L'Eclettico



Villa “Nice” e la visione di Luigi Buffoli



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VILLA “NICE” E LA VISIONE DI LUIGI BUFFOLI

Radicata nella “Città giardino” del Milanino, cresce la città ecologica del futuro

Dal Regno d’Italia alla Repubblica: c’è la vita nell’architettura
* Il Milanino
* Villa “Nice” (compravendite, il terrazzo perduto, modifiche al progetto originario, vetri colorati, stucco, cemento e pietra naturale: le decorazioni di abili artigiani, la leggerezza del ferro la bellezza del/nel particolare, ferro alla patria, no box 2006: il cittadino attivo salva la prospettiva)
* Per le strade del Milanino (in via Costanza fiori e virtù, il tombino storico, marciapiedi verdi e sinergie arboree, il mistero dei cordoli in pietra, Regina Pacis +80, modello di viabilità condivisa)
* Il tram del Milanino (passato e futuro: il presente è assente!)
* Comitato per il tram e Gruppo Naturalistico della Brianza (un logo d’artista, il Milanino e l’acqua, il meteo il giorno dopo, zero rifiuti)
* “L’erba leopardo” (vegetazione e peculiarità botaniche)
* Selvatici in città (fauna e avifauna)
* Altre storie di villa “Nice” (i ritratti raccontano; verso il Pakistan orientale: scimmie, cobra e leopardi - il cuoco e la tartaruga; l’eroico alpinista; “avventure” in codice MORSE; il carillon e lo Schimmel di Lipsia; foulards e bandiere; la nonna Angela, la “Piccola”, la “Bi” e l’estinzione dei dinosauri; 4 generazioni di migranti)


IL MILANINO

Come per i CD in vendita con l’etichetta “NICE PRICE” nei negozi di dischi, si può cogliere anche un analogo, interessante, senso “British” nel nome della bisnonna Cleonice (dal greco: Gloria e Vittoria) che si può leggere, abbreviato, sulla targa in marmo apposta sul pilastro del cancello di uno dei villini che, a inizio Novecento, costituivano il primo nucleo della Città Giardino voluta da Luigi Buffoli.
Questo ex ferroviere milanese, nel 1911 dettava parole profetiche:

“Non è dar prova eccessiva di fede il prevedere che non passerà gran tempo prima che la città di Milano abbia estesa la sua conquista fino a sei chilometri dal suo attuale confine.
E allora sarà certo meritato onore della generazione presente di aver ideato e di aver contribuito al costituirsi di un’oasi verdeggiante che formerà uno dei punti più belli della città, in luogo degli attuali antiestetici quartieri”.

Si tratta di una visione urbanistica chiara sul futuro di Milano, forse ovvia per un uomo abituato a confrontarsi con la realtà sociale delle grandi città europee.

In quegli anni si stava sviluppando il movimento anglosassone delle “garden cities” e Buffoli, prendendo a modello le nuove cittadine inglesi di Hampstead, Letchworth, Port Sunlight, lancia l’idea di fare altrettanto proprio alle porte di Milano.
Viene costituita la Cooperativa inquilini che presto conta 1.500 soci.
Nel 1908 la nuova impresa acquista 1.300.000 mq di terreno nel comune di Cusano sul Seveso.
La nuova città si chiamerà Milanino ed anche il comune diventerà poi l’odierna Cusano Milanino.
Il piano urbanistico è impostato su due assi principali. Il grande vialone alberato che taglia la città, e che oggi porta il nome del Fondatore, è sistemato a giardino.
Rigide norme edilizie regolano la decorazione delle fronti, l’altezza delle case, le recinzioni.
Esemplari sono i progetti e la realizzazione degli impianti stradali di fognatura, dell’acqua potabile, dell’illuminazione.
Nel 1913 le costruzioni sono più di 100.

VILLA “NICE”

L’abitazione di cui ci stiamo occupando, che sorge al numero civico 4 di via Costanza, dalle schede di architettura in Boriani, Bortolotto - Origini e Sviluppo di una Città Giardino, l'esperienza del Milanino (da valutarsi però con cautela poiché, come si vedrà più avanti, in altra parte di questa pubblicazione abbiamo riscontrato errori), risulta in cartografia dal 1910. Qui sopra ne presentiamo l’ubicazione sulla Planimetria Generale di Milanino del 1920.
Costituito da due piani fuori terra e seminterrato, ed in discreto stato di conservazione, questo villino in stile eclettico, piccolo e “delizioso” (vocabolo usato dagli studiosi), ha uno dei suoi punti di forza proprio nelle dimensioni contenute: un taglio che oggi può apparire poco comune tra le ville sopravvissute, ma che non era affatto raro nel contesto del Milanino al tempo del suo sviluppo iniziale.
Nella sua pur semplice struttura, l’immancabile effetto di movimento è assicurato dal corpo di destra, sovrastato da un timpano triangolare nel quale un tempo campeggiavano le iniziali, quasi uno stemma di famiglia, del suo primo proprietario: il sig. Pompeo Cairoli, col nome del quale l’edificio è identificato dagli storici.
Villa Nice continua invece ad essere preferito dagli attuali proprietari per ragioni familiari ed affettive.
Se le iniziali P e C sopravvivono sul piano del tavolo in graniglia di cemento nel giardino retrostante (foto a lato), definitivamente perduta è, invece, la decorazione della fascia sottogronda a ciliegie e motivi geometrici che, sebbene molto degradata, è tuttavia ancora riconoscibile nella foto sotto.
La neve ancora presente a terra e l’età ipotizzabile delle persone che vi sono ritratte, suggeriscono una sua datazione a partire dall’inverno del 1945-46.
Riconosciamo infatti la Cleonice che ha dato il nome alla villa fra le nipotine: a destra Osvalda, “la Piccola”, ed a sinistra l’omonima Cleonice (per tutti semplicemente Nice e faremo altrettanto noi per distinguerla dalla sua nonna), “la Bi”; che tuttora vi abita e ricorda il freddo patito per la mancanza di riscaldamento: che obbligava le sorelline ad andare a dormire vestite mentre il gelo disegnava arabeschi sulle finestre.
Più indietro è la mamma Angela, moglie dell’ing. Roberto Ognibene, autore dello scatto ed ultimo acquirente nel Novecento.

CRONISTORIA DELLE COMPRAVENDITE

1910, 5 settembre – dal rogito Guasti risulta che il Capomastro Antonio Belloni acquista da Anonima Coop “Unione Cooperativa” di Milano, per lire 608,09, il lotto di 608,07 metri quadrati corrispondente al mappale 64 a. Il rogito elenca i vincoli di edificabilità ed il contratto è registrato il 17 settembre 1910 con Atto 1934 vol 349 F°95.

1911, 24 giugno – Il sig. Pompeo Cairoli acquista da Antonio Belloni l’appezzamento di terreno “al prezzo di italiane lire 3.600”. È Interessante notare il fatto che il Belloni rivende dopo 9 mesi a sei volte il prezzo che aveva pagato. Il parroco di Cusano all’epoca, don Seveso (per singolare coincidenza omonimo del corso d’acqua che attraversa la cittadina) forse aveva ragione a denunciare, fin dal 1908, “sospetti ed inganni” che continuano anche dopo. Altri potranno dire che si tratta di sano investimento produttivo, ma tant’è, sempre di speculazione si tratta.
Ad onor del vero, siccome sulle tavole di progetto del villino, disegnato dagli ingegneri Magnani e Rondoni di Milano, compaiono il nome del Belloni e la sua firma, trattandosi di un Capomastro - forse una figura corrispondente a quella di un attuale titolare di un’impresa edile - si potrebbe anche pensare che abbia acquistato il terreno e poi l’abbia venduto assieme al progetto e, forse, con l’impegno a realizzarlo per il Cairoli.
In questo caso forse il prezzo della seconda vendita potrebbe essere ragionevole. Anche se il dubbio della speculazione resta, perché nell’atto citato si parla di vendita del terreno e non c’è traccia di riferimenti all’edificio, già costruito o ancora da realizzare. Eventuali suggerimenti in proposito saranno benvenuti e saremo contenti di includerli in questi “appunti”.
1933, 17 marzo - Cesare Rota acquista da Pompeo Cairoli il villino e dagli atti risulta che l’attuale autorimessa non esiste ancora.
1945, 13 giugno - Giovanni Corbella e Ida Cozzanini acquistano l’edificio da Cesare Rota e questa volta risulta presente l’autorimessa, evidentemente costruita in questi anni ed emblematica testimonianza dell’evoluzione della società italiana.
Se la prima fabbrica italiana di automobili, la Miari & Giusti di Padova, è stata fondata nel 1894, il primo passo verso la produzione in massa di autovetture venne infatti compiuto proprio a metà degli anni ’30 e fu molto sostenuto dalle dittature fasciste in Italia e in Germania.
Modelli come la Fiat Topolino ed il Maggiolino Volkswagen sono del 1936.
1945, 21 settembre - Roberto Ognibene acquista da Giovanni Corbella e Ida Cozzanini. Anche in questo caso è forte il sospetto di una furba speculazione, magari legata ai mutamenti politici del tempo ed approfittando della caduta in disgrazia di altri (se non addirittura procurata!). Perché mai uno dovrebbe comprare una casa in giugno, appena terminata la guerra, ed in settembre averla già rivenduta? Anche qui sarebbe interessante saperne di più, e se qualche appassionato di storia locale riuscirà a rintracciare qualche notizia biografica su queste persone non manchi di farcela conoscere.
Nel 2007, dopo una successione ereditaria ed una compravendita intermedia, la proprietà del piano inferiore è passata alla famiglia Bruzzone-Siciliano: “Ho sentito che la casa ha scelto noi” ha detto Paola Bruzzone.

IL TERRAZZO PERDUTO

Ritornando alla fotografia, essa testimonia un’altra perdita: quella dell’ampio terrazzo e della sottostante veranda, che le bambine usavano come palcoscenico dal quale offrire spettacoli teatrali al vicinato, “con la partecipazione straordinaria” del papà Roberto che si esibiva nel declamare il suo cavallo di battaglia: A Silvia di Giacomo Leopardi.
Scopo delle rappresentazioni era raccogliere soldi da destinare al parroco perché potesse dotare la chiesa Regina Pacis del campanile che non aveva, e non ha mai avuto, nonostante ne sia stato disegnato il progetto (vedi immagine a lato da “Il campanile e le campane di milanino” – La Scossa n. 4 dicembre 2004 pag. 12 – leggi di più >>>), perché i fondi raccolti sono stati giustamente stornati per edificare il più necessario oratorio.
Gli aggetti perduti sono invece stati “fagocitati” da un ampliamento del 1983, oggi discutibile anche se legittimo (e debitamente autorizzato) in quanto precedente di un biennio all’apposizione del vincolo sulla città giardino (Alberto Belotti, “Perché il vincolo?” - La Scossa n. 2 maggio 2004 pag. 11 - leggi di più >>>): purtroppo la consapevolezza dell’opportunità di mantenere nelle sue condizioni originali un bene di valore storico architettonico non è innata in nessuno.
Anche l’attuale proprietà non fa eccezione e l’ha acquisita solo successivamente. Subendo, come giusto contrappasso, un paio di ingiuste sanzioni da parte degli uffici comunali per sanare due presunte violazioni edilizie, entrambe grottesche!
Quella del pollaio: sempre esistito ma trattato come abuso perché non risultante in un non ben chiarito “registro napoleonico” (sic!).
Analoga sorte per ghiaia e pavimentazione in pietra riportate in vista sotto il pergolato: a detta del tecnico che ha effettuato il sopralluogo abusive perché… vi ha trovato l’erba. Che è normale cresca ovunque se non la si strappa. Succede anche sulla cima dei campanili, che non per questo diventano prati!
Nel complesso, comunque, a Villa Nice è ancora andata bene rispetto ad altre, anche ben più significative, come le ville Cavallazzi/Rossi e Baseggio, dirimpettaie in diagonale rispetto all’incrocio Viale dei Tigli e Viale dei Fiori e fatte saltare con una mina per edificarvi due condomini massimizzando a fini edilizi anche i relativi giardini. Nella cartolina le vediamo come erano nel 1933: sulla sinistra la villa Cavallazzi/Rossi.

MODIFICHE AL PROGETTO ORIGINARIO

Continuando a confrontare la nostra foto storica con l’attuale facciata sud, vediamo che vi sono state trasportate le cornici originali delle finestre. Nella parte superiore, sotto una piccola architrave in rilievo, esse recano la riproduzione in cemento di rami di quercia (sulla sinistra di chi guarda) e, almeno all’apparenza, di foglie di alloro con bacche dalla parte opposta. Dunque auspici di forza da un lato e gloria dall’altro, con al centro una conchiglia rovesciata: simbolo di eternità. Ad alcuni, al posto dell’alloro, sembra di vedere rami d’ulivo, ma il soggetto sarebbe troppo estraneo alle allegorie generalmente in uso, perciò si ritiene non credibile questa ipotesi.
Possiamo inoltre notare anche la posizione originaria della fontanella, con la vasca a forma di conchiglia, anch’essa in graniglia cementizia come il tavolo già visto, ed il già citato pergolato con la vite di “uva americana” ancora ben radicata in posto come “testimonianza storica vivente”.
Doverosamente riconosciute le inopportune modifiche del 1983, è comunque interessante notare che altre variazioni, evidentemente meno impattanti ed anzi funzionali ad ingentilire l’edificio, erano già state apportate: al progetto iniziale ma anche all’edificio stesso rispetto alla sua conformazione di partenza.
Le sopra ricordate terrazza e veranda, infatti, nel progetto del Belloni non esistevano.
Mentre l’uscita di servizio sul giardino, che dalla foto risulta in corrispondenza dell’ultima finestra, sulle planimetrie era proprio al centro della facciata sud, in posizione laterale rispetto alla grande sala da pranzo.
Al momento dell’acquisto Ognibene quest’ultima era infatti più piccola ed affiancata da un’anticamera sul suo lato orientale.
Non abbiamo però elementi per poter affermare con certezza se questa modifica sia sopravvenuta nel tempo o sia stata contestuale all’edificazione originaria.
Altre difformità che possiamo riscontrare oggi rispetto al progetto Magnani e Rondoni, sono: la presenza di un’ulteriore uscita di servizio dalla cucina del piano rialzato sul lato est del giardino ed i due balconcini al primo piano.
Assenti, ad eccezione del balconcino sul fronte nord, anche nella foto più antica che abbiamo di Villa Cairoli (a fianco), dove sembra di vedere aperte anche le finestre, oggi cieche, sul vano scale, questi elementi ci sono, invece, tutti nella fotografia panoramica della via Costanza (in basso).
Osservazione che fatichiamo a spiegarci, ritenendo le due immagini quasi contemporanee sebbene, ad oggi, non abbiamo certezza della data di nessuna delle due.
Per la seconda, considerando che l’alberatura stradale risulta realizzata nell’autunno 1911 e che le pianticelle si presentano ancora esilissime, si può tentare di ipotizzare il 1912-13, non di più.

LE DECORAZIONI DI ABILI ARTIGIANI
Vetri colorati, stucco, cemento e pietra naturale

Complessivamente, se paragonata a molte altre del Milanino, Villa Nice è una residenza tutto sommato modesta, nella quale, però, possiamo trovare ancora ben conservati alcuni esempi dell’abilità artigiana che impreziosiva tutte le case del quartiere.
Tre delle originali porte a due battenti delle stanze. “Laccate” come i relativi infissi e con le maniglie in ottone. I loro vetri smerigliati sono invece sostituzioni di quelli preesistenti. L’ultimo di essi, che recava sul profilo anche una delicata decorazione a greca, è andato in pezzi attraversato da una mano durante un diverbio giovanile tra fratelli: causato da opinioni divergenti su generi musicali e volumi di ascolto. La stessa mano che, molti anni dopo, pensava bene di usare l’aspirapolvere per pulire la doratura di cornici ottocentesche!
Nella stanza nord al piano terra il parquet copre le piastrelle dipinte dell’antica pavimentazione di tutta la casa; che sono ancora “calpestabili” al piano d’imposta e sui due pianerottoli (qui con diverso disegno) dell’ampio vano delle scale (a lato l'ultima delle tre rampe in cui sono scomposte): molto efficace nell’apprezzabile funzione di regolazione termica nella stagione calda.
Si tratta di un ambiente particolarmente ricco che si presenta intatto nella sua non trascurabile valenza scenografica caratterizzata da diversi elementi.
Un’alta fascia decorata a stucco (o intonaco “raddoppiato”) dipinto corre sulle sue pareti accompagnando la salita e riproduce un finto marmo rosa.
I gradini sono in pietra naturale (beola) come quelli delle scale esterne. Petrograficamente di tratta di uno gneiss, ovvero una roccia metamorfica (originariamente di varia genesi, nel nostro caso ignea - intrusiva) caratteristica per l'allineamento dei minerali che la costituiscono: deformatisi per effetto delle altre temperature e pressioni alle quali la roccia è stata sottoposta quando le forze telluriche l'hanno spostata in condizioni diverse da quelle nelle quali si è formata (sulla scala di Villa Nice oltre al luccichìo delle miche si notano i più grandi cristalli di quarzo e feldspati).
Per queste ragioni petrografiche la pietra, se tagliata in senso parallelo a quello dell'orientamento dei suoi minerali, è molto resistente e perciò è usata al modo che si è visto. Si tenga conto che nelle vecchie case di ringhiera milanesi i ballatoi erano fatti proprio con grandi lastre continue di questo materiale, e resistono ancor oggi (cosa che non si può dire del cemento armato!).
Continuando ad osservare i gradini si nota che i primi due in basso sono arrotondati sul margine che sporge dalla “larghezza” della scala (si veda la foto più sotto), indicativi, ci è stato detto, di una certa qual importanza dell'ambiente perché non ci si è limitati alla sua pura necessità funzionale ma si è avuta attenzione anche al fatto che essa possa essere gradevole, accogliente e comoda da salire e scendere. A questo scopo le proporzioni di “pedata” ed “alzata” sono accuratamente studiate (ci riserviamo di misurarle per studiarne il rapporto).
Altra annotazione: il piano del gradino sporgente rispetto alla sua base, oltre ad un ampliamento dell'appoggio per rendere la scala più comoda, è anche un intelligente accorgimento per evitare di sporcarlo, lavando la scala, con l’acqua che scorre verso il basso.
Sul pianerottolo intermedio si apre poi uno sportellino a saracinesca in metallo: la canna di caduta predisposta per gettarvi i rifiuti che finivano in un apposito vano della cantina, tuttora caratteristica per la sua ampiezza e le volte a botte in mattoni rossi. Nel corso dei lavori finalizzati ad abbassarne il piano di calpestio per incrementare l’altezza dei locali, si è verificato che la fondazione era costituita da ciottoli, la cui asportazione ha determinato la comparsa di qualche crepa nell’intero edificio.
In cantina è stato spostato anche un camino in marmo grigio lavorato, in precedenza collocato nello studio: la già citata stanza nord del pianterreno. Una volta il locale conteneva anche una grande vasca da bagno in pietra verde e vi era un pozzo, non è chiaro se avesse solo funzione di dispersione delle acque o, viceversa, sia stato perforato proprio per attingerle.
Tornando sulla scala, a darle luce provvedono due finestre, la più alta delle quali è un finestrone non apribile, con intelaiatura in ferro che lo suddivide in 16 riquadri dalle ampiezze simmetricamente variabili e chiuse da vetri “cattedrale” gialli. Anni fa qualche buontempone l’ha colpita con una pietra che l’ha danneggiata, senza però romperla del tutto per cui, fortunatamente, ancora “regge” con i materiali di inizio Novecento.
Decisamente peggio è andata alla grande porta in ferro e vetro di collegamento fra la sala da pranzo, in antico arredata con mobili in stile veneziano ed un lampadario in vetro di Murano, ed il giardino: anch’essa perduta per effetto dell’ampliamento del 1983.
Nel progetto originario avrebbe dovuto formare un caleidoscopico canocchiale, illuminato a colori da entrambi i lati, grazie al suo allineamento con l’analoga porta a vetri tuttora esistente subito dietro il portoncino in legno - con battacchi ornamentali a testa di personaggio grottesco e capigliatura leonina - che porta all’esterno dall’ingresso principale. Il penultimo proprietario, per una pretestuosa esigenza di sicurezza, ha voluto aggiungere alla sua intelaiatura in ferro ulteriori listelli: inefficaci per lo scopo dichiarato ma efficacissimi nel modificare le proporzioni armoniche degli spazi dell’intelaiatura e nel causare la rottura dei vetri, ripristinati con altri simili ma perdendo il valore della conservazione in posto di pezzi originali.
Completa l’ingresso una balaustra in cemento: alleggerita da colonnine sagomate a “fiaschetto” appoggiate su plinti e sormontate da capitelli, entrambi squadrati.
La orna anche un vaso identico a quelli oggi rimasti in posto sul garage ma che non è stato possibile conservare anche sui pilastri del cancello. Per questi ultimi quali vale l’incongruenza, già verificata per altri dettagli, fra la vecchia foto con Villa Nice/Cairoli in primo piano e quella di tutta la via.

LA LEGGEREZZA DEL FERRO

Sopra a tutto quel che abbiamo visto fin qui, il ruolo determinante nel conferire ricchezza e raffinatezza all’apparato decorativo di Villa Nice appartiene però, senza dubbio alcuno, alle opere in ferro battuto: obiettivamente il suo più prezioso ornamento.
Verniciate nel tipico “verde petrolio”, le troviamo in occorrenze minori, ma sempre con dettagli che denotano un’attenta cura realizzativa, come le inferriate che chiudono le finestrelle sopra la porta della cucina e quelle della cantina al livello del terreno: che mostrano terminazioni a coda di rondine ed una “S” centrale.
Crescendo in raffinatezza le si può apprezzare nella “frangia” a denti di sega che profila il contorno dei vetri della tettoia sopra l’ingresso e nel tralcio che la sorregge, nei due lampioncini e nelle bocche di drago della grondaia del balconcino est (assente in quello nord).
Il vertice è indiscutibilmente raggiunto nelle ringhiere dei due balconcini: dove foglie larghe e leggere (di cui ad oggi non siamo stati in grado di riconoscere il modello vegetale, anche se alcuni credono di vedervi una riproduzione di foglia d’edera mentre altri un ampio fiore di vegetazione palustre) si dispongono su due linee parallele e si combinano in simmetrie variabili al termine di tralci, ora lunghi ora corti, ora ricurvi e sinuosi, ora formando angoli netti ed essenziali come il gesto sulla tela tracciato dal pennello di un pittore astratto.
Una forma tipica del Liberty, detto anche “stile floreale”, conosciuta come “chiusura a frusta”.
Questo genere di disegno non si trova tanto di frequente, in particolare al Milanino. Dove è più facile trovare ferri battuti con forme più "geometricamente" arrotondate. Tutto lascia pensare quindi ad artigiani che lavoravano, per così dire, "su misura", realizzando manufatti di ottimo livello e specifici per il luogo che erano destinati a decorare.
Riconosciamo l’identico disegno nella lunga ringhiera della scala interna, completata da un corrimano sagomato in legno lucido e terminante con una colonnina ornata da un grande pomello in ottone, la cui superficie è intagliata da scanalature che si dipartono dal suo vertice e lo avvolgono, ricurve ed eleganti, in senso orario.

LA BELLEZZA DEL/NEL PARTICOLARE

Non a caso, proprio per questa sua unicità, proprio questa scala è stata scelta come immagine “di rappresentanza” sui manifesti della mostra La bellezza del/nel particolare con la quale si è voluta riaffermare l’importanza della qualità di ogni attività umana anche di quella più umile che, nel nostro caso, ha giocato un ruolo essenziale nel determinare il fascino del Milanino: percepito da tutti ma del quale, se chiamati a renderne ragione, non tutti saprebbero individuare con esattezza la provenienza.

Un fascino dovuto, per l’appunto, alla bellezza dei particolari decorativi delle ville che, anche se non esplicitamente percepiti, danno all’insieme un’aura di pregio che lo rende unico.
In un mondo che pensa più alla quantità del tempo, del denaro, della produttività, rivedere piccoli manufatti, esempi di lavorazioni artigianali accurate, può fare riflettere. Ogni particolare rivela la ricerca di perfezione e di bellezza; in esso si può cogliere un pensiero, un gesto, una capacità manuale che ha creato l’oggetto con amore, cosa che spesso oggi non accade.
Non si tratta di capolavori di artisti entrati nella storia dell’arte, tuttavia le ville del Milanino trovavano in queste particolari “decorazioni”, opera di artigiani abili nella lavorazione della pietra, del ferro, del vetro, del graffito... la possibilità di diventare più “decorose”.
Anche il villino più modesto acquistava così una sua precisa identità e diventava gradevole ed accogliente. Perché la ricerca della bellezza è sempre stata presente nell’uomo e l’arte rappresenta un tentativo di ricostruire la bellezza della natura.
In architettura questa ricerca di bellezza si è tradotta, fino agli inizi del secolo scorso, nell’utilizzo della decorazione: ottenuta grazie ad ingegno e creatività non disgiunti dall’impiego di particolari tecniche artigianali.
Nelle ville del Milanino, particolarmente negli interni, possiamo dunque trovare esempi di queste decorazioni, realizzate agli inizi del ‘900 secondo un repertorio di forme legate allo stile floreale, all’art decò e più in generale al gusto eclettico di fine Ottocento.
Testimonianze arrivate fino ad oggi grazie a quei proprietari che non hanno ceduto alle lusinghe della speculazione ed hanno custodito e conservato i loro tesori a beneficio proprio e della collettività.
(Lidia Arduino, in “Svelato il fascino del “Milanino” LA BELLEZZA Cura dei dettagli, ingegno, creatività” – La Scossa n. 3 settembre 2009 pag 10)

FERRO ALLA PATRIA

In qualche caso questa volontà di conservazione è stata costretta a cedere il passo a cause di forza maggiore. È quanto è successo alla cancellata di Ville Nice così come a tutte le altre del Milanino. Dimostrando poca accuratezza nella loro ricerca (i lettori fanno sempre bene a non prendere acriticamente per buono tutto quanto si può trovare pubblicato), alcuni professori universitari hanno infatti definito originale la cancellata perimetrale della proprietà. Ma così non è.
Colpa della guerra: che l’ha sottratta, assieme a tutte le altre, appropriandosene con l’iniziativa del “ferro alla patria”. Il fatto avvenne entro l'ultimo giorno del 1940, scadenza del termine per la consegna degli oggetti di metallo necessari alla produzione bellica di un’Italia appena entrata (naturalmente impreparata) nella Seconda Guerra Mondiale.
Oltre alle pentole di rame, da denunciare per obbligo di legge (ma, come sempre accade, non necessariamente ottemperato, almeno stando ai ricordi di chi c’era), dovevano essere cedute anche le recinzioni. Per questo motivo furono demoliti chilometri di cancellate in ferro. Alcune di esse anche di grande pregio artistico. Nell'aprile 1942 sarà ordinata anche la requisizione delle campane, tranne quelle dichiarate monumentali: il bronzo nel quale sono fuse era prezioso per la fabbricazione di armamenti.
Il “merito” della “svista accademica” è, invece, da ascrivere all’abilità grafica dell’ing. Ognibene. Acquistata Villa Cairoli senza più cancellata, ne commissionò infatti il ripristino su un disegno che realizzò egli stesso ispirandosi ai ferri sopravvissuti.
Se confrontiamo la cancellata attuale con quella nella foto antica già vista in precedenza possiamo constatare che le è molto simile sebbene vi manchino le foglie, le forme dei cuori abbiano geometrie e proporzioni un poco differenti e sia più bassa.
La figlia Nice racconta che il papà Roberto respinse un primo progetto di un fabbro, ritenuto non all’altezza, e per questo decise di fare tutto da sé. Un merito che gli va riconosciuto: al momento in cui scriviamo (ma i lettori ci potranno correggere) non ci risultano al Milanino molte altre cancellate ricostruite con altrettanto gusto estetico e che ripropongano il ferro battuto.
Per immaginare come potesse essere quella originale, guardare anche noi, come ha fatto l’ing. Ognibene, ai ferri battuti arrivati fino ai nostri giorni è un esercizio utile per la nostra fantasia e dà ottimi risultati.
Altri indizi interessanti (non validi per il nostro caso, ma per altre ville sì) sono le forme testimoniate da decorazioni quali, ad esempio, quelle dei pilastri della recinzione, visto che il tutto aveva una coerenza d’insieme.
La veridicità di queste osservazioni è immediatamente comprovata dalla villa adiacente Villa Nice sul lato ovest. È interessante anche notare, dall’altezza dei pilastri, che le recinzioni erano anch’esse molto alte. Curiosamente oggi i regolamenti comunali le impongono più basse, incuranti del fatto che risultano sproporzionate rispetto ai pilastri nei quali sono infisse. Pertanto alla proprietà del n. 8 di via Costanza è stato per questo motivo ordinato di abbassarla.
Sempre in tema di Recinzioni, non c’è purtroppo altrettanta vigilanza sul pieno rispetto del Regolamento Edilizio comunale che, all’Art 68 comma 1, prescrive:

Le recinzioni sulle piazze e sulle vie Buffoli, Cooperazione, Previdenza, Benessere, devono essere trasparenti o verdi, tali da non creare barriera tra verde pubblico e verde privato. L'altezza massima consentita è di m. 1,80. Sono preferibili le cancellate in ferro su zoccolo in muratura.

Ai lettori la curiosità di percorrere le vie citate e verificare di persona. E magari di segnalare alle autorità le inadempienze, e chiedere conto del perché il regolamento non è applicato.
Per le altre vie del Milanino il rispetto della prescrizione è facoltativo. Perciò “Grazie!” ai proprietari che liberamente scelgono di non nascondere il bello che hanno in custodia ma lo condividono con i passanti.

NO BOX 2006: IL CITTADINO ATTIVO SALVA LA PROSPETTIVA

Una di queste belle visuali è anche quella che si può apprezzare dal cancello di Villa Nice. Questo sì ancora originale, perché il già ricordato obbligo di donare il ferro alla Patria prevedeva un’eccezione per i cancelli veri e propri e donarli, dunque, era facoltativo.
Il suo indubbio valore storico ed artistico-artigianale è naturalmente dovuto alle decorazioni in ferro battuto, coerenti con tutte le altre già descritte, anche se le sue forme vegetali si distinguono da esse presentando alla sommità dei fiori a 4 petali ed in basso un altro tipo di foglia, più larga ed allungata.
Oltre a ciò il suo pregio odierno è costituito anche dalla profondità che lo sguardo dell’osservatore può raggiungere attraverso di esso: una visuale che arriva fino alle alberature del giardino successivo.
L'insieme dei giardini delle ville circostanti, e nonostante alcuni interventi edilizi in tempi recenti che ne hanno parzialmente ridotto l’estensione, costituisce quello che è forse il maggiore parco alberato del Milanino, con una continuità che si estende verso sud arrivando fin quasi a ridosso di via Cooperazione.
Anni or sono questa panoramica era arricchita anche da un’infilata di alberi che si coloravano variamente, nelle chiome ed al suolo, seguendo la successione delle stagioni.
Il più bello di essi, poi, un kaki ornamentale non troppo disetaneo rispetto all’edificio, aveva un tronco molto simile ad una colonna poggiata su un plinto. Purtroppo tutto ciò è stato sacrificato sull’altare della “dea automobile” alla quale si voleva offrire anche questo scorcio presentando alle autorità il “fatto compiuto” dell’avvenuto abbattimento abusivo dell’albero che, per il suo pregio, avrebbe ostacolato l’ottenimento delle necessarie autorizzazioni.
E se oggi si può passare in via Costanza ed ammirare al civico n. 4 questo “cancello centenario” in ferro battuto davanti allo sfondo di un prato, anziché vedervi subito dietro le fauci spalancate dello scivolo di un box interrato, come avviene troppo spesso passeggiando per Milanino, si deve riconoscenza al Gruppo Naturalistico della Brianza (la cui sezione di Cusano Milanino ha sede proprio in Villa Nice), che ha avviato una petizione per opporsi a questo genere di sciagure paesaggistiche, ed al sig. Armando Scozzesi, delegato dell'associazione Amici del Milanino in commissione paesaggio comunale, che ha battagliato per far valere buon senso e normative troppo (e da troppi) dimenticate.
Chi volesse saperne di più, oltre a rivolgersi direttamente all’interessato, può leggere sul periodico La Scossa l’appello lanciato dal Gruppo Naturalistico della Brianza (“Ha superato i confini locali, l’appello per la Città Giardino” – La Scossa n. 1 gennaio 2006 pag. 6 – leggi di più >>>) ed una selezione delle risposte, anche internazionali e molto qualificate, che sono arrivate al Sindaco (“Gentile Sindaco, dall’Italia, ed oltre, scrivono per il Milanino” – La Scossa n. 2 maggio 2006 – leggi di più pag. 12 >>> e pag. 13 >>>).
È importante diffondere nell’opinione pubblica la consapevolezza che l’impegno dei cittadini può essere determinante per salvaguardare anche le funzioni pubbliche di un bene privato, e questo è uno dei casi (purtroppo pochi) per i quali si può raccontare un lieto fine.
Al quale concorre anche l’albero di kaki di cui si è detto: oggi ricresciuto da un germoglio spuntato dal ceppo lasciato da chi l’aveva abbattuto. Anche se ancora lontano dal valore estetico che aveva raggiunto un tempo, e che non potrà mai più recuperare, resta una testimonianza dell’energia vitale della natura che ci basterebbe soltanto assecondare per vivere meglio.

PER LE STRADE DEL MILANINO

IN VIA COSTANZA FIORI E VIRTÙ

La via Costanza, nella quale ci si trova uscendo da Villa Nice, è interessante perché, in uno spazio molto contenuto, riesce ad essere rappresentativa di molti dei caratteri tipici del Milanino.
Intanto il suo nome è quello di una virtù: che ne riecheggia altri nelle vicinanze come Benessere, Risparmio, Previdenza, Quiete. E se le non lontane Cooperazione ed Unione rimandano all’attività del fondatore Luigi Buffoli, al quale è intitolato il primo viale che incrocia da est verso ovest, le successive, via Primula e viale dei Tigli, sono emblematiche di tutta la toponomastica locale: incentrata su nomi di fiori ed alberi.

IL TOMBINO STORICO

Spostando lo sguardo dalla segnaletica verticale verso terra, possiamo notare un tombino in ghisa recante la scritta “Milanino 1910”. Il suo essere leggibile guardandola da sud, conferma quanto si vede in una delle prime foto di via Costanza (presentata in apertura di questa nostra storia): ovvero che il primo suo lato ad essere edificato fu quello meridionale.
Davanti ai relativi villini già abitati (nell’allora Villa Cairoli si vede una tenda semisollevata a riparare dal sole l’ingresso della cucina dal giardino: segno della presenza di residenti) si estende infatti soltanto un prato, attraversato in primo piano da una traccia in terra battuta che diventerà via Primula.
Altra indicazione che possiamo “leggere” dal tombino è la data di realizzazione delle opere di urbanizzazione pubblica e, di rimando, un inequivocabile punto fermo indicativo della data di costruzione delle case.

MARCIAPIEDI VERDI

Altra interessante sopravvivenza in via Costanza sono i “marciapiedi verdi”. Particolarmente piacevoli a vedersi quando vi fioriscono margherite ed altri fiori spontanei, assumono oggi anche un importante valore pratico per via delle molteplici funzioni ecologiche che assolvono.
In tempi di surriscaldamento climatico contribuiscono a migliorare il comfort urbano mitigando la calura estiva.
La superficie vegetale fissa al suolo le polveri inquinanti e, quando piove, permette all’acqua di infiltrarsi nel sottosuolo anziché ruscellare veloce in superficie ed intasare le fognature… per poi scaricarsi nel Seveso e riemergere allagando Niguarda ed il quartiere Isola di Milano (un nome un programma!).
Inoltre costituiscono una sede ottimale per l’impianto di alberature che possano sviluppare in modo corretto il proprio apparato radicale, in altre vie costretto in tornelli di ampiezza insufficiente che fa pensare alla tortura inflitta nel mondo orientale ai piedi delle bambine per farli rimanere “elegantemente” piccoli.
A dire la verità non si direbbe che le robinie che oggi vi sono presenti (superstiti di remoti filari di cui restano più fallanze che alberi) abbiano particolarmente beneficiato di questa favorevole condizione.
Sia le sopravvissute robinie innestate, sia quelle spontaneizzate, ricresciute dalle ceppaie grazie alla vitalità vegetativa di questo genere di alberi, dimostrano infatti gravi problemi vegetativi e di stabilità, resi particolarmente evidenti dalla presenza di corpi fungini che pullulano numerosi su rami e tronchi.
Ma causa di ciò non è il substrato sul quale crescono, bensì lo stadio vegetativo senescente delle varietà piantate, oltre ad improvvidi interventi di potatura. Affermazione dimostrata dai punti nei quali avvengono periodici sbrancamenti anche in condizioni meteorologiche non necessariamente estreme.

Curiosità: fu Linneo ad attribuire alla robinia il suo nome, in onore di Jean Robin (1550 - 1628), giardiniere ed erborista dei re di Francia Enrico IV e Luigi XIII, che la introdusse in Europa dall’America Centro-Settentrionale come pianta ornamentale.

Anche i marciapiedi verdi sono stati oggetto di una mobilitazione civica in loro difesa. A promuoverla sono stati gli stessi residenti e, di nuovo, il Gruppo Naturalistico della Brianza. A minacciarli era la volontà dell’amministrazione comunale di pavimentarli con autobloccanti prefabbricati in cemento (“Dai marciapiedi verdi alle vie residenziali” – La Scossa n. 1 marzo 2005 pag. 12 – leggi di più >>>).
Oltre ad essere nota a tutti la loro perfidia (chi non ha mai inciampato in elementi già sconnessi poco dopo la loro collocazione?), non sussiste neppure il loro presunto beneficio ambientale: quello di essere permeabili e consentire l’infiltrazione nel sottosuolo delle acque meteoriche. Sono infatti fissati su una soletta di cemento.
Non convincevano gli oppositori anche le altre due ragioni con le quali si motivava l’intervento: renderli più facilmente percorribili e ridurre i costi di manutenzione.
La prima è smentita da quelli già realizzati: con saliscendi per gli accessi carrai (privilegiati alle esigenze dei pedoni) che dissuadono dal farne uso chi fatica a camminare, è costretto su una carrozzina o è colui che la spinge. Tutti costoro, pertanto, preferiscono stare direttamente sulla carreggiata stradale, come si è sempre fatto al Milanino.
Quanto alla seconda, è stato calcolato (ed ammesso dall’allora assessore all’Urbanistica Laura Bianchi) che sfalciare periodicamente l’erba su un marciapiedi costa meno che “metterlo in ordine” definitivamente realizzandovi una pavimentazione lapidea: non eterna e che andrà manutenuta di nuovo nel tempo (come chiunque può notare).
Per non dire della conseguente necessità di diserbo, potenziale inquinante della falda idrica e che spesso secca anche la vegetazione nei giardini privati che si affacciano sulla via (“Non solo marciapiedi” – La Scossa n. 3 dicembre 2005 pag. 10 – leggi di più >>>).
La protesta ha avuto successo pertanto, seppure “assediati” dagli autobloccanti delle vie vicine, in via Costanza i “marciapiedi verdi” ancora resistono e sono addirittura assurti a suo elemento distintivo e qualificante: riconosciuto anche dai professionisti che più di recente sono stati incaricati di redigere gli strumenti urbanistici comunali.
E c’è anche chi se ne prende cura. Alcuni hanno ingaggiato un confronto permanente con le auto di chi vi parcheggia sopra due ruote a cavallo del cordolo, appropriandosi di inesistenti posti di sosta per lasciare i figli alla scuola di viale Buffoli. Comportamento altamente diseducativo che danneggia irreparabilmente il tappeto erboso: continuamente riseminato dai benemeriti frontisti che si vedono per di più apostrofati dagli abusivi su 4 ruote “Come si permette?!” quando si “azzardano” a chiedere rispetto per il bene comune. lnterpellata in proposito la Polizia Locale si dichiara impotente a reprimere le violazioni e, sebbene esplicitamente invitata a farlo, la stessa direzione della scuola non si è sentita in dovere di svolgere un’azione educativa in questo senso. Viceversa chiedendo a sua volta (ed ottenendola) la pavimentazione di una parte del marciapiedi vicina al suo ingresso di servizio (sic!).
Nel meno conteso tratto ovest di via Costanza ha invece meno ostacoli (qualcuno però sì) l’azione di chi, in attesa di provvedimenti del Comune, sta riempiendo le fallanze lasciate dalle robinie morte ed abbattute sostituendole con arbusti fioriti: a portamento arborescente come l’ibisco cinese, cespuglioso come la forsythia o a siepe come il ligustro.
Un intervento che, forse inconsapevolmente, ripropone l’antica sistemazione a verde delle strade del Milanino così come documentata da foto e cartoline d’epoca.
In esse si vede, infatti, l’associazione fra alberi d’alto fusto e, nell’interfilare, cespugli; che, oltretutto, contengono la crescita dell’erba riducendo gli interventi di manutenzione ad una meno frequente potatura di contenimento dopo le fioriture.
Inoltre si sta diffondendo la spontanea attività, che il Gruppo Naturalistico della Brianza sta cercando di coordinare, di cura degli "alberelli di cortesia". Accompagnando quel che la natura fa da sola, con interventi minimi alla portata di chiunque, si rimpiazzano gli alberi mancanti sulle nostre strade proteggendo quelli che ricrescono spontaneamente e ci assicurano un po' di verde; in attesa che chi ne ha la competenza provveda a nuovi impianti ( "Piantiamo alberelli nei vuoti tornelli" - leggi di più >>>).
In premio la soddisfazione di vedere crescere in fretta alberelli frondosi sotto i quali passeggiare, e poter esclamare: è (anche) merito mio! Attività piacevole, come espressamente dichiarato da chi la pratica in "Cura del verde o verde che cura? - leggi di più >>>).
Infine c’è chi si dedica ad “opere di bene”, ovvero usa le pinze del camino non già per attizzare le braci ma per tenere pulita la via (non solo di fronte a casa propria) raccogliendo le cartacce che altri vi gettano a terra.

SINERGIE ARBOREE

Questa spontanea e positiva commistione pubblico - privato si concretizza anche in una gestione delle alberature di buon senso. Ad esempio nella rinuncia da parte dei tecnici comunali a ripiantare, sotto un tasso in proprietà privata la cui chioma si sta allargando in modo imponente anche verso la pubblica via, una robinia seccata con una nuova che sarebbe cresciuta stentatamente.
Viceversa sono avveduti quei privati che, anziché lamentarsi perché i frondosi tigli del Comune fanno ombra al loro giardino ed impediscono la crescita magari di striminziti prunus, non ne chiedono reiteratamente la potatura ma si godono tutti i vantaggi di una splendida galleria vegetale lasciando all’Ente pubblico l’impegno di manutenerli.
Per vedere dal vero un esempio di ciò basta percorrere la via Costanza verso est e, attraversando il viale Buffoli davanti alla Torre Piezometrica dell'Acquedotto, imboccare la dirimpettaia via Risparmio.
Passarvi nei giorni di maggior calura estiva è l’esercizio migliore per capire quanto sia opportuna una politica della progettazione del verde urbano finalizzata a favorire la possibilità che le alberature private e quelle pubbliche non siano in competizione ma complementari, interdigitandosi nel fornire beneficio alla collettività.
La lezione più importante del Milanino è forse proprio quella che dimostra quanto fresco, verde bello da vedere ed aria più pulita non badino ai confini delle recinzioni.
In ciò risiede anche la risposta al dubbio che può sopravvenire al passante che si domandi il perché alcune vie siano curve, come la nostra via Costanza, senza che si colga alcun apparente motivo che ne giustifichi il tracciato. La spiegazione è che, rispetto ad una rettilinea, una via curva ha un effetto paesaggistico molto più gradevole permettendo a chi la percorre di scoprire poco a poco le bellezze in muratura e vegetali degli edifici e dei giardini che vi si affacciano.

IL MISTERO DEI CORDOLI IN PIETRA

Ultimo dettaglio fisico, che merita anch’esso di essere adeguatamente apprezzato, sono i cordoli di separazione fra carreggiata e marciapiedi. Sono blocchi massicci in granodiorite: una roccia intrusiva che si forma per raffreddamento del magma in prossimità della superficie della crosta terrestre ma ancora al suo interno. Il suo raffreddamento più lento rispetto a quello delle rocce effusive determina la sua struttura a "grana" più grossa perché permette una maggiore crescita nelle dimensioni dei minerali che costituiscono la composizione mineralogica: quarzo, silicati come plagioclasio e k-feldspato, mica biotite e l'orneblenda come anfibolo. La maggior presenza di questi ultimi due minerali accessori di colore scuro differenzia la granodiorite dal granito, più chiaro.
La dimensione di questi cordoli massicci, così come quella dei corpi in cui sono scalpellate le caditoie verso la fognatura, ne fa oggetti di ben altro valore rispetto a quelli sottili usati per le recenti cosiddette “riqualificazioni”; vocabolo troppo spesso adoperato con presunzione inversamente proporzionale all’effettiva natura e qualità dell’intervento urbanistico. I cordoli nuovi sono infatti lisci e squadrati meccanicamente ed immancabilmente si spezzano, a pochi giorni dalla messa in posto, non appena sono urtati da qualche mezzo pesante.
Viceversa i cordoli originari si sono mantenuti intatti per ormai più di un secolo, indifferenti anche al crescente incremento delle dimensioni, e del peso, dei veicoli a 4 ruote.
Hanno anche un’altra particolare caratteristica che fa di essi dei manufatti preziosi. Sono detti, infatti, bocciardati, ovvero lavorati con la tecnica della bocciardatura: che prende il nome dalla “bocciarda”, il particolare martello col quale la si pratica che presenta tutta una serie di “punteruoli” all’estremità battente, normalmente piatta. Questo tipo di finitura consiste nello scalpellare la superficie di elementi lapidei da lasciare a vista corrugandola leggermente per conferirle un aspetto simile al materiale naturale. Il risultato è apprezzato per l’effetto di chiaroscuro che determina e perché il manufatto risulta anche esteticamente più durevole. Sulla superficie bocciardata non sono infatti rilevabili successivi piccoli distacchi e sfogliature.
Questo spiega perché di molti dei cordoli rimossi nel corso del rifacimento di altre vie si è “misteriosamente” persa ogni traccia. E le puntuali richieste di chiarimenti rivolte dal Gruppo Naturalistico della Brianza agli uffici competenti del comune li hanno trovati… incompetenti!

REGINA PACIS +80

Altre curiosità di via Costanza, questa volta storiche, sono legate alla scoperta (grazie alla lettura del volume “Una passeggiata lunga un secolo” di Lamberto Tadiello e Gabriele Marazzini) che vi aveva sede il primo periodico parrocchiale del Milanino: Regina Pacis. Lo dimostra il nome della via che si legge sulla copertina del suo primo numero del febbraio 1921.
Da alcuni è stato erroneamente considerato uno strumento di comunicazione finalizzato alla raccolta fondi con la quale si voleva finanziare l’edificazione al Milanino (allora privo di una chiesa) di un “Tempio votivo diocesano a ringraziamento della pace ridonata all’Europa dopo la Prima Guerra Mondiale”.
Più correttamente si trattava, invece, del bollettino della comunità cristiana del Milanino, che ancora non era costituita in parrocchia. Resta comunque indubbio che uno dei suoi temi principali era la costruzione della Chiesa, e quindi la raccolta di denaro per questo scopo.
L’indirizzo “Via Costanza” come sua sede dipende dal fatto che essa corrispondeva con la casa del delegato apostolico don Gioachino Antonini, che abitava presso il Collegio Frassinetti: ex casa-Albergo, ex Collegio Reale delle Fanciulle, ed infine al tempo gestito come scuola/collegio dalle Suore Dorotee (ed oggi Istituto scolastico salesiano Maria Ausiliatrice). L’ingresso della stanza del prete era ovviamente quello di servizio su via Costanza e non quello principale su Viale Buffoli.
All’oscuro di tutto ciò, per i singolari corsi e ricorsi della storia, 80 anni dopo, poco distante in via Costanza 4, ha avuto sede la redazione de La Scossa, periodico parrocchiale della Regina Pacis avviato nell'aprile 2001 e che per 10 anni ha raccontato le vicende non solo parrocchiali del Milanino, della città ed oltre.
Sorvoliamo qui sulle ragioni, ancora incomprensibili, che ne hanno determinato la “sospensione temporanea”: così temporanea da essere tuttora perdurante. Invitiamo invece a leggere la bella storia della “Samara d’acero” che ha portato lo spirito dell’antico nel più giovane periodico. (“Un seme d’acero sull’ala del vento” – La Scossa n. 1 marzo 2010 pag. 2 – leggi di più >>>).

MODELLO DI VIABILITÀ CONDIVISA

Che al Milanino sia invalsa l’abitudine di camminare per strada anziché sui marciapiedi lo si è già ricordato.
Al di là di motivazioni contingenti e cause di forza maggiore che inducano a farlo, è la stessa natura del quartiere che lo consente.
Anche grazie ad un ben studiato disegno dei sensi unici, che disincentiva l’attraversamento da parte dei non residenti, al Milanino il traffico automobilistico non è particolarmente invasivo.
Per questo motivo, anche in tempi non remoti, generazioni di ragazzini hanno utilizzato le sue strade ed i suoi incroci come campo di giochi.
Così facendo hanno dimostrato che, anche in assenza di un’apposita disciplina della circolazione veicolare, e fedele anche in questo alla sua vocazione internazionale, al Milanino è già una realtà consolidata nei fatti ciò che da tempo in Europa non è più una novità.
Stiamo parlando di quartieri nei quali, senza dover precludere in alcun modo la circolazione alle auto, i veicoli sono indotti a rallentare la velocità per rendere la strada non più loro esclusiva “proprietà” per sosta e transito, ma compatibile a tutte le funzioni: passaggio di mezzi a motore e ad energia umana, gioco di bambini, sosta e passeggio di pedoni, circolazione delle biciclette in ogni senso anche sui sensi unici...
In termini tecnici queste realtà sono conosciute come “vie residenziali” (in senso viabilistico) ed identificate con una segnaletica che, nella versione italiana (nell'immagine qui a lato a confronto con quella europea, sotto), omette l’automobile.
Si sa che in quanto alla teoria non siamo secondi a nessuno, ci è solo un po’ più difficoltoso il passaggio alla pratica.
Da ormai più di un decennio il Gruppo Naturalistico della Brianza ricorda che, istituendo su tutto il quartiere una generalizzata “priorità pedonale”, non si avrebbe alcun impatto negativo sulla viabilità perché non si farebbe altro che formalizzare quanto già sussiste: perché tutte le vie del Milanino hanno già questa natura.

IL TRAM

Restando in tema di mobilità, non si può tacere che Buffoli è stato un precursore anche in questo. Aveva infatti progettato di collegare il Milanino con Milano per mezzo di una ferrovia soprelevata. Se ne conoscono i disegni progettuali ed esiste documentazione di un suo prototipo “Telfer” realizzato: a Genova per l’Esposizione Igiene, Marina e Colonie del 1914.
Più concretamente, ai confini del Milanino arrivò il tram a vapore. Con due linee.
Una per Desio ed oltre, ed una verso Cinisello; che si biforcavano nel luogo, appunto per questo motivo, ancora oggi denominato come “Il bivio”, nonostante vi si intersechino 5 strade.
La seconda delle due aveva una stazione proprio nel quartiere Regina Elena di Cinisello, al termine di viale Unione all’altezza dell’incrocio virtuale con il prolungamento del Viale Buffoli (foto a lato).
(“Il tram al bivio” – L’Eclettico, giugno 2013 – leggi di più >>>).
La Milano - Cusano - Cinisello a vapore fu poi affossata dal tram elettrico Milano - Cinisello via Bicocca, entrato in funzione nel 1913. Questo tram fu anche un grande servizio per il “Villaggio dei Giornalisti”, a danno ovviamente del Milanino.
L’elettrificazione del tram per Cusano si compì solo il 10 gennaio 1926, mentre il ramo che arrivava in fondo a viale Cooperazione, raggiungendo il centro del Milanino, fu inaugurato il 3 maggio 1931: con una ricca proposta di appuntamenti che includevano: l’arrivo della vettura inaugurale da Milano con a bordo le autorità, la benedizione del nuovo tronco tramviario, un corteo, discorsi, altre inaugurazioni contestuali e l’insediamento della “Commissione Comunale consultiva per lo studio e la redazione del Regolamento Edilizio e Igienico che deve stabilire per l’avvenire le disposizioni intese ad assicurare e a disciplinare la vitalità e i progressi della Città Giardino di Milanino”. Il tutto si concludeva col “Banchetto popolare” al ristorante Milanino e con il curioso dettaglio dell’indicazione del “codice di abbigliamento”, vista l’epoca storica facilmente intuibile: “Fascisti in nero!”.
Con l’elettrificazione si aprì anche il nuovo tracciato che, lasciando la Valassina, passava per via Azalee - piazza Magnolie, dove era prevista una stazione però mai realizzata (disegno a lato).
Sulle vicende delle tramvie della Brianza sono state pubblicate la cronaca dell'ultima corsa del Desio ed una sintesi della loro storia centenaria (“Commozione sull’ultima corsa del Desio ed Elettrificazione e declino” – L’Eclettico, febbraio 2013 – leggi di più >>>).
Qui possiamo limitarci ad aggiungere che il tram per Desio e Carate era il mezzo usato dalle suore salesiane per portare in gita le ragazze dell’oratorio. L’allora piccola Nice oggi ricorda che, in queste occasioni, uno dei loro maggiori divertimenti era affacciarsi dai finestrini quando si attraversavano i paesi e cantare a squarciagola la canzoncina: “Sempre col Papa, fino alla morte, che bella sorte, sarà per noi!”.
Al capolinea di viale Cooperazione, grazie allo sdoppiamento dei binari, si svolgeva sempre la manovra dell’inversione fra motrice e rimorchio per il ritorno verso Milano, col tramviere che scendeva a terra per azionare lo scambio e per abbassare un pantografo (l’elemento di contatto con la linea aerea di alimentazione elettrica) ed alzare l’altro.
In tanti ricordano le littorine (da definirsi più precisamente “motrici interurbane”) dalle memorabili livree di colore verde (con la caratteristica “pertegheta” in luogo del pantografo) ed arancio.
Geniale soluzione di design, prima dell’invenzione del “design”, erano i loro sedili in legno con la maniglia che permetteva di ribaltare lo schienale quando il mezzo invertiva il senso di marcia per evitare ai passeggeri di viaggiare seduti “al contrario” o per allestire un “salottino” dove chiacchierare in quattro amici durante il viaggio.
Dispiace rilevare quanto l’umanità sia “avanzata a ritroso”, visto che i progettisti degli interni dei Sirio, in servizio sull’odierna metrotramvia Milano – Parco Nord, sembra li abbiano studiati apposta per farvi scivolare ad ogni frenata i malcapitati che vi si accomodano e con una distanza fra i posti che si fronteggiano sui due lati nella quale non stanno neppure i piedi dei passeggeri seduti, figurarsi quelli di chi sta in piedi e deve passare.
Per varie ragioni il tratto (tecnicamente “antenna”) del Milanino venne dismesso, ed ora c’è chi non vede l’ora di realizzare sul suo tracciato una ciclabile (altri sono già soddisfatti di potervi posteggiare sopra le auto), mentre sarebbe stato lungimirante farlo proseguire come primo segmento di una linea est ovest che avrebbe potuto chiudere l’anello con la Metrotramvia 31 di Cinisello in un’ottica non più solo Milanocentrica. (“Facciamo ritornare il tram al Milanino” – La Scossa n. 3 ottobre 2006 pag. 11 – leggi di più >>>).
Ne restano alcuni cimeli come la veletta con l’indicazione della destinazione, le bandiere, una verde ed una rossa, per dirimere la precedenza diurna (di notte si usavano lanterne) in corrispondenza dei raddoppi perché la linea era per lo più a binario unico, ed infine il ferretto a “L” pulisci scambio, lo scopino in saggina per allontanare la terra rimossa ed il lungo cacciavite con cui il tranviere scendeva dal mezzo per azionarlo.
Per lungo tempo dopo la dismissione ha continuato anche ad essere in funzione il ciclo semaforico dedicato al tram all’incrocio con via Sormani: i nostalgici vi vedevano il passaggio del “Milanino fantasma”.
Un cimelio di ben più grandi dimensioni è stata infine, per anni, una motrice a due assi della serie Reggio Emilia, posteggiata su binari all’interno del giardino del sig. Sozzi nella vicina via Fiordaliso. Ad essa non mancava neppure la linea aerea elettrica, grazie alla quale si affacciava sulla strada per partecipare alle feste di paese, ed in particolare per rendere omaggio al passaggio delle processioni religiose della Regina Pacis! Oggi ne restano i binari mentre la vettura, inizialmente ceduta ad appassionati di Cormano, è stata da questi ventuta per 20.000 € ed ora si trova a Maranello nell'ambito di una pista per auto sportive.

IL COMITATO PER IL TRAM

Se scriviamo qui di tutto questo è perché Villa Nice, oltre a trovarsi nelle immediate vicinanze del vecchio capolinea (in casa si era abituati ad ascoltarne il fischio di arrivo per uscire a prendere la corsa verso Milano), è stata, ed è tuttora, la sede del Comitato per il Tram, costituitosi nel 1993 a sostegno del mantenimento e potenziamento della linea quando cominciò ad essere arretrata in vista di un suo rilancio con la Metrotramvia in progetto: che dovrà arrivare a Seregno e per il quale sono stati avviati gli espropri e condotti i lavori sui sottoservizi (leggi di più >>>).

IL GRUPPO NATURALISTICO DELLA BRIANZA

UN LOGO D’ARTISTA

Alcuni anni dopo, per poter avere una più autorevole voce in capitolo, il Comitato per il Tram divenne Sezione Locale del Gruppo Naturalistico della Brianza: un’associazione ambientalista diffusa a livello regionale ed affiliata alla Federazione Nazionale Pro Natura (leggi di più >>>). Suo fondatore fu il giornalista e geologo svizzero Giorgio Achermann che si era trasferito alle pendici dei Corni di Canzo.
Fu lui ad avere l'idea di dotare l’associazione, crediamo l’unica a potersi gloriare di questo vanto, di un “Logo d’artista”. Nell’originale simbolo si riconoscono stilizzate le sagome montuose dei Corni, le acque del lago, prati e fiori ed uccelli appollaiati sui palchi delle corna di un cervo che sembrano quasi i rami della veste invernale di un albero.
A realizzarlo fu la mano di uno dei più importanti esponenti della pittura italiana del Novecento: Salvatore Fiume. E la circostanza che permise l’incontro con Achermann fu che l’artista spostò il suo atelier da Parigi ad una ex filanda proprio in Canzo. L’associazione custodisce gelosamente ed espone periodicamente il prezioso bozzetto che è accompagnato da una lettera autografa nella quale Fiume si scusa con Achermann per il ritardo nella consegna ed il risultato che giudica inadeguato.
Degna di nota è anche la recente, scherzosa, corrispondenza intercorsa con l’attuale Arcivescovo di Milano, Mario Delpini, iscritto dal 2017 quale “Socio onorario”.
Rinviando ad altra pagina elettronica i lettori interessati a conoscere le ragioni dell’iniziativa (leggi di più >>>), visto che si sta parlando di natura è divertente qui osservare come anche i disegnatori dello stemma arcivescovile siano incorsi nell’errore che accomuna, purtroppo, la maggioranza della popolazione: ovvero la confusione che porta a chiamare indifferentemente “pino” ogni sempreverde dotato di aghi e “pigne”. Quindi non solo i pini veri e propri, in verità non molto diffusi, ma anche cedri e, soprattutto, abeti: gli alberi di Natale.
E con la sua forma piramidale e la presenza di numerosi rami bassi è appunto più simile ad un abete natalizio l’albero araldico dell’Arcivescovo Mario. Che da persona di spirito qual è, quando ne sarà informato ci farà sopra una risata, e magari ne trarrà spunto per una predica: arguta come sono tutte le sue!
A voler essere precisi fino in fondo, qualche giustificazione per l'errore la si può anche trovare (ma dubitiamo che i grafici ne siano a conoscenza e ne siano stati consapevoli). La specie più frequentemente utilizzata come albero di Natale (specialmente nel Nord Italia) è infatti l'abete rosso; detto anche peccio e scientificamente classificato col nome di Picea abies: dunque appartenente al genere Picea ma anche alla famiglia delle Pinaceae, condivisa con i pini che, a loro volta, sono inclusi in essa.

IL MILANINO E L’ACQUA

Come ben sanno gli appassionati della storia del Milanino, fra le prime opere pubbliche realizzate nella Città Giardino figuravano un esemplare sistema fognario accompagnato da pozzi e moderne pompe per l’approvvigionamento di acqua potabile da fornire alle abitazioni.
Non è un caso quindi che il più significativo edificio del complesso, presente anche sul francobollo dedicato da Poste Italiane al suo Centenario, sia la Torre Piezometrica dell’Acquedotto.
Quest’ultima è un serbatoio, spesso presente negli schemi degli acquedotti, nel quale viene pompata acqua con la fondamentale funzione di assicurare un’erogazione costante nell’arco della giornata indipendentemente dai consumi e con una pressione che le consenta di arrivare regolarmente anche ai piani più alti degli edifici. Un'attenzione per l’acqua da prelevare e da preservare dall’inquinamento che non si è purtroppo trasmessa a chi oggi gestisce, anche a Cusano Milanino, questa risorsa.

LA FAVOLA DELLE FONTANELLE
Su questo fronte il Gruppo Naturalistico della Brianza cerca di fare la sua parte per migliorare la consapevolezza dell’opinione pubblica (e degli amministratori e tecnici pubblici) lungo due direttrici.
La prima per smascherare opere e campagne di comunicazione fuorvianti, come quella che ha portato alla collocazione a nord della Torre delle fontanelle per l’acqua frizzante, e proporre invece alternative più sensate e convenienti per i cittadini (gli interessati possono approfondire il tema affrontato in diversi e sempre attuali articoli: “Che brutta figura: le fontanelle in viale Buffoli” – La Scossa n. 2 maggio 2007 pag. 6 – leggi di più >>>;  “L’acqua gasata in viale Buffoli: la corretta informazione” – La Scossa n. 3 ottobre 2007 pag. 10 – leggi di più >>>; “L’acqua gasata in viale Buffoli: quando buono è ciò che piace” – La Scossa n. 3 ottobre 2007 pag. 2 – leggi di più >>>.

LO SPRECO DI UNA RISORSA
La seconda è in corso di studio ed in via di presentazione alla cittadinanza. Perché ad oggi non ha trovato amministratori pubblici sensibili a comprendere che l’approfondimento dei pozzi pubblici per il prelievo di acqua destinata al consumo umano sul territorio comunale (di recente avviato anche sui pozzi di viale Buffoli) è una scelta che, destinandola per lo più ai lavandini (per non dire di peggio), sperpera una risorsa di alta qualità: già oggi preziosa e strategica ma che si sta sottraendo alle generazioni future, che ne avranno meno disponibilità a causa delle modificazioni climatiche in corso (“L’Acquifero Profondo nel Nord Milano è in pericolo - Raccomandazioni per la gestione responsabile di una riserva strategica non rinnovabile ” - leggi di più >>>).

PREMIO ALLA BUONA CONDOTTA (in senso idraulico)
Una terza recente proposta del Gruppo Naturalistico della Brianza, che al tema idrico ed alla realtà urbanistica della Città Giardino fa diretto riferimento, è il “Premio alla buona condotta (in senso idraulico)” (leggi di più >>>).
Infatti è noto che il regolamento voluto da Buffoli prevedeva che l'edificato di ogni singolo lotto non eccedesse il 20% (1/5) della sua superficie totale. Un valore che garantisce pienamente agli inizi del Novecento l'invarianza idraulica che a fatica Regione Lombardia ha avviato oltre un secolo dopo per far fronte ai problemi indotti da piogge nemmeno particolarmente intense ma che hanno gli effetti di piogge torrenziali perché la speculazione edilizia (ma anche la scarsa lungimiranza e coscienza civica dei proprietari, anche attuali) ha ridotto drasticamente la superficie permeabile edificando villette a schiera e palazzine dove prima c'era un'unica villa e, con box interrati, rampe di accesso e semplici pavimentazioni, ha sigillato ulteriormente la superficie permeabile residua (anche oltre i limiti urbanistici successivi ben meno stringenti ed altrettanto meno efficaci sotto i profili idraulico ed idrogeologico, ma chi vorrà fare una verifica?).
NB: la normativa regionale sulla cosiddetta invarianza idraulica è infatti una "novità" del 2018: l'ennesima chiusura della stalla dopo che i buoi sono scappati (visto che si riferisce alle nuove opere mentre il problema è legato all'esistente) e già con un'applicazione discutibile da parte degli uffici competenti ed una dilazione per alcune casistiche al 2019!
Tornando alla proposta del Gruppo Naturalistico della Brianza, può già essere attuata di propria iniziativa dai privati cittadini che si sentono responsabili per il bene comune, indipendentemente del fatto che sia recepita o meno dalle istituzioni ed incentivata economicamente come sarebbe giusto.
In sintesi consiste nel sottrarre al ruscellamento stradale ed in fognatura le acque meteoriche che cadono sulle proprie pertinenze favorendone in loco l’infiltrazione superficiale nel sottosuolo. La proposta è complementare all’obbligo dell’Invarianza Idraulica, recentemente introdotto dalla normativa della Regione Lombardia per le nuove edificazioni. Infatti, arrivando a chiudere la stalla quando i buoi sono ormai scappati, questa legge non incide sull’impermeabilizzazione generalizzata che l’abnorme sviluppo urbanistico ha determinato sui nostri territori.
Perché Niguarda non sia più periodicamente allagata dalle esondazioni del Seveso (con le acque che vengono da Cusano Milanino, Cinisello, Cormano e Bresso) non valgono i costosi e non risolutivi bacini di laminazione in progetto. Questi, di fatto, si risolveranno in ulteriore sfregio all’ambiente: alle aree verdi superstiti, al substrato ghiaioso che verrà svenduto al di fuori del piano cave e non sarà più ripristinabile (al termine del tempo di funzionalità degli invasi, stimati in 30 anni, quando saranno riempiti con inerti da demolizioni), alla stessa qualità delle acque sotterranee che preleviamo per bere.
Quello che occorre è deimpermeabilizzare le superfici oggi coperte. In Villa Nice è stato realizzato un semplice accorgimento in questo senso destinando all'infiltrazione superficiale in giardino le piogge cadute sul garage (foto sopra): un esempio che altri potranno imitare, e che qualcuno ha già attuato.
Altra linea di buona condotta, che chiunque può adottare, è quella di rimuovere le pavimentazioni impermeabili che in troppi hanno costruito sui propri prati, oltretutto non sempre autorizzate, ma non v’è chi controlli: “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, Canto XVI).
È bene ricordare che, se le piogge arrivano in falda dopo aver attraversato lo strato di terreno biologicamente efficiente, la qualità delle acque ne beneficerà perché, nel percorso di infiltrazione, saranno stati loro sottratti più inquinanti di quanti ne possa rimuovere la semplice filtrazione meccanica nelle porzioni più profonde del suolo, dove arrivano più direttamente quando la dispersione delle meteoriche non avviene dalla superficie ma attraverso manufatti come gli anelli forati in cemento dei pozzi perdenti.

IL METEO IL GIORNO DOPO

Sempre riferita alle precipitazioni meteorologiche, ma in questo caso relativamente alla loro misura, è una terza attività che il Gruppo Naturalistico della Brianza svolge in Villa Nice: quella di rilevazione di semplici parametri facilmente misurabili da chiunque. Con un termometro (a lato), una pentola cilindrica e recipienti graduati, si è allestita una piccola stazione meteorologica per la misura di temperatura, quantità delle piogge e, parzialmente, loro intensità. I dati raccolti, pubblicati a precipitazioni avvenute, consentono di smentire l’enfasi a proposito di bombe d’acqua e simili esagerazioni che la stampa incompetente inopinatamente diffonde, e di fare considerazioni sulle risorse idriche che abbiamo a disposizione. Compromesse, oltre che dal loro malgoverno di cui sopra si è detto, anche dalle modificazioni del regime delle precipitazioni e dall’inesorabile scioglimento dei ghiacciai. (“Il meteo il giorno dopo”, leggi di più >>>)

ZERO RIFIUTI

Conclude la panoramica di Ecologia Applicata di Villa Nice, l’impianto per il compostaggio domestico degli scarti della manutenzione del verde e della frazione organica dei rifiuti di casa. Se nel vano scala avevamo visto la canna di caduta dei rifiuti, ora troviamo una delle più efficaci soluzioni per avvicinarsi all’obiettivo Zero rifiuti, che una società del futuro non può esimersi dal cercare di perseguire se vuole davvero definirsi civile. Oltretutto questa pratica dà molte soddisfazioni: ottimi risultati agronomici, come pomodori cuore di bue gustosi e dalle dimensioni portentose senza necessità di alcun concime chimico, ed a fine inverno, al momento del rivoltamento del cumulo, gradite visite del pettirosso a caccia di lombrichi.

“L'ERBA LEOPARDO” - VEGETAZIONE E PECULIARITÀ BOTANICHE

Ancor prima di entrare nel giardino di Villa Nice, è consigliabile approfittare della “Lezione della betulla”: semplicemente osservando, affiancate le une alle altre dal lato opposto di via Costanza, piante mai potate e piante che hanno subito tagli inutili e controproducenti. Mentre la chioma delle prime esibisce una struttura bella ed armoniosa, quella delle seconde è ormai irreparabilmente compromessa e mostra evidenti punti di debolezza a rischio di schianto.
Varcando il cancello, siamo invece accolti da “Storie di bacche rosse”. Il rosso dei frutti è uno dei colori più diffusi ed anche in Villa Nice non mancano piante che ne producano.
Le prime che incontriamo sono un tasso di ragguardevoli dimensioni, l’unica aghifoglia capace di produrre nuovi germogli anche direttamente dal tronco, e l’agrifoglio, che tanti, sbagliando, chiamano pungitopo. Entrambe le specie sono dioiche, ovvero portano i fiori maschili e femminili su piante distinte. Per questa ragione le bacche non si trovano su tutte le piante ma solo su quelle femminili.
Nel nostro caso il tasso: dal quale, una volta mature, le bacche cadono a terra copiosamente. In realtà non sono veri e propri frutti ma arilli: parte carnosa e colorata che cresce assieme al seme esternamente ad esso. Conosciuto anche come “albero della morte” o “ammazza cavalli”, il tasso è velenosissimo in tutte le sue parti. Ciononostante è possibile gustare senza pericolo il dolce sapore dei suoi arilli. Perché il seme che avvolgono, proprio perché sia mangiato e disseminato, evidentemente resiste ai succhi gastrici ed all’apparato di masticazione di uccelli, piccoli animali e dell’uomo stesso. Animali più grandi come i cavalli, invece, assieme agli arilli mangiano anche rami e foglie, e le conseguenze sono letali.
Passando all’agrifoglio, pianta da sottobosco, è curioso osservare che le sue foglie perdono le spine e prendono una forma arrotondata quando germogliano dai rami più alti o nelle sue parti più interne. Siccome in natura ogni energia è preziosa, abbiamo pensato che la ragione di questo fenomeno possa dipendere dal fatto che, in queste posizioni, gli animali che potrebbero cibarsene non riescono a raggiungerle e dunque le foglie si programmano per crescere senza le spine perché non hanno bisogno di essere protette. L’ipotesi sarebbe interessante, ma questo dimorfismo fogliare non è generalizzato quanto dovrebbe essere perché la motivazione che abbiamo addotta per spiegarlo possa essere riconosciuta come scientificamente comprovata.
Altra pianta spinosa, ma non arborescente, è il pungitopo: un cespuglio dalle foglioline a forma di cuore con una spina in punta. Pianta significativa quando censita nei boschi (perché non molto comune), ha la curiosa caratteristica di veder crescere le sue bacche rosse sulla pagina superiore della foglia.
Sempreverde, ma con le foglie screziate in giallo e non spinose, ed anch’essa fornita di brillanti bacche rosse (drupe) sugli esemplari femminili, è l’aucuba japonica. Un’altra specie ornamentale molto rustica che ben si adatta ai luoghi ombrosi come è questo giardino.
Scendendo, infine, alle erbacee arriviamo al gigaro: una tuberosa il cui nome risale direttamente alla lingua etrusca e che, arrivata a maturazione, produce una pannocchia di numerose bacche scarlatte e carnose. Una curiosità che la riguarda è il fatto che sia ritenuta una pianta “segnatempo”. Le sue larghe foglie verdi screziate di bianco, infatti, si arrotolano su sé stesse all’avvicinarsi della pioggia.
Completano l’ambiente di sottobosco umido di Villa Nice il muschio e le felci. Queste ultime testimonianza vivente delle prime forme di vegetazione terrestri che hanno sviluppato un sistema di trasporto dei fluidi. Cosa che ha permesso l’evoluzione in forme arboree come le aghifoglie e, in una fase successiva, nelle più evolute latifoglie.
All’opposto, cresce bene nei vasi in cemento il sedum: pianta che sopravvive in condizioni di forte carenza d’acqua e che, per la sua rusticità (resiste anche al gelo), è la più utilizzata nelle coperture dei tetti realizzate con verde pensile estensivo.
A Cusano Milanino ne conosciamo almeno un esempio in via Cervino (foto sotto).
Il giardino ospita inoltre cespugli ornamentali tipici della Milanino del primo Novecento come ortensie (anche nelle varietà più antiche), rose, glicine, fior d’arancio, spirea, camelie, peonie (alla cui morbida fioritura chissà perché segue sempre immediata la pioggia!) ed un non meglio identificato “velo da sposa” dai piccoli fiori bianchi.
Il nome l’abbiamo appreso dalla nonna Angela, che ha passato l’esistenza a coltivare fiori in questo giardino, al suo tempo fra i più ammirati del Milanino. Un esercizio grazie al quale, ancora oltre gli ottant’anni, era capace di chinarsi fino a toccare terra con le mani: per tanti anni l’aveva fatto per curare i suoi fiori e strappare le malerbe. Una passione trasmessa a chi ha cominciato ad aiutarla quando non ha più potuto fare tutto da sola.
Con la sola variante della sopravvenuta convinzione che è un lavoro inutile cercare di estirpare le infestanti. “Se non puoi batterli fatteli amici”, si dice. E questo vale anche per la cura di un giardino: assecondare la spontanea evoluzione della natura permette di godere di un bell’effetto senza fatica e senza impazzire per la frustrazione di non riuscire a far crescere un praticello all’inglese dove è impossibile che cresca.
Perché il saggio consiglio ricevuto in risposta alla domanda su cosa avremmo potuto piantare all’ombra è stato: “piantace ‘na sdraio”. A darcelo è stato Silvio: il sempre arguto e simpatico amico marchigiano dal quale abbiamo imparato la tecnica dell’innesto. Testimoniano l’efficacia dei suoi insegnamenti il mandorlo innestato su pesco, che ha meravigliosamente colorato il benvenuto ai visitatori della mostra “La visione di Luigi Buffoli” ad inizio primavera 2018, le prugne “goccia d’oro”, un pero “marchigiano”, le cui gemme sono arrivate al Milanino con un rametto infilato in una patata e grazie al passaggio offerto dalle suore don Orione della vicina casa d’accoglienza in Viale Buffoli, ed agrumi (limone e arancio) siciliani.
Invece l’innesto a spacco sul kaki, l’albero monumentale semi-perduto di cui sopra si è scritto, dimostra quale danno può fare, e quali problemi di stabilità può innescare, la capitozzatura di qualsiasi albero.
Si potrebbe continuare a scrivere pagine su pagine elencando tutte le varietà di piante presenti in questo giardino che si caratterizza per essere gestito “al naturale” lasciando che la vegetazione spontanea sia libera di svilupparsi. Lo faremo magari, col tempo, popolando un erbario elettronico che raccolga anche note caratteristiche e curiosità di ciascuna di esse. Per il momento chiudiamo qui l’argomento non senza aver però citato la stupenda fioritura del melograno, ricordo vivente della signora Rosetta, i profumatissimi batuffoli gialli del calicanto d’inverno, ricordo della signora Della Valle, le antiche ed inconsuete “Ortensie piatte” (in foto), botanicamente identificate come appartenenti al genere Hydrangea nel contesto della famiglia Hydrangeaceae si presentano tuttavia in diverse varietà ottenute con incroci e selezioni, chiamate “cultivar” ma per le quali aspettiamo l’aiuto di qualche esperto di giardinaggio che ce la sappia definire con maggior precisione. Risponde ai nostri dubbi l’insigne botanico (e carissimo amico) Enrico Banfi:

“Si tratta di Hydrangea serrata (Thunb.) Ser. (Hydrangeaceae), Est-Asia, che, rispetto alla più tradizionale e comune H. macrophylla (Thunb.) Ser., ha foglie più piccole, più strette, con margine a denti acuti; inoltre l’infiorescenza è un po’ più piccola, più “diluita” e sempre di tipo “lacecap”, cioè con i fiori funzionali (fertili) all’interno e quelli vessillari (sterili o unisex) in periferia, secondo l’arrangiamento originale tipico del selvatico (a proposito, se vuoi vedere le ortensie macrophylla selvatiche nel loro habitat naturale originale, quello da cui è partita la domesticazione della specie, devi andare in Giappone, Honshu, penisola di Izu, costa di Jogasaki)”.

Infine, sopra tutte, un posto di rilievo lo ha l’esotica bulbosa annuale che spunta annualmente ad aprile-maggio e non sappiamo identificare meglio che “Erba leopardo”.
A sorreggere la sua corona di lunghe foglie disposte a raggiera è infatti uno stelo dalla livrea che ricorda la pelliccia del felino predatore nella jungla del Pakistan Orientale. Così si chiamava l’odierno Bangladesh quando l’ing. Ognibene vi si recò nel 1952 a costruire una cartiera nella foresta e dalla quale riportò questo curioso souvenir vegetale. Che a dire il vero si è ambientato bene e (con molta calma!) nei decenni si sta anche pian piano moltiplicando essendo passato dall'iniziale singola pianta alle attuali 4-5. Naturalmente saremo riconoscenti nei confronti di chi ci aiuterà a determinarne l'esatta classificazione scientifica.

Ed è di nuovo Enrico Banfi a soccorrerci:

Ecco, Giovanni, "l’erba leopardo" assomiglia al Dracunculus vulgaris Schott (Araceae) che, se non ricordo male, cresce anche... nel Parco del Molgora! Però, se mi dici che viene dal Bengala... allora tornano i conti: Typhonium venosum (Dryand. ex Aiton) Hett. & P.C.Boyce (= Sauromatum venosum (Dryand. ex Aiton) Kunth), West-Himalaya-subcontinente indiano, sempre Araceae. Il tubero fiorisce a nudo prima di mettere le foglie, ma da noi non fiorisce mai se d’inverno non lo si tiene come le dalie, cioè fuori terra in un luogo riparato fresco e asciutto.

SELVATICI IN CITTÀ

Continuando a parlare di animali, proprio il suo essere tenuto “al naturale” e la contiguità e continuità con gli altri giardini nelle proprietà vicine, rendono anche il giardino di Villa Nice un habitat favorevole a diverse forme di vita.
L’assenza di diserbo e la presenza di cespugli favoriscono in maggio-giugno lo spettacolo delle lucciole che si aggirano numerose fra di essi nel buio della notte.
Altre simpatiche visite notturne, sono quelle delle famigliole di ricci a caccia di insetti e bacche. Intanto dagli alti cedri la civetta lancia il suo verso e, non di rado, è possibile vederne il volo.
Non c’è modo, invece, di farvi trovare casa ai pipistrelli. A nulla è valso il posizionamento degli appositi nidi: sono scomparsi anche quelli che un tempo si vedevano volare attorno ai lampioni della strada. Un vero peccato perché la loro dieta, di cui fanno parte abbondanti scorpacciate di zanzare, sarebbe un vero sollievo per chi vorrebbe poter godere la frescura senza dover temere le punture.
E chissà che a decimare la popolazione dei piccoli mammiferi volanti, e degli altri insetti, non siano stati proprio i trattamenti per le zanzare, delle quali viceversa si è contribuito a selezionare gli individui più resistenti. Un po’ quel che succede per le api, che per un’estate hanno insediato un alveare in una fessura del cornicione sottogronda, o per le rondini. I “cugini” di queste ultime, i rondoni, però ancora frequentano via Costanza come ospiti graditi, ritornando ogni anno nei nidi del sottotetto di Villa Eleonora, proprio di fronte a Villa Nice.
Nonostante l’arrivo al Milanino delle sgradevoli (ma intelligentissime) cornacchie grigie, cacciatrici, oltre che dell’immondizia - che ribaltano in strada estraendola dai cestini o lacerando i sacchi esposti per la raccolta -, anche dei nidiacei del resto dell’avifauna, quest’ultima continua ad essere rappresentata da una discreta varietà di specie.
Quotidianamente si possono ascoltare le raffiche di beccate che il picchio rosso scarica sui tronchi per estrarne gli insetti di cui si ciba. Delle visite invernali del pettirosso si è già scritto, e per quanto riguarda altri insettivori, cacciatori instancabili, l’avvistamento più “raro” è quello della ballerina bianca, che deve il nome alla lunga coda nera in perenne movimento, e per questo è anche conosciuta come “batticoda”.
Più frequente e ricorrente è la presenza invernale delle voracissime cinciallegre, che non disdegnano anche semi e bacche e delle quali è un piacere ammirare le acrobazie fra gli amenti dei noccioli che risaltano sul bianco della neve.
Onnivoro è anche il merlo, dalle penne nere e becco giallo, e sebbene in numero ridotto rispetto a quando depredava ciliegie ed uva, continua a farsi vedere in circolazione. Ne ricordiamo in particolare uno, grande amante della musica, che nel pomeriggio delle giornate estive, si appollaiava sulla robinia davanti al balcone sul lato strada e vi attendeva l’inizio del Preludio n. 1 in Mi minore di Heitor Villa – Lobos per chitarra classica, a quel punto cominciava a fischiettare seguendo da vicino la melodia eseguita!
Passando ai granivori, occorre denunciare la scomparsa dei passeri, che anni addietro erano numerosissimi, mentre, sebbene sempre con occorrenze inferiori, non mancavano mai all’appello i fringuelli e, in qualche circostanza, anche singoli esemplari di capinera.
Puntualissime all’appuntamento del passaggio annuale durante le rispettive migrazioni sono poi due fedelissime coppie, rispettivamente di colombacci e di tortore dal collare.
Per finire non manca il tocco esotico di qualche coloratissimo pappagallo scappato dalla sua voliera e che ora vaga fra gli alberi del Milanino come fosse nell’Amazzonia Brasiliana o del bengalino (o diamantino) fuggito dalla gabbia ma incapace di una vita autonoma e perciò facilmente catturato ed adottato da chi se l’è ritrovato sul balcone.

ALTRE STORIE DI VILLA NICE

I RITRATTI RACCONTANO

Tornando all’interno di Villa Nice, sullo scalone ci accoglie un grande dipinto. Vi è ritratto, in piedi ed ostentando bene in evidenza un anello con incastonato un prezioso diamante, il bisnonno Osvaldo Ognibene. Persona arguta e scherzosa si racconta che, da ragazzo, quando abitava di fronte al Conservatorio di Musica Giuseppe Verdi di Milano, si divertisse ad affacciarsi alla finestra di fronte alla classe di clarinetto succhiando un limone. Pare che questa vista provocasse negli allievi la produzione di un sovrappiù di saliva che rendeva loro difficile continuare a suonare. Non sappiamo quanto veritiera possa essere questa tradizione familiare, però è simpatica e, chi vuole, può provare a verificarla di persona!
Anni dopo, come molti altri Italiani del tempo, partì per l’America a cercare fortuna. Imparato qui il mestiere di orologiaio, fece ritorno in Italia dove avviò un negozio di orologeria in corso Magenta. Grazie alla sua abilità di commerciante (in famiglia è famosa l’espressione “studia il latino se vuoi riuscir nel commercio”) l’impresa ebbe ottimo successo portandolo ad occuparsi degli orologi di tante famiglie importanti di Milano. Fatto che gli permise di risalire la scala sociale entrando nel novero della nuova borghesia milanese.
Un desiderio a lungo coltivato per sottrarsi alla condizione di figlio non riconosciuto che per tutta la vita l’aveva amareggiato. Un’origine tradita in tutta evidenza dal cognome Ognibene, peraltro bellissimo e di cui i discendenti vanno fieri! Così come è fiero di sé il bisnonno Osvaldo per il traguardo raggiunto, e palesa nel suo ritratto tutta la sua soddisfazione.
La fortuna economica non andò però di pari passo con quella personale: come una tragica beffa del destino, appena dopo il termine della Seconda Guerra Mondiale, mentre percorreva in bicicletta Corso Vercelli ebbe un incidente con un tram e perse la vita a seguito della caduta. Ciononostante, oggi i suoi discendenti sono attivi nel promuovere la mobilità ciclistica e nel sostenere il potenziamento e lo sviluppo delle tramvie urbane ed interurbane: in Villa Nice, come si è visto, ha infatti sede il “Comitato per il tram” a difesa delle linee della Brianza nel Nord Milano ed il “Gruppo Naturalistico della Brianza” fa altrettanto pro bici.
Nel frattempo una bomba intelligente (erano intelligenti anche allora) che mirava alla Stazione Cadorna delle Ferrovie Nord, durante il terribile bombardamento a tappeto (detto anche a “saturazione” perché in realtà non si mirava solo ad obiettivi militari ma a pianificare la distruzione sistematica di intere aree) su Milano del 15 agosto 1943, distrusse, incendiandola, la casa della famiglia Ognibene in via San Nicolao.
Ma anche in questo caso il bisnonno Osvaldo aveva avuto “fiuto” economico: la casa era in affitto! L’allora piccola Nice ricorda ancora che, da Porto Ceresio sul Lago di Lugano dove erano sfollati, vedeva in lontananza il cielo completamente rosso sopra Milano per le case in fiamme a causa delle bombe incendiarie. E ricorda il papà Roberto, arrivato, tutto sporco di fumo e con la schiena bruciata, dopo essere riuscito a salvare buona parte dell’arredo. Ancora non ci si capacita di come abbia fatto visto che ne facevano parte addirittura mobili con il piano di marmo. Di quelle vicende in casa si conserva ancora la statuetta del Gesù Bambino di Praga al quale ci si affidava nel rifugio antiaereo durante i bombardamenti.
Prima di lasciare il bisnonno Osvaldo, lo vediamo ancora sullo scalone, da giovane ed accanto alla moglie Cleonice Nova (era originaria di Nova Milanese), all’interno della splendida cornice dorata che inquadra una fotografia nella quale entrambi sono ritratti in abiti elegantissimi.
Proseguendo nella salita della scala, in una seconda fotografia, dalla cornice meno prestigiosa della precedente, c’è il fotoritratto degli altri due bisnonni, Luigi Ferri e Rosa Repossini, i genitori legnanesi della nonna Angela (che abbiamo anch’essa già conosciuta). Di Luigi si ricorda che era molto credente e collaborava attivamente con la parrocchia (come i suoi discendenti) nelle attività del catechismo domenicale. Morì in giovane età a causa della “Spagnola”: l’epidemia di influenza che fra il 1918 e il 1920 uccise milioni di persone.
Le condizioni economiche più modeste di questa seconda coppia, oltre che dalla cornice sono evidenziate dall’abbigliamento meno appariscente rispetto a quello dei consuoceri. Il fatto che sia comunque anch’esso abbastanza elegante non sappiamo se sia dovuto al loro stato comunque dignitoso o al fatto che al tempo i fotografi avevano a disposizione abiti della festa che facevano indossare ai clienti in posa per la foto.
Fra i due fotoritratti, la scala propone un grande specchio, ornato in un angolo da una rosa rossa. Prende d’infilata tutta la rampa superiore della scala ed in esso la Nice più giovane ricorda sempre di essersi specchiata discendendola in abito da sposa nel giorno del matrimonio.
Riprendendo il racconto di famiglia, dopo la morte di Osvaldo ed il crollo della casa, al termine della Guerra il negozio per un po’ venne gestito dalla bisnonna Cleonice, che vi utilizzava una curiosa macchina meccanica per fare addizioni e sottrazioni, ma infine venne lasciato ad un collaboratore (la cui famiglia ha continuato a gestirlo ancora fino ad anni recenti) e la famiglia Ognibene, come si è visto, venne ad abitare al Milanino.

VERSO IL PAKISTAN ORIENTALE

Difficoltà economiche, legate alla perdita del lavoro all’Alfa Romeo alla fine della Guerra, costrinsero l’ing. Ognibene a cercarlo all’estero. L’opportunità che trovò fu quella offerta con un annuncio su un giornale da una ditta italiana che, nella foresta nell’allora Pakistan orientale (oggi Bangladesh), doveva costruire la cartiera già citata trattando dell’erba leopardo che rispunta ogni anno nel giardino di Villa Nice.

SCIMMIE, COBRA E LEOPARDI

Di questa esperienza, assieme a varie fotografie fra le quali spiccano quelle di scimmie vestite da bambine e degli incantatori di serpenti alle prese con il cobra dagli occhiali, restano alcuni oggetti che rimandano a curiosi ricordi.
Un teschio di leopardo, nel quale sopravvivono alcuni denti affilati, e la pelle del suo muso ci portano in cima ad un albero della foresta dove, armati di fucile, si erano appostati l’ing. Ognibene ed un dipendente Pakistano dell’impresa costruttrice. Sotto di loro era stato legato un capretto: come esca per un leopardo che aveva già provocato vittime fra gli operai. Siccome avrebbe potuto uccidere ancora, era necessario eliminarlo al più presto. Nel momento in cui il felino si fece avanti dalla vegetazione, l’ing. Ognibene, che pure aveva la passione per la caccia, per l’emozione mancò il colpo. Fortunatamente mirò bene, invece, il suo compagno, la battuta di caccia ebbe successo e tornarono al cantiere con la preda.

IL CUOCO E LA TARTARUGA

All’altrettanto sentita passione per la pesca, si riferiscono altri due divertenti episodi.
Una notte nel cantiere scoppiò un incendio. Preoccupato che vi andassero distrutti i suoi progetti, l’ing. Ognibene inforcò la bicicletta e si precipitò verso il capannone che ospitava i tecnigrafi ed il suo ufficio per metterli in salvo. Senonché la jungla non è illuminata da lampioni e così cadde in un fossato procurandosi un lungo taglio sul mento. Poiché l’incaricato del Pronto Soccorso era il cuoco del cantiere, andò dunque da lui per farsi medicare. E quando questi gli chiese se non aveva del filo per ricucire la ferita, frugandosi nelle tasche non trovò altro che… il filo da pesca. Con questo l’improvvisato infermiere suturò lo squarcio lasciando per ricordo una bella cicatrice. Probabilmente è questa la ragione per cui nelle foto del periodo l’ing. Ognibene portava il pizzetto.
In un altro buffo episodio, all’amo gettato in un corso d’acqua non abboccò un pesce, ma una grossa tartaruga che riuscì a trascinare “a mollo” il pescatore che non voleva lasciare la presa. Sforzo infine premiato con la cattura dell’animale il cui carapace resta oggi come trofeo in Villa Nice. Presentandosi oltretutto arricchito da un manico sagomato all’orientale con piroli ed una cordiera sui quali fissare delle corde musicali e ricoperto da una pelle conciata, normalmente usata per foderare borsette.
Tutto ciò nel tentativo, ad oggi non riuscito, di fare del guscio la cassa armonica di uno strumento musicale simile ad una chitarra.
Molto più interessanti sono le babbucce rosse ed il sari, che prima o poi verranno indossati da qualche attrice come costume di scena, ed ancora efficace è il ventaglio il cui manico è intelligentemente infilato in una canna di bambù per facilitarne l’azionamento semplicemente facendovelo girare su sé stesso.

L’EROICO ALPINISTA

Conclude in gloria la rassegna dei cimeli dall’oriente, una cartolina ricordo dell’aereo che riportò in patria l’ing. Ognibene a lavoro completato. Su di essa si legge, scritto a penna, “E. P. Hillary”. È l’autografo di Sir Edmund Percival Hillary (Auckland, 20 luglio 1919 – Auckland, 11 gennaio 2008) l’alpinista ed esploratore neozelandese che deve la sua fama alla prima ascensione del monte Everest avvenuta il 29 maggio 1953 insieme allo sherpa nepalese-indiano Tenzing Norgay.
L’ing. Ognibene si era infatti casualmente trovato sullo stesso aereo su cui Hillary, appena compiuta la sua impresa, volava verso l’Europa a ricevere il tributo della Regina d’Inghilterra Elisabetta II, appena incoronata il 2 giugno.
Questa concomitanza fu causa di un altro divertente episodio. La figlia Nice ricorda infatti che, recatasi a Roma con mamma e sorella per accogliere il papà, in aereoporto, subito dopo l’atterraggio, il primo passeggero a presentarsi alla scaletta di discesa all’apertura del portellone fu proprio l’ing. Ognibene. Con la canna da pesca in una mano, la valigia nell’altra ed in testa il casco coloniale aveva più l’aspetto di uno dei buffi personaggi da film di Alberto Sordi che quello di un intrepido esploratore.
Tuttavia, fra la selva dei giornalisti e fotografi che, sapendo Hillary a bordo, si erano precipitati per intervistarlo e fotografarlo, ve ne fu uno che si fece ingannare dal fatto che fosse uscito prima degli altri e perciò scambiò l’Italiano per il Neozelandese e lo seguì per un poco convinto di averne l’esclusiva. Quando si accorse dell’errore si rese conto di aver invece ormai perso uno degli appuntamenti più importanti della sua carriera!
Fra le opere ingegneristiche più note e facilmente individuabili lasciate dall’ing. Ognibene in Lombardia si possono citare due ponti in ferro sul Naviglio Grande e la fontana simbolo di Zingonia, conosciuta come “Il missile” (foto sopra). A proposito della quale si capisce perché l’ing. Ognibene malsopportava gli architetti: perché doveva riuscire a “far stare in piedi” le forme assurde che loro ideavano.

“AVVENTURE” IN CODICE MORSE DI UN RADIOAMATORE

L’altra passione che accompagnò per tutta la vita l’ing. Ognibene fu l’attività di radioamatore. In giardino, oggi ricoperta dall’edera, resta la parte basale della sua antenna.
Fra i primi in Italia ad autocostruirsi apparecchi radio riceventi e trasmittenti, nell’autoscatto lo vediamo con uno di questi, fu tra i fondatori della ARI (Associazione Radioamatori Italiani) nell’ambito della quale, suggerendo di usare il prefisso “ZA” (corrispondente all’Albania) in luogo della “I” per le trasmissioni dall’Italia, rese possibile l’attività di radioamatore anche durante il tempo di guerra quando le autorità Nazifasciste l’avevano vietata.
In questo periodo, convocato al comando tedesco insediato nel Teatro Dal Verme, a rischio della vita rifiutò di collaborare ad intercettare le trasmissioni di Radio Londra. Rinviando gli interessati alla lettura del ricordo “Silent key Roberto Ognibene, i2IR”, che alla sua morte fu pubblicato su RadioRivista n. 6 giugno 1983 pagg. 97-98 (leggi di più >>>), qui ci limitiamo a segnalare che, interessato alla comunicazione nel codice MORSE, e non a quella in voce, con i codici identificativi i1IR e poi i2IR, si dedicava alla ricerca dei contatti più rari e difficili da stabilire collezionandone in 260 stati.
Il risultato di questa attività è documentato in Villa Nice da targhe, coppe, e da innumerevoli cartoline di contatto da tutto il mondo, chiamate QSL in gergo tecnico radiantistico.
Fra le più significative e che possono colpire anche la fantasia del pubblico dei non radioamatori, circoscriviamo la panoramica a cartoline comprovanti i contatti avuti con importanti corrispondenti appartenenti alle due superpotenze di allora.
Per gli USA innanzitutto la portaerei Saratoga in navigazione nel Mediterraneo. Per poi proseguire con navicelle più piccole ma destinate ad orizzonti ben più vasti del mare: le missioni spaziali della NASA che appassionavano l’opinone pubblica in quegli anni.
Più precisamente sono documentate corrispondenze col Johnson Space Center di Houston, Texas nel 1981 (la cui cartolina mostra l'aggancio dello Shuttle alla stazione spaziale Statunitense) ed, in precedenza, col Kennedy Space Center per le commemorazioni dei voli delle spedizioni Skylab I e II nel 1973 e delle missioni Apollo XV, Apollo XVI e Apollo XVII dal 1971 al 1972.
Per quanto riguarda invece l’URSS, è rilevante il contatto con l’Eroe dell'Unione Sovietica Ernst Krenkel: col quale l’ing. Ognibene intrattenne un'amichevole corrispondenza, inclusiva di uno scambio di francobolli (altra sua passione conservata fin dall'infanzia).
Krenkl, che sarà egli stesso operatore radio della spedizione Sovietica al Polo Nord sulla “Prof. Zubov” nel 1937-38, ottenne il prestigioso riconoscimento per il ruolo determinante che ebbe nel salvataggio dei naufraghi del “Cheluskin”.
Questo piroscafo sovietico avrebbe dovuto verificare la possibilità, anche per una nave a vapore non rompighiaccio, di percorrere la rotta marittima da Murmansk a Vladivostok navigando nella banchisa artica sempre nella medesima stagione senza attendere il disgelo.
Partito il 2 agosto 1933, in settembre il Cheluskin fu intrappolato dai ghiacci fino ad esserne stritolato ed affondò il 13 febbraio 1934 nel Mare dei Ciukci, subito a nord dello Stretto di Bering.
I membri dell'equipaggio si salvarono grazie al fatto che Ernst Krenkl, allora capo operatore radio (non è ben chiaro dove, probabilmente a sua volta in una base dell'Unione Sovietica nel Mare Polare), captò il loro SOS e permise ai soccorsi di individuarne la posizione, raggiungerli e riportarli al sicuro.
Sulle sue QSL Krenkl dichiara: “Poiché RAEM era la sigla che identificava il Cheluskin nelle comunicazioni radio [...], a partire da quell'episodio RAEM divenne il mio personale identificativo di radioamatore”.
Emblema di tutta questa attività sono i “tasti” tuttora conservati dalla famiglia. E scampati alla truffa con la quale due disonesti radioamatori si sono appropriati di tutto il resto delle apparecchiature. Volendo donarle alla ARI i familiari dell’ing. Ognibene avevano contattato l’associazione per offrirgliele. Purtroppo due furfanti al suo interno (perché altri non potevano sapere di questi accordi) vennero a Villa Nice per recuperarle presentandosi come incaricati della ARI, dove però si verificò che la strumentazione non arrivò mai. Questi due cialtroni insistettero per avere anche i tasti ma, per fortuna, almeno questi la famiglia di i2IR si rifiutò di consegnarli.

IL CARILLON

Sempre all’ing. Ognibene fanno riferimento altri oggetti interessanti che è possibile trovare in Villa Nice. Si va da strumenti legati alla sua attività professionale come un set di compassi ed altri materiali per il disegno, una macchina meccanica corredata di uno stilo metallico per fare addizioni e sottrazioni (come già sopra si è detto, usata dalla bisnonna Cleonice nel negozio di orologi), un regolo, usato per calcoli matematici più complessi quando non esistevano calcolatrici e calcolatori, e perfino un giocattolo: una semplicissima scatola in legno con una piccola manovella in ottone che altro non è se non un carillon dal suono gradevole e delicato.

LO SCHIMMEL DI LIPSIA

Tutt’altra potenza di suono ha, naturalmente, lo Schimmel del 1910 di Lipsia (la città dove Bach fu maestro di cappella nell’ultima parte della sua vita e dove è sepolto nella Thomaskirche): un pianoforte a muro dall’elegante cassa nera in legno lavorato, con cimasa ornamentale, e sulla quale risaltano le candele rosse nei doppi candelabri fissati ai lati della tastiera. Su questo strumento Roberto Ognibene studiò fino ad arrivare al livello di un 8° anno di Conservatorio, per poi lasciare al momento di intraprendere gli studi da ingegnere al Politecnico. Lo caratterizzano la cordiera a corde incrociate con piastra in ghisa, che gli garantisce un’intonazione ancora dignitosa dopo tre decenni che non vede un accordatore, la lunga tastiera, con un’ottava e due tasti in più dello “standard” come i pianoforti da concerto, ed i tasti d’avorio: oggi giustamente vietati ma i pianisti ammettono che il tocco su di essi è ben differente rispetto a quello su tasti in plastica o in simil avorio artificiale. In gioventù fu suonato anche dalle sorelle Ognibene e fra i brani che vi sono stati eseguiti e che alla famiglia più piace ascoltarvi eseguiti dai veri musicisti di passaggio si possono citare brani classici stranoti, come “Il chiaro di luna (dalla Suite Bergamasca)” di Debussy, la sonata “Al chiaro di luna” di Beethoven ed il “Notturno in mi bemolle minore” di Chopin, ma anche brani meno noti come il patriottico “Inno a Oberdan” oggetto di una divertente parodia sempre molto apprezzata in famiglia. Però l'esecuzione che più è rimasta memorabile è sempre quella della “Fantasia in fa minore per pianoforte a quattro mani” di Schubert, eseguita dagli amici Daniela e Gabriele che si spera presto di poter riascoltare ancora.

FOULARDS E BANDIERE

Altra curiosità sulla quale è interessante soffermarsi sono due foulards: uno che rappresenta l’Italia del 1918 “Redenta e una” che includeva Trento e Trieste (i cui stemmi compaiono a due angoli del quadro alternati a quelli di Roma e dell'Italia), ed uno sul cavallo in ambito militare. Singolare, lungo tutti i bordi di quest’ultimo, è la notazione musicale su pentagramma delle melodie, con tutta probabilità da eseguirsi alla tromba, che comandavano attività quali l’andatura, i comandi in battaglia, ma anche azioni della quotidiana vita in caserma come l’abbeverata o la fienata!
Come ben si intende sono tutti oggetti che risalgono agli inizi della storia di Villa Nice. Una storia che arriva alla trasformazione dell’Italia in una Repubblica ma comincia quando era ancora un Regno e lo stemma di Casa Savoia campeggiava al centro del Tricolore. Anche questo conservato in Villa Nice.

LA NONNA ANGELA

Per completare la storia di Villa Nice vogliamo però ricordare, seppure solo con brevi cenni, anche altre persone che l’hanno abitata. Anche se non vi hanno lasciato oggetti di interesse storico vi hanno lasciato le proprie storie nel ricordo di familiari e discendenti.
Intanto la nonna Angela, la persona che più se ne è presa cura, non solo del giardino. Per alleviarne le fatiche, lo zio Arturo, proprio incarnando il ruolo dello “Zio d’America” (diversamente dal fratello Osvaldo era rimasto negli U.S.A., a Chicago), le regalò una lavatrice. Aveva frequentato la scuola solo fino alle scuole “tecniche”. Forse a causa della morte prematura del padre Luigi era stata avviata al lavoro in filanda, dove per il rumore aveva perso buona parte dell’udito ma aveva imparato a leggere le parole sulle labbra dell’interlocutore.
E proprio leggere è sempre stata la sua più grande passione. Raccontava che da giovane, siccome si rifugiava sempre in solaio a leggere libri, la mamma Rosa un giorno glieli bruciò tutti! Siccome erano stati presi a prestito dalla biblioteca pubblica dovette ripagarli.
Anche la musica, d’opera e non solo, le piaceva tanto. Cantava sempre anche mentre faceva i lavori domestici e le piaceva ballare: anche soltanto con la scopa… come succede nei film. A proposito di film, raccontava che suo fratello, lo zio Peppino, la portava con sé al cinema muto dove suonava il violino per fare la colonna sonora dal vivo. Infine si spostava sempre in bicicletta ed un giorno confessò che, da giovane, si attaccava al cassone dei camion dai quali si faceva tirare!
Anni dopo, sempre in bicicletta, portava il nipotino a vedere gli alberi cresciuti nel tetto di una casa in via Giusti, vicino a piazza della Rosa dove sua figlia, la zia Osvalda (“la Piccola”), aveva fatto scuola guida per imparare a fare le curve disegnando l’“otto” attorno alle aiuole presenti. Che in quegli anni erano due: una per ciascuno dei grandi cedri del Libano che vi crescevano.

LA “PICCOLA”

Incredibilmente somigliante con la Giovanna d’Arco di Dreyer, al Milanino la zia Osvalda è ancora ricordata da tanti con riconoscenza per il servizio svolto come medico scolastico nelle scuole di via Edera.
Sempre allegra e sorridente era appassionatissima di fumetti: sopra tutti “Asterix e lo scudo degli Arverni” per le sue celeberrime “scialscicce sciecche”. Per i paradossi della vita e del destino, morì giovane proprio a causa della stessa forma di leucemia che aveva studiato come tesi, riconoscendola nella malattia, prima creduta un’influenza, che uccideva tanti bambini in Africa.

LA “BI”

Per quanto riguarda la sorella Nice (“la Bi”), essendo tuttora vivente ci limitiamo a ricordare che, agli interessati, è sempre contenta di mostrare la sua tesi in Geologia: uno studio con accurati disegni di microfossili (di organismi marini come i foraminiferi planctonici) contenuti nelle rocce del monte Giglio nella bergamasca. Un monte che oggi non esiste più perché letteralmente “raso al suolo” dai cavatori. Subì la stessa sorte anche l’antico castello che vi sorgeva sopra, guarda caso “misteriosamente” crollato da solo.
A questa tesi sono legati due dei pionieri italiani della Geologia.
La relatrice Maria Bianca Cita: che lavorò allo studio dei fondi oceanici sulla nave oceanografica Glomar Challenger in passaggio nel Mediterraneo nel 1970, nell’ambito di un progetto scientifico americano all’avanguardia che comprendeva una campagna internazionale di trivellazioni industriali: la Deep Sea Drilling Project.
Ed il celeberrimo Ardito Desio che, con il gruppo di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, partecipò alla spedizione che conquistò per la prima volta la cima del monte K2 nel 1954.
Fu lui a proporre di orientare la tesi sulle formazioni geologiche del Monte Giglio per individuarvi fossili guida utili a datare il limite cronologico fra il Cretacico, nella scala dei tempi geologici il periodo più recente dell’era Mesozoica o Secondaria e l’Eocene, al tempo degli studi di cui stiamo parlando prima epoca dell’era Terziaria (più tardi le verrà anteposto il Paleocene).
Questo passaggio è particolarmente significativo perché corrisponde ad una delle più note estinzioni di massa avvenute sulla Terra: quella conosciuta scientificamente come Estinzione Cretaceo-Terziaria, avvenuta circa 65,95 milioni di anni fa e che pose fine all’era dei dinosauri, in particolare proprio quelli che conosciamo meglio come i grandi predatori e gli erbivori con i quali ingaggiavano cruenti combattimenti (Tyrannosaurus Rex e Triceratops, tanto per fare un esempio). In proposito è utile precisare che il riferimento al più antico Giurassico nel titolo della serie di ben noti film, è una “licenza artistica” dovuta al “suono” del titolo e che nulla ha di scientifico, anzi è al riguardo fuorviante.
LA BENEVOLENZA DEGLI “DEI”
Da ultimo vale la pena citare un episodio curioso della “preinfanzia” della “Bi” che, vista l'origine classica del suo completo nome proprio (come si è visto Cleonice: dal greco Gloria e Vittoria), ci fa pensare alle analoghe vicende dell'antica mitologia greca nelle quali si narrano eventi prodigiosi legati alla nascita di dei ed eroi.
Nel suo caso, segno della benevolenza da parte degli “dei dell'Olimpo”, è stato il fulmine, chissà se scagliato da Zeus in persona, entrato dalla finestra e scaricatosi, senza fare danni e senza ferire nessuno, sul pavimento proprio accanto al letto sul quale riposava la mamma Angela in attesa della nascita della sua primogenita. Siccome ci è accaduto di vedere cosa può fare un fulmine al tronco di un cedro alto trenta metri - letteralmente “fatto a pezzi” scagliati ovunque nel raggio di diversi metri - davvero ha del miracoloso il fatto che nessuno abbia riportato conseguenze.

Assieme, le sorelle Osvalda e Nice Ognibene, con l’amica Janne oggi residente in Canada (ciascuna con il rispettivo azzeccatissimo “totem”: Capriolo svagato, Penna bianca e Cervo veloce), fecero parte del primo gruppo femminile dello Scoutismo milanese fondato da Bona Ucelli di Nemi, figlia dei fondatori del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica Leonardo da Vinci di Milano (dei quali è ancora visibile all’ingresso il bassorilievo in bronzo con i profili) e partigiana, in tempo di guerra, nella formazione scoutistica clandestina delle Aquile Randagie (Bona Ucelli di Nemi, una vita per gli altri - leggi di più >>>).

4 GENERAZIONI DI MIGRANTI

Ultima annotazione: come per le prime due di cui si è detto, anche la terza e la quarta generazione di discendenti della famiglia Ognibene hanno provato cosa significa essere migranti lontano dalla propria Patria per ragioni di lavoro.
Dapprima nella Turchia sud occidentale, nel distretto minerario di Keçiborlu, a nord di Isparta e del lago di Burdur. Dove hanno sperimentato l’accoglienza delle donne turche nell’aiuto domestico per la cura di un bambino piccolo: che oltretutto dimostrava di apprezzare più della dieta occidentale i cibi turchi, a base di yogurth e da prendersi con le mani dal piatto comune.
Successivamente in Sierra Leone, di cui restano tuttora impressi nella memoria di chi allora aveva solo due anni alcuni particolari episodi.
Gli innumerevoli aerei disegnati e costruiti con i mattoncini e l’inusuale “grazie” detto da un bambino al medico che gli aveva appena praticato la puntura per la vaccinazione.
Il risveglio notturno per vedere fuori della finestra i gufi bianchi appollaiati sui fili tesi per stendervi i panni.
I grandi ragni sui muri e sul pavimento della stanza che ne seguivano i passi come animali da compagnia e gli scorpioni come compagni di giochi.
Il giorno in cui si è dovuti uscire di casa per lasciare il passo alla colonna di formiche che l’avevano attraversata senza scomporsi trovandola sul proprio percorso.
E quello in cui, esplicando in concreto la ragione del fatto che il nome di questo Stato africano è dovuto alla violenza dei fenomeni meteorologici che vi si manifestano, durante un temporale si sono visti sollevare in aria uno dopo l’altro i tetti delle abitazioni vicine… finché è venuto il turno anche della propria.
La scadente disponibilità all’accoglienza del bambino italiano da parte dei bambini inglesi, figli degli altri dipendenti stranieri dell’impresa di ricerca di diamanti alluvionali: “Mamma perché non mi fanno giocare con loro?”.
Viceversa, la brava maestra d’asilo Mrs Watson e le sue filastrocche utili ad imparare la lingua inglese… come quella di cui si ricorda solo l'inizio: One big bear, two crucken frogs, three…

E la meglio ricordata

Hickory Dickory Dock, The mouse ran up the clock. The clock struck one, The mouse ran down!
Hickory Dickory Dock. Hickory Dickory Dock, The bird looked at the clock, The clock struck two 2, Away she flew,
Hickory Dickory Dock Hickory Dickory Dock, The dog barked at the clock, The clock struck three 3, Fiddle-de-dee,
Hickory Dickory Dock! Hickory Dickory Dock, The bear slept by the clock, The clock struck four 4, He ran out the door,
Hickory Dickory Dock! Hickory Dickory Dock, The bee buzzed round the clock, The clock struck five 5, She went to her hive,
Hickory Dickory Dock! Hickory Dickory Dock, The hen pecked at the clock, The clock struck six 6, Oh, fiddle-sticks,
Hickory Dickory Dock! Hickory Dickory Dock, The cat ran round the clock, The clock struck seven 7, She wanted to get 'em,
Hickory Dickory Dock! Hickory Dickory Dock, The horse jumped over the clock, The clock struck eight 8, He ate some cake,
Hickory Dickory Dock! Hickory Dickory Dock, The cow danced on the clock, The clock struck nine 9, She felt so fine,
Hickory Dickory Dock! Hickory Dickory Dock, The pig oinked at the clock, The clock struck ten 10, She did it again,
Hickory Dickory Dock! Hickory Dickory Dock, The duck quacked at the clock The clock struck eleven 11, The duck said 'oh heavens!'
Hickory Dickory Dock! Hickory Dickory Dock, The mouse ran up the clock The clock struck noon He's here too soon!
Hickory Dickory Dock!

Ed ancora… La ruota del fuoristrada volata via appena dopo aver superato il ponte di travi!
Il “domestico” Momo Cane, affezionato e premuroso ma terribilmente geloso del cuoco e la morfina data alla mamma in attesa da un medico sconsiderato che stava mettendo a repentaglio la salute della bambina in arrivo per cui si ritenne più consigliabile un precipitoso ritorno in Italia per farla nascere.
Ed infine la spiaggia di Freetown e l’impressione fatta, decenni dopo, nel vederne la foto degli anni ’90 e nell’apprendere, leggendo l’articolo che accompagnava, che la sua sabbia vellutata ora era disseminata di campi minati nascosti dalle fazioni contrapposte nella guerra civile in atto. Fazioni che si contendevano proprio il controllo dei giacimenti di diamanti che avevano dato lavoro alla famiglia italiana in terra d’Africa.

Anche di questi soggiorni, così come di alcuni altri successivi, in Villa Nice si conservano come ricordi strumenti musicali, piatti in rame, batik ed altri oggetti.
Tutto quanto si è fin qui descritto e raccontato è in corso di rielaborazione per diventare, quando sarà possibile, uno spettacolo teatrale che ha già il suo titolo: “La B e la Piccola”.

È, invece, già stato utilizzato come base del progetto di visite guidate a Villa Nice (leggi di più >>>) e di una mostra (guarda >>>) in concomitanza con le Giornate di Primavera 2018 del FAI, che ha proposto come mete alcune altre ville nelle vie adiacenti del Milanino.
E continua ad essere periodicamente riproposto a gruppi di visitatori: invitati in Villa Nice come punto di partenza per un più ampio itinerario nella Città Giardino (eventuali interessati possono scrivere QUI >>>).

Giovanni Guzzi, aprile 2018
© Riproduzione riservata


Un vivo ringraziamento per la preziosa collaborazione a: Adriana Astolfi, Angelo Bonfanti, Pasquale Iovene e Gabriele Marazzini