Francia e rivendica il ducato come discendente In linea femminile legittima del primo Duca: in quanto nipote di Valentina Visconti che, come si è visto, nel 1389 aveva sposato Luigi I di Valois diventando duchessa d’Orleans.
Nel 1499, mentre Ludovico fugge a Innsbruck, il re francese alleato dei veneziani invade il ducato avendo alla testa delle sue truppe proprio il Maresciallo Gian Giacomo Trivulzio (1441-1518) che, già al servizio degli Sforza, era stato allontanato dallo stesso Ludovico ma ora ritornava a Milano come suo governatore.
Falliti successivi tentativi di riprendere il potere, Ludovico il Moro viene fatto prigioniero dallo stesso Trivulzio e muore in esilio in Francia.
La cronologia sforzesca vede tornare due volte al potere i suoi figli.
Nel 1512 Massimiliano Sforza (1494-1530) ridiventa Duca con l’appoggio degli Svizzeri ma nel 1515, dopo la battaglia di Marignano, i Francesi riprendono possesso della città.
Nel 1529 suo fratello, Francesco II Sforza (1495-1535), ritorna al potere ma sotto gli Spagnoli per conto dei quali governa fino alla morte, il 24 ottobre 1535, senza lasciare eredi.
Ma per la Storia l’eredità che conta è quella culturale ed allora eccoci salutati, immediatamente prima dell'uscita, dal busto marmoreo di Beatrice d’Este del Louvre che apre prospettive ad un nuovo classicismo.
Giancristoforo Romano, appositamente inviato a Napoli da Ludovico, la ritrae quindicenne prossima al matrimonio, in posa frontale ma con la testa lievemente ruotata, chiusa dalle linee geometriche del vestito e dell’acconciatura. Sorprendente è il realismo dello spillo appuntato a fermare il corsetto. Gli occhi hanno uno sguardo fisso ma non inespressivo e l’aulica impassibilità della principessa dovette essere un’evidente novità nella Milano dei primi anni novanta del ‘400 nella quale gli scultori concepivano il ritratto come profilo da moneta, d’uso dinastico, ma non praticavano il moderno busto e di certo non avrebbero restituito un’immagine tanto nobilmente distaccata senza ridurla ad una medaglia.
Alle sue spalle è trascritto il sonetto di Antonio Cammelli che, all’indomani della destituzione del Moro, circolava fra i Milanesi, già pentiti del suo avvicendamento con i nuovi dominatori Francesi.
In esso volutamente si gioca sull’ambivalenza del riferimento alla Dama: la Madonna, alla quale la Chiesa di Santa Maria delle Grazie era dedicata, ma anche Beatrice, che vi era stata sepolta (e dalla quale fu successivamente spostata alla Certosa di Pavia).
 
Ritorna, Ludovico, se tu puoi
Ciascun qua ti desia, ciascun ti chiama,
torna acquistar l’honore e la tua fama,
torna hor che ‘l vitio suol regnar nel roi.
 
Deh torna a riveder li servi tuoi,
torna all’alma città che ti richiama,
torna alle Gratie a riveder la Dama,
e spera in lei, che in lei ben sperar puoi!
 
Giovanni Guzzi, giugno 2015
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Signori di Milano Duchi di Milano
•   1240-1265 vari (Pagano I della Torre, Pagano II della Torre, Manfredi II Lancia, Martino della Torre, Oberto II Pallavicino, Filippo della Torre) •   1395-1402 Gian Galeazzo Visconti
•   1265-1277 Napoleone della Torre detto Napo Torriani (Figlio di Pagano; sconfitto dall'Arcivescovo Ottone Visconti) •   1402-1412 Giovanni Maria Visconti (Figlio di Gian Galeazzo; assassinato)
•   1277-1294 Ottone Visconti, Arcivescovo di Milano •   1412-1447 Filippo Maria Visconti (Fratello di Giovanni Maria)
•   1294-1302 Matteo I Visconti (Nipote dell'Arcivescovo Ottone) •   1447-1450 Repubblica Ambrosiana
•   1302-1311 Guido della Torre (Nipote di Napo Torriani, figlio del fratello Francesco) •   1450-1466 Francesco I Sforza (Sposò una figlia di Filippo Maria Visconti)
•   1311-1322 Matteo I Visconti (Restaurato) •   1466-1476 Galeazzo Maria Sforza (Figlio di Francesco I)
•   1322-1327 Galeazzo I Visconti •   1476-1494 Gian Galeazzo Sforza (Figlio di Galeazzo Maria)
•   1327-1339 Azzone Visconti (Ricevette il riconoscimento ufficiale solo nel 1329) •   1494-1499 Ludovico Sforza detto il Moro (Figlio di Francesco I)
•   1339-1349 Luchino Visconti •   1499-1512 Re Luigi XII di Francia (Nipote di Valentina Visconti, figlia di Gian Galeazzo)
•   1349-1385 Bernabò Visconti (Regnò assieme ai fratelli Galeazzo e Matteo e al nipote Gian Galeazzo) •   1512-1515 Massimiliano Sforza (Figlio di Ludovico il Moro)
•   1349-1378 Galeazzo II Visconti (Regnò assieme ai fratelli Bernabò e Matteo) •   1515-1521 Claudia di Francia (Figlia di Luigi XII di Francia)
•   1349-1355 Matteo II Visconti (Regnò assieme ai fratelli Bernabò e Galeazzo) •   1521-1535 Francesco II Sforza (Figlio di Ludovico il Moro e fratello di Massimiliano)
•   1378-1395 Gian Galeazzo Visconti (Figlio di Galeazzo II, regnò inizialmente assieme allo zio Bernabò) •   1535-1706 (periodo spagnolo)
  •   1706-1796 (periodo austriaco)
  •   1796-1814 (Repubblica Transpadana, Cisalpina, Italiana, Regno d'Italia)
  •   1814-1859 (Regno Lombardo-Veneto)