L'Eclettico



Caravaggio e il suo San Girolamo Scrivente



La difficile armonia fra fede e ragione

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CARAVAGGIO E IL SUO SAN GIROLAMO SCRIVENTE

La difficile armonia tra fede e ragione


Con la premessa che quanto segue è scritto solo per il piacere di ragionare su un argomento e dare forma alla nuvola indistinta dei pensieri che la lettura su L'Eclettico dell'articolo dedicato al San Girolamo Scrivente di Caravaggio (leggi di più >>>) ha suscitato in me, sebbene non sia certo di aver correttamente compreso l’intenzione del suo estensore, nell’articolo citato mi pare di cogliere la convinzione che l’avvento del Cristianesimo, in termini di storia della cultura e delle idee, abbia rappresentato un passo importante nel processo di armonizzazione tra fede e ragione.
Il quadro di Caravaggio, sempre stando a quel che mi sembra emerga dall’analisi proposta, vorrebbe esprimere l’idea di come l’opera “intellettuale” di uno dei padri fondatori della chiesa (qui riassunta nell’atto della scrittura e nell’immagine del vecchio chino sui libri) abbia costruito di fatto “un ponte” tra fede e ragione, e l’uomo Girolamo abbia agito come catalizzatore, come facilitatore dell’incontro tra le tensioni rappresentate dalla religione, e le tensioni innate nell’uomo allo studio e all’indagine.

Personalmente guardo con malcelata diffidenza questa lettura: invece sono indotto a pensare che il personaggio di Girolamo (specialmente nella sua resa caravaggesca) sia l’emblema di quanto sia stata semmai difficile l’armonia tra fede e ragione, per i cristiani dei primi secoli.
In particolare l’atteggiamento della comunità dei “credenti”, nei confronti di tutto quello che è stato il vivaio di ricerche dell’antichità (arti, tecniche, scienze, esperimenti, filosofie, metodi di indagine, logica) è stato tutt’altro che “amichevole”. Anzi non sono mancati casi di aperto rigetto.

La storia di Girolamo parla già di per sé: a livello personale egli confessa come la convivenza nella stessa persona di convinzioni religiose e amore per lo studio sia stata tutt’altro che facile.
Per chi voglia farsi una propria personale idea della questione con il diretto accesso alle fonti, che è sempre l'operazione più raccomandabile, segnalo che il testo originale in latino di tutte le sue epistolae è pubblicato sul sito "http://www.patrologia-lib.ru/patrolog/hieronym/epist/index.htm".
Ma il tratto di Girolamo, che intendo approfondire è emblematico di un intero periodo, di un atteggiamento che tra i cristiani dei primi secoli era decisamente prevalente.

Se guardiamo agli epistolari di vescovi e religiosi vissuti nel V e VI sec d.C. la questione dell'armonizzazione tra fede (al limite credenza/superstizione) e ragione (ricerca filosofica/scientifica) è decisamente fuori discussione. Per dirla come uno dei primissimi autori cristiani, Tertulliano, "credo quia absurdum" (io credo perché non ha senso!). Roba che lascia poco spazio alle ragioni (mi sia scusato il gioco di parole) del dialogo, o di chi si occupa di filosofia o di scienza.

A ciò si aggiunge l'invito di Girolamo a disprezzare gli studi classici con il loro bagaglio di conoscenze e disciplina all'uso dell'intelletto per l'edificazione della personalità - tradizione per la quale rimprovera a sé stesso un forte attaccamento.
Sant’Ambrogio è della stessa "risma": lui era di famiglia cristiana da più generazioni, acculturato (stupiva i contemporanei perché sapeva leggere i libri senza recitarli), e con un passato di brillante funzionario pubblico (era procuratore dell’Italia Annonaria): ma nei suoi scritti e nelle sue lettere dichiara di non tollerare la presenza delle manifestazioni del pensiero "empio" (in quanto espressione pagana) nella vita pubblica.

Certamente, come ha notato papa Benedetto, questi tre personaggi erano imbevuti del pensiero antico; usando come veicolo di comunicazione il latino, le istituzioni romane, la scrittura e la tecnica del discorso romano, essi non potevano certo prescindere dalla cultura e dal pensiero tradizionale incorporato nelle forme del diritto, della logica, della retorica, nello stesso lessico e nelle sue radici delle parole, nell'istruzione dei processi (giustizia=convenire in pubblico sulla verità, in base all'accertamento e all'esposizione dei fatti: elemento che ispira infatti la formazione dei testi canonici del vangelo stabiliti al concilio di Nicea, unicum nella definizione di un testo sacro).
Tuttavia essi nella propria ricerca di un'“identità” cristiana implicavano che tutto quanto appartenesse agli studi e alla cultura “classica” e allo stato dell’arte delle conoscenze consolidate, doveva essere escluso come “altro”: e nel caso di Girolamo, per propria ammissione, si trattava di una decisione che poteva portare a livello personale a grandi privazioni e dolori sul piano emotivo.
L'aspetto della rinuncia è dominante in Girolamo: e torna come una sferza. Ripreso da Agostino, dove la “Confessione” non è solo “denudare” l'oggetto della rinuncia, ma riconoscerlo come debolezza e motivo di colpa. Il disvelamento interiore (analisi) è accompagnato dalla prassi di autoumiliazione (corporale, economica, relazionaria), cosa che per esempio in Seneca non era concepibile perché semmai doveva accompagnarsi a un atto di acquistata spiritualità e poi risintetizzata più di milletrecento anni dopo da Kierkegaard nel concetto del “cavaliere della fede”: detto in parole semplici, un'accresciuta consapevolezza di sé unitamente alla dimensione spirituale prescinde dall'abito e dall'apparenza di un uomo; una straordinaria familiarità con il divino può anche avvenire in una persona dedita all’ordinario esercizio del quotidiano.

Il tema del “rigetto” a prescindere da parte dei cristiani è ripreso tra l'altro da uno dei pochi testimoni pagani, consapevoli di essere perdenti sul piano dello scontro politico, Rutilio Namaziano. Questi, durante un viaggio da Roma a Narbona per rimettere mano alle proprie proprietà saccheggiate dai barbari e dalle guerre civili, osserva, amareggiato e allo stesso tempo caustico, la moda dilagante del monachesimo.
L'occasione gli è offerta dall'avvistamento delle coste dell'isola di Capraia, in cui all'epoca erano presenti diversi eremi (siamo nel 410 circa).

Processu pelagi iam se Capraria tollit; squalet lucifugis insula plena viris. Ipsi se monachos Graio cognomine dicunt, quod soli nullo vivere teste volunt. Munera fortunae metuunt, dum damna verentur. Quisquam sponte miser, ne miser esse queat?

Il mare cede spazio già all'isola Capraia, che giace nel più completo abbandono sebbene sia piena di uomini che scappano dalla luce del giorno costoro si fanno chiamare "alla greca" cioè monaci perché vogliono vivere soli e non essere visti da nessuno temono i doni della sorte, mentre di essa hanno in alta considerazione le privazioni e chi mai accetterebbe di ridursi a un infelice con il proposito di non esserlo?

Quaenam pervasi rabies tam stulta cerebri, dum mala formides, nec bona posse pati? Che tradotto in italiano vuol dire: “qual è l'ossessione così insulsa di un cervello fanatizzato per cui per timore del male, rinunci alla possibilità di avere ogni esperienza dei beni [che ha da offrirti il mondo]?”.
Ricordo, per inciso, che Giovanni Crisostomo, su questo punto osservava che noi abbiamo la prima cognizione di Dio per mezzo del creato e quindi dei sensi, Dio ci si rivela per mezzo di questi occhi di queste orecchie e di questa carne, in questo rimettendo in gioco la funzione della "carne" e del "mondo materiale" nel progetto di vita salvifico.

Sive suas repetunt factorum ergastula poenas, tristia seu nigro viscera felle tument.

D’altro canto, questi prigionieri delle proprie azioni o rinnovano le proprie punizioni [da infliggere a se stessi], altrimenti i loro la bile tornerebbe a gonfiare i loro fegati incattiviti.

Namaziano si concentra sulla critica che questi personaggi, di cui faceva parte lo stesso San Girolamo, trascuravano la cura del “mondo” inteso come cosa pubblica, ben sintetizzata dall’immagine dell’isola di Capraia squallida e in abbandono seppure pullulante di uomini… che non fanno niente!

La critica di Namaziano rispecchia al meglio la visione del culto politeista che vede nella cura e nell'impegno civile la principale forma di devozione a un universo pantheista, a una realtà-giardino sacra e guidata in ogni dettaglio da numerose intelligenze divine.
Ovviamente non si tratta di un attacco: Namaziano non avrebbe potuto permetterselo, altrimenti sarebbe stato oggetto di persecuzione dall'affamato fisco imperiale del crudele Onorio.
Ma la descrizione a tratti caricaturale di questi uomini che per un uomo dotato di buon senso, e di amore per la propria vita e affezionato alle sue terre, mostra se non altro una cosa: che i simbolismi del quadro di Caravaggio possano essere ribaltati… è l'ossessione per la privazione (buio) che ha trasformato questi uomini in lucifugi (gente che scappa dalla luce per rintanarsi nelle celle dei propri eremi), che teme il male, ma che secondo il principio di prevenzione si astiene anche dal bene (la luce) che sta nel mondo inevitabilmente frammisto al male. Isolarsi dalla luce per poterla ritrovare…?

Ma non voglio perdere il punto: quello che colpisce degli scritti di Girolamo, così come di uno dei tanti aspiranti cercatori di verità dell'epoca, non è tanto il comportamento in sé (l'abito dell'eremita) ma la ricerca spasmodica dell'invisibile, che si traduce in un generale atteggiamento INTRANSIGENTE, con sé stessi, e di conseguenza con gli altri.
Giudica ma non argomenta. Ordina, ma non spiega. Recita, ma non analizza. Divulga, ma non discute. Questo atteggiamento ha prodotto nel lungo periodo un atteggiamento ostile e tendente alla repressione del pensiero filosofico e all'esercizio della ragione: caso esemplare, l'uccisione della scienziata, astronoma, matematica e filosofa Ipatia di Alessandria, considerata allo scoccare dell'anno 400, una delle menti più brillanti del mondo antico, e condannata in quanto donna (il peccato originale! donna+frutto della conoscenza! Una combinazione devastante) non solo allo scempio in pubblico del suo cadavere ma alla censura sistematica delle sue opere (le testimonianze dei religiosi orientali la definiscono nel VII e VIII d.C. una specie di strega indemoniata e causa di ogni perdizione).
Ovviamente chi la conobbe, come il vescovo di Cirene, Sinesio, esprime nelle sue lettere grande affetto e ammirazione, ma persone come lui che pure servendo la fede non negarono la propria formazione e l'humus classico rimasero una minoranza (almeno, se usiamo come campione statistico la quantità di scritti sopravvissuti di quest'epoca).

Il tratto dominante del discorso/dibattito cristiano nel V e VI secolo d.C. è il consolidamento al di fuori di ogni dubbio di un dogma della fede "di una convenzione" di un "canone" che possa essere accolto come collante della comunità POLITICA cristiana.
Lo sforzo, la scrittura, il discorso cristiano delle origini, e dei tempi di Girolamo prescinde quindi dallo studio della ragione ed è un dibattito sull'identità. Dal punto di vista del rapporto tra identità della comunità politica e patrimonio di conoscenze (i risultati della ragione) c'è da rimanere un po' più freddi.
Gli scritti di Ambrogio e Girolamo designano semmai una guerra alle conoscenze accumulate, un tentativo di "dar fuoco" ai vecchi libri (talvolta a costo di rinnegare le proprie inclinazioni personali), ed al più un inconsapevole esercizio dell'atteggiamento dello studioso del letterato.
A corollario c'è la "limitazione" del campo di applicazione della ragione. Nelle testimonianze letterarie troviamo il rifiuto dell'applicazione dell'intelletto e delle categorie logiche al di fuori dello studio dei testi sacri, applicazione che per tutto il IV, V e VI secolo ha portato a violentissimi scontri (le lotte per le eresie) supportate da campagne violentissime di repressione da parte dei sovrani neoconvertiti alla nuova religione di stato.
Ne è un atto culminante l'editto di Giustiniano del 529, che decreta la chiusura dell'Accademia di Atene (Damascio, ultimo scolarca deve scappare in Persia!!!).
Giustiniano è stato sicuramente un cattivo governante, ma la sua esplicita professione di fede dietro a queste decisioni spinge a leggere il clima: se il politico-discepolo è un uomo di questo tipo, posso intuire di che pasta fossero fatti i suoi maestri e il tenore dei discorsi delle guide spirituali a cui faceva riferimento.

A trent’anni-cinquant’anni di distanza da Rutilio Namaziano e Girolamo, l'atteggiamento degli autori cristiani in gran parte cambia.
Altri uomini, come Agostino (e poi Boezio), Sidonio Apollinare, posti di fronte al problema di ridefinire la propria "romanità" in contrapposizione alla barbarie germanica incombente, assumono un atteggiamento ben diverso e per certi versi più conciliante.
In essi si registra il bisogno di ricomprendere nell’idea di vita cristiana (comunque definita) la CIVILTÀ (ed è fondamentale che Agostino usi l'immagine di CITTÀ e non di regno di Dio, per definire la dimensione celeste): tanto hanno fatto per ragionare sul dogma e armonizzarlo con la memoria delle evidenze dell'esperienza umana e di tanti secoli del pensiero.
Boezio, per esempio, dimostra in modo elegantissimo la compatibilità tra libero arbitrio e predestinazione (ancora sono stupito da quelle pagine del V libro del De Consolatione).
Costoro non mancarono mai di esprimere il loro debito nei confronti delle lettere e della filosofia antica, primo tra tutti Agostino che, prima ancora di incontrare Ambrogio e venirne battezzato (già adulto), ci racconta di avere frequentato a Roma la scuola neoplatonica (leggasi Plotino)
. La sua concezione del bene come essere, e del male come degradazione dall'essere sé stesso, la concezione "a scala" degli esseri dal bene è un rimaneggiamento di Plotino (e del suo maestro Ammonio) che guarda caso viene studiato pochissimo ai licei, ma che rappresenta probabilmente il più originale e impressionante pensatore che l'antichità ci possa avere regalato.
Il passaggio tra la fase in cui i cristiani sono preoccupati da un'identità cristiana in cerca di affermazione, in competizione coi portatori della memoria millenaria (i politeisti), al momento in cui i cristiani si trovano a dover rappresentare tutta la loro comunità e quindi, a dover rappresentare l'eredità indivisa dei propri avi, trova un momento di svolta con la vittoria dei barbari.
Solo allora il romano messo di fronte al barbaro (ariano quando va bene, pagano e dedito a sacrifici umani quando va davvero male) si porrà la sfida di tramandare la memoria delle conquiste della ragione.
Ma anche qui (la maggiore concessione della fede), è nel dare spazio a un progetto didattico che tenga conto dell'antico. L'uomo inteso come creatura eticamente definita dal messaggio cristiano, si fa veicolo di trasmissione di una "cultura morta", cioè data per acquisita.
Ma si tratta ancora una volta di un atteggiamento in gran parte osteggiato dai campioni della fede: Gregorio Magno in una lettera non manca di criticare causticamente il dotto vescovo di Arelate/Arles, Florenzio, che per mantenere in vita il locale istituto di studi superiori (di impianto classico), si è prestato a svolgere personalmente lezioni di materie da lui considerate empie: non solo letteratura, retorica, ma persino storia della poesia! O ancora, a metà del VI sec d.C. uno dei più dotti esponenti della chiesa Britannica, San Gildas, promotore di una regola monastica incline all'umanità e all'esercizio compassionevole della fede (e soprattutto uomo di cultura e scrittore di un latino alieno e allo stesso tempo spettacolare), viene isolato e scacciato dalla riforma intransigente di St.Devi [Davide] che invece avvicina il monachesimo celtico del VI e VII sec d.C. a qualcosa di molto simile alla caricatura offertaci di Namaziano.

Concludendo: fede e ragione. Il rapporto non mi pare sia stato pacifico nei primi sei secoli di cristianesimo. Sia in termini di uso etico dell'intelletto, sia in termini di gestione della memoria (relativa ai risultati della ricerca).
Lo stesso mi pare valga per Girolamo che parla di sé come di una persona tutt'altro che contenta, e per il quale, l'originaria accostumatezza all'uso della ragione, così come la propensione a farsi domande, viene vissuto con tormento interiore (esattamente come il nostro Caravaggio).
Eremita che si sottopone a ogni tipo di privazione: a mio avviso la perfetta rappresentazione dello “studio matto e disperatissimo" di Alfieri che per imparare ad essere poeta tragico racconta di essersi fatto legare a una sedia.

Guido Codecasa, aprile 2017
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