L'Eclettico



Il San Girolamo Scrivente di Caravaggio



Catalizzatore che porta a sintesi fede e ragione

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IL SAN GIROLAMO SCRIVENTE DI CARAVAGGIO

Catalizzatore che porta a sintesi fede e ragione


“Ma dov’è la Canestra?”. Nonostante l’avviso in biglietteria ed all’ingresso alle collezioni da parte delle cortesi addette alla vigilanza, per i quattro mesi di durata della mostra “Caravaggio, San Girolamo scrivente” la scena alla quale assistiamo si sarà ripetuta quotidianamente più volte al giorno: protagonisti i visitatori che, arrivati alla fine dell’itinerario espositivo della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, scoprono l’assenza di uno dei suoi dipinti più rappresentativi.
“È in prestito a Roma”, spiega paziente il personale in sala, “ma perché?” “per una mostra a Villa Borghese, da dove, in cambio, ci è stato prestato, sempre di Caravaggio, il San Girolamo scrivente”. “La Canestra tornerà…”.
Pur lodando la cortesia degli operatori, gli appassionati d’arte provenienti da fuori Milano non sono mai tanto contenti e non nascondono la propria delusione.

Doverosamente documentata la principale delle argomentazioni che ci vedono contrari al prestito delle opere più rappresentative di un museo (che naturalmente sono le più richieste) dobbiamo riconoscere alla “mini mostra” monografica risarcitoria il merito di offrire l’occasione per esporre otto disegni, conservati nei fondi dell’Ambrosiana, che analizzano l’evoluzione dell’iconografia di San Girolamo, così com’è stata illustrata da 8 artisti nell’arco temporale di due secoli, fra il XVI e il XVIII.

Sede della mostra è la Sala Federiciana dell’Ambrosiana, l’antica sala di lettura della Biblioteca: costruita agli inizi del Seicento si presenta tuttora con l’aspetto che le volle dare il Cardinale Federico Borromeo ed in essa sono esposti a rotazione i fogli del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci.
Sotto il puro profilo dell’allestimento, con le sue maggiori dimensioni (olio su tela di cm 116 x 153) il San Girolamo occupa questo spazio nel quale è inserito, meglio di quanto non lo faccia la Canestra: che vi si perde ed apprezzavamo di più nella sua passata collocazione ai piani superiori.

Confidando che di queste considerazioni iniziali si tenga conto in un futuro che auspichiamo il più prossimo possibile, per meglio apprezzare l’opera principale e le ancelle che le fanno corona, specialmente in un’epoca come la nostra nella quale le conoscenze legate alla bimillenaria storia della religione cattolica non sono più patrimonio comune, neppure di coloro che tuttora la professano, può essere utile richiamare alla memoria, seppure per passaggi essenziali, la biografia del santo.

Sofronio Eusebio Girolamo (in latino Sofronius Eusebius Hieronymus), noto come san Girolamo, san Gerolamo o san Geronimo nasce nel 347 a Stridone, località istriana, nel nord dell’odierna Croazia al confine con la Slovenia.
Giovanissimo si reca dapprima a Roma per studiare retorica e, dopo un passaggio in Gallia, a Treviri (in Germania occidentale, vicino al confine con il Lussemburgo), arriva ad Aquileia dove viene a conoscenza dell’anacoresi egiziana ed entra a far parte di una cerchia di asceti.
Subentrati contrasti con il gruppo, nel 375-376, si trasferisce nel deserto della Calcide, nella località identificata con i dintorni dell’antica città di Chalcis, in Siria, 40 km a sud di Aleppo.
Il suo eremitaggio nel deserto dura tre anni, durante i quali conduce una vita da anacoreta: il religioso che vive isolato in luoghi deserti. A questo periodo risalgono episodi leggendari e vicende reali che vengono richiamati nella sua iconografia e che orientano le sue successive scelte di vita.
La spina tolta dalla zampa del leone che, per riconoscenza, gli sarebbe poi sempre rimasto accanto; la tradizione secondo la quale faceva penitenza colpendosi ripetutamente il petto con un sasso; l’incontro con l’ebreo dal quale apprese la lingua ebraica e, sopra tutto, il sogno in cui Cristo gli aveva rimproverato d'essere "ciceroniano, non cristiano".
Quest'ultimo fatto portò Girolamo ad una rivoluzione intellettuale il cui esito fu la decisione di ripudiare con determinazione la letteratura pagana e dedicare ogni sua passione alla Scrittura Sacra.
Lo racconta lui stesso in una sua celebre lettera (XXII, 30) ad Eustochio, figlia della nobile matrona romana Paola; le due donne facevano parte di un gruppo di discepole del santo che si riunivano con lui sull’Aventino, durante il suo secondo soggiorno a Roma, e lo seguiranno poi in Terrasanta, come si vedrà ultima tappa del suo itinerario terreno.
Deluso anche dalle diatribe fra gli eremiti, divisi dalla dottrina ariana, Girolamo si sposta verso occidente tornando ad Antiochia, da dove era passato prima di arrivare in Calcide, e dove viene ordinato sacerdote dal vescovo Paolino e resta fino al 378, quando si trasferisce a Costantinopoli, l’odierna Istambul sullo stretto del Bosforo.
Siamo alla vigilia dell’ascesa al potere dell’imperatore Teodosio che torna a fare della città, fondata da Costantino, la capitale unica dell’Impero Romano.
San Girolamo vi conosce il vescovo Gregorio Nazianzieno (uno dei Padri Cappadoci) che considera suo maestro e sotto la guida del quale perfeziona lo studio del greco.
In questo periodo, il 27 febbraio 380, Teodosio promulga l’editto di Tessalonica col quale il cattolicesimo è proclamato religione ufficiale dello Stato romano.

Digressione manzoniana. Le Capitali dell’Impero Romano.

Allo scopo di dare un nuovo ordine amministrativo all’Impero Romano, Diocleziano (Gaio Aurelio Valerio Diocleziano, Croazia: Salona, 243 - Spalato, 313) lo suddivise in quattro aree geografiche, ciascuna con una sua capitale, sulle quali il potere era esercitato da due Augusti (uno dei quali era l'Augustus Maximus) coadiuvati da due Cesari.
Nasce così la cosiddetta Prima Tetrarchia, che resse dal 293 al 305 ed aveva per capitali:

Con la morte di quest’ultimo il sistema andò in crisi e, dal 306 al 324, in diverse parti dell'Impero numerose fazioni di pretendenti al trono imperiale (tra augusti, cesari ed usurpatori) si affrontarono in un lungo conflitto durato quasi un ventennio che dilaniò l’Impero Romano e dal quale ad uscire vincitore fu proprio il figlio di Costanzo Cloro: Costantino I, che quindi, dopo il periodo della Tetrarchia, riuscì nell’impresa di tornare a riunire il potere imperiale nelle mani di un solo monarca e per questo venne anche chiamato Restitutor Orbis.
A guerra civile conclusa, nel 326 Costantino avviò la costruzione della nuova capitale, Nova Roma, sul sito dell'antica città di Bisanzio (luogo scelto le sue qualità difensive e la vicinanza ai minacciati confini orientali e danubiani), che fornì di un senato e di uffici pubblici simili a quelli di Roma.
Costantino resta unico imperatore fino alla morte, nel 337, che apre un nuovo periodo di incertezza politica con gli avvicendamenti al potere dei suoi discendenti ed il conseguente ritorno a molteplici sedi di governo.
Nel 379, il nuovo imperatore Teodosio torna a fare di Costantinopoli la capitale unica dell’Impero Romano, che tale resterà fino alla sua morte, nel 395.
Assegnando al figlio maggiore Arcadio la parte orientale dell’Impero, ed al minore Onorio (sotto la tutela del fidato generale Stilicone, del quale possiamo vedere quello che è definito come il suo sarcofago in Sant’Ambrogio a Milano) quella occidentale, di fatto pone le basi per l’instaurarsi del dualismo fra Impero Romano d’Oriente e d’Occidente le cui sorti divennero successivamente sempre più divergenti ed indipendenti e che si consolida nel 402, quando Onorio sposta da Milano alla meglio difendibile Ravenna la sede imperiale d’Occidente.

Sempre inquieto, al punto da non fermarsi mai in una città per più di pochi anni, nel 382 San Girolamo è di nuovo in partenza, questa volta per tornare a Roma, dove è in corso il Concilio che ne porta il nome, sotto il pontificato di papa Damaso I del quale diventa, oltre che il segretario, anche il più probabile successore. Previsione che però non si avvera per l’elezione all’unanimità di Siricio.
A questo periodo trascorso nella “corte” pontificia (che va costituendosi proprio in questi anni) fa riferimento l’iconografia che lo ritrae in vesti cardinalizie o con attributi riconducibili a questo titolo, come il “galero”: il cappello cardinalizio di colore rosso, con ai lati due cordoni con cinque ordini di fiocchi di seta rossa, che viene imposto al neocardinale dal Papa.
L’ostilità nei confronti della sua visione di Chiesa lo rimette in breve sul piede di partenza e così, nell'agosto del 385, si imbarca da Ostia, e torna in Oriente, dove continua la sua battaglia in favore del celibato clericale e viene seguito poco dopo anche dalle discepole Paola, Eustochio ed altre appartenenti alla comunità delle ascete romane.

A Betlemme, accanto alla grotta della Natività, grazie anche alle risorse economiche che la ricca vedova Paola gli mette a disposizione, Girolamo fonda due monasteri: uno femminile ed uno maschile, dove si ritira a vivere trovandovi finalmente la pace, visto che non se ne allontanerà più fino alla morte nel 420 (il 30 settembre), proprio l'anno in cui il celibato, dopo essere stato lungamente disatteso, viene imposto al clero da una legge dell'imperatore Onorio che a sua volta morirà poco dopo, nel 423.
A Betlemme si dedica alla redazione di alcune opere, all'insegnamento ai giovani e lavora all’opera per la quale è soprattutto conosciuto: la Vulgata, ovvero la traduzione della Bibbia in latino.
A partire dal testo ebraico per l’Antico Testamento, e dal greco per il Nuovo. Opera alla quale si deve il fatto che, con Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno, Girolamo è uno dei quattro dottori della Chiesa Occidentale. Così come i precedenti, anche questo suo ultimo periodo di vita ha ispirato numerosi pittori, che lo ritrarranno come scrittore nella sua cella monastica, ispirato dallo Spirito Santo ed accompagnato dal fido leone.

Tutti gli elementi descritti, assieme al teschio ed alla clessidra, indicatori della vanità e della caducità della vita, ed al Crocifisso, suo punto di riferimento focale, tornano nei disegni in mostra che costituiscono un percorso cronologico all’interno del quale si inserisce il dipinto di Caravaggio.

Si comincia con Albrecht Dürer (Norimberga, 1471-1528) il cui San Gerolamo nello studio, datato 1511 e siglato con le iniziali dell’autore, è disegnato a penna, in abiti di principe della Chiesa, e ci viene presentato in un interno, assorto sui libri aperti sullo scrittoio, che regge sulle ginocchia e sparsi per la stanza, con un piccolo, ma immancabile, crocifisso davanti a sé ed il fido leone accovacciato in primo piano mentre, appesi alla parete di fondo, si notano un rosario, la clessidra ed il cordone cardinalizio.

All’ambito di Giulio Romano (Giulio Pippi de' Jannuzzi o Giannuzzi, Roma, 1499 circa - Mantova, 1546), importante e versatile personalità - era anche architetto - del Rinascimento e del Manierismo, è ricondotto il San Gerolamo che traduce la Bibbia davanti ad una grotta.
Siamo ancora nella prima metà del XVI sec, perciò prima di Caravaggio.
Fra gli attributi si osserva il teschio seminascosto dietro un albero rinsecchito i cui rami evocano due braccia aperte su una croce, prolungamento del crocifisso che vi è appoggiato assieme al libro, ed al quale è appeso, in posizione curiosa, il cappello cardinalizio.
Altro elemento di interesse è la torsione dei corpi, sia del santo, sia del leone, che non è molto diffusa.
La tecnica usata vede la compresenza di penna, inchiostro acquerellato, biacca e matita nera.
Il foglio è, come si dice in linguaggio tecnico, controfondato perché sul suo lato posteriore è stata impastata o incollata altra carta o cartoncino.
Procedimento giustificato soltanto per tenere assieme i pezzi del disegno quando è frammentario, ovvero manca di qualche suo elemento per abrasione o lacerazione della carta.
Se così non fosse l’operazione sarebbe inutile ed, anzi, deleteria perché si potrebbe andare a coprire qualche altro disegno, essendo all’epoca frequente l'uso di disegnare sul diritto e sul rovescio della carta.

Con Giovanni dell’Opera (Giovanni Benedetto Bandini, Castello - FI, 1540 circa - Firenze 1599), la cui arte gli valse la nomina in Firenze a Socio della più antica Accademia del Disegno (nel 1563), arriviamo al tempo di Caravaggio.
Il suo San Gerolamo tormentato, tratteggiato a penna con segni larghi, è nel deserto della Calcide in adorazione su una specie di inginocchiatoio in pietra sul quale appoggia un ginocchio ed una mano cercando di abbracciare il crocifisso che il giovane di fronte a lui sembra volergli sottrarre.

Il campionese Isidoro Bianchi (Campione - CO, 1581 - 1662) ingegnere e stuccatore oltre che pittore, a san Girolamo accosta san Gregorio.
Siamo nel secondo decennio del XVII secolo ed i due dottori della Chiesa sono affiancati in simmetrica divergenza sotto un tendaggio dal quale emergono elementi architettonici.
Gregorio, con in testa il triregno, è raggiunto da una colomba in volo mentre Girolamo ha sempre libri per le mani, il cappello cardinalizio ai piedi, il leone nei paraggi, il cui muso ci guarda sulla sua sinistra, ed appoggia l’avambraccio destro ad una strana asse che, in questo modo regge in verticale.
Realizzato con tratti essenziali a penna, inchiostro acquerellato, biacca e matita nera su carta azzurra sembra che possa essere un foglio di presentazione per un ciclo di affreschi mai realizzati.

Il San Girolamo nel deserto, così come raffigurato dal Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, Cento - FE, 1591 - Bologna, 1666) fu un soggetto che ebbe un grande successo e, di conseguenza, venne replicato in molte copie fra le quali quella in mostra, della seconda metà del XVII secolo e realizzata da un imitatore del suo autore a penna ed inchiostro acquerellato e che abbiamo su foglio controfondato.
Seppure in condizioni di vita estreme, e nonostante la barba lunga e disordinata ed i capelli scarmigliati, il santo esibisce la muscolatura possente di un giovane eroe della mitologia classica.
L’immagine è movimentata dall’incrocio fra la direttrice del dito indice della mano sinistra, che tiene il segno sulla pagina che sta scrivendo, e lo sguardo che si abbassa a guardare, dalla parte opposta, il volume che sta traducendo ed è curiosamente appoggiato sull’estemporaneo leggio costituito dal teschio rovesciato e da un altro libro.
Accanto ad essi il sasso, strumento di “autopunizione” col quale san Girolamo si percuote il petto, e sullo sfondo un profilo roccioso sovrastato da un albero. Mentre si nota l’assenza del leone.

Decontestualizzato da una precisa ambientazione è il San Girolamo a gessetto bianco e nero e penna su carta grigio verde del 1681 circa di Giuseppe Nuvolone (Milano 1619-1703).
Qui il santo non sta scrivendo ma è assorto nei suoi pensieri e si volta per ricevere i suggerimenti di un angelo solo schizzato per definirne l’ingombro alla sua sinistra.
La quadrettatura evidente sul disegno ne rivela la funzione di studio preparatorio di un soggetto da riportare su una tela.
Opera poi effettivamente realizzata: il San Girolamo e l’angelo è infatti la pala d’altare della seconda cappella di sinistra nella chiesa di San Sisto a Piacenza.

Con Donato Creti (Cremona, 1671 - Bologna, 1749), tra i grandi pittori del Settecento europeo, ritroviamo ancora una volta San Girolamo nel deserto.
Il suo disegno, a matita nera, penna e inchiostro bruno, della prima metà del XVIII secolo è anch’esso controfondato.
Continuiamo a trovare tutti i numerosi attributi del santo già visti in Dürer duecento anni prima: libri, clessidra e teschio, croce, leone.
Questa rappresentazione, se dobbiamo considerare la mostra statisticamente rappresentativa, possiamo concludere sia la più diffusa, riunendo diverse fasi cronologiche della vita di Girolamo in un’unica composizione e di ciascuna prendendo l’elemento più significativo e che più può restare impresso nel fedele che la contempla.
Del periodo di ascesi nel deserto vediamo le vesti povere, il teschio, la clessidra ed il leone, dell’ultimo tempo in monastero l’attività di traduttore che lo vede intento a scrivere la prima pagina di un’opera che possiamo presumere essere la sua capitale.

Chiude la carrellata propedeutica a Caravaggio un’altra opera settecentesca.
Del secondo e terzo decennio del XVIII secolo a penna, inchiostro acquerellato e matita nera è L’ultima comunione di San Girolamo attorniato dai discepoli del modenese Giacomo Zoboli (Modena, 1681 - Roma, 1767).
Siamo così giunti alla scena finale della vita del santo al di sopra della quale angeli diffondono l’incenso con un turibolo.
Un segno che nella liturgia indica l’elevarsi della preghiera a Dio e, nel nostro più laico caso, può intendersi come un avvicinarsi al maestro ed alla sua opera protagonisti della mostra: Michelangelo Merisi, o Amerighi, noto come il Caravaggio (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610) ed il suo San Gerolamo scrivente del 1606.

DATAZIONE ED ATTRIBUZIONE

Se, come si è visto sin qui, il soggetto del San Girolamo eremita e divulgatore della Bibbia per averla tradotta in latino, è ricorrente nell'iconografia cristiana, lo è stato in modo particolare negli anni della Controriforma, ovvero nel corso dei secoli XVI e XVII. Per dare un punto di riferimento cronologico ricordiamo che il Concilio di Trento, nelle sue diverse fasi, ebbe luogo fra il 1545-47 ed il 1562-63. Caravaggio ne visse perciò in pieno le risonanze, circostanza che lo portò quindi a confrontarsi con questa figura della quale conosciamo almeno tre sue versioni.

La prima, San Girolamo in meditazione (a destra), è all’incirca del 1605 ed è attualmente custodita nel Museo annesso al monastero di Santa Maria a Montserrat (nel comune di Monistrol de Montserrat, Bages, nella comunità autonoma spagnola della Catalogna).
Senza addentrarci nell'analisi di questa opera non si può però omettere di osservare il dettaglio delle mani il cui colore della pelle è molto più scuro rispetto a quello del resto del corpo del santo.
Una diversità di colore che non si può spiegare con un'ipotetica maggiore esposizione al sole rispetto al resto del corpo coperto dal mantello, perché, ad esempio, il colore del volto di Girolamo non è altrettanto "abbronzato".
Allora, rinviando alla letteratura degli esperti per chi volesse chiarire il dubbio senza rischiare ipotesi azzardate, qui proponiamo la nostra teoria che riconduce il loro colore ad una sorta di conseguenza del "fuoco sacro" che le ha attraversate per via del ruolo che hanno avuto nella trascrizione delle Sacre Scritture.

La più tarda, del 1608, è il San Girolamo scrivente che si trova nella Concattedrale di San Giovanni a La Valletta, nell’isola di Malta (sotto).

Nella versione di Villa Borghese in mostra all’Ambrosiana, chi l’ha studiata riconosce “una modernità di stesura pittorica ed una maturità compositiva” che inducono ad ipotizzare per la sua realizzazione una data intermedia fra le due citate: compresa tra la fine del 1605 ed i primi mesi del 1606, ovvero le ultime fasi del periodo romano di Caravaggio, in continuità con la Cena in Emmaus di Brera e la Morte della Vergine del Louvre.

STORIA

Come si è già scritto, il San Girolamo scrivente proviene dalla collezione romana del cardinale Scipione Borghese (1577-1633), raccolta nella celeberrima Villa, fuori da Porta Pinciana, che porta il nome di famiglia di questo grande committente di Caravaggio.
In poesia se ne trova già una traccia nel 1613: nelle composizioni dell’aretino Scipione Francucci che descrisse l’intera galleria per i Medici di Firenze.
Una puntuale citazione ci è invece offerta dallo storico, Giacomo Manilli, che la registra nel 1650 nell'opera "Villa Borghese", dedicata a Giovan Battista Borghese (1639-1717) stampata in Roma da Lodovico Grignani, con il sottotitolo "Guardarobba di detta Villa".
Accompagnando il lettore stanza per stanza all’interno della Villa, l’autore ne presenta la ricchezza delle opere d’arte che vi sono contenute. Fra queste, per limitarci a Caravaggio, nella prima, la "Porta della Sala", un Cristo alla colonna. Sopra la porta della seconda, la "Stanza del Genio", Davide e la testa di Golia, della quale ci dice che Caravaggio "in quella testa volle ritrarre se stesso" [p. 67].
Fino ad arrivare alla "Stanza del Moro" a proposito della quale afferma che "Il San Gerolamo, che stà scrivendo, è del Caravaggio" [p. 85].
Precisa testimonianza oculare tramandata anche dal Bellori in "Le vite de’ pittori scultori et architetti moderni" del 1672, dove la paternità dell’autore viene riconfermata.
Per completezza di informazione occorre riferire che, negli inventari Borghese dei secoli XVIII e XIX, si rintraccia anche un accostamento dell’opera allo Spagnoletto: Jusepe (o José) de Ribera (Xàtiva, comunità autonoma Valenciana, 1591 - Napoli, 1652). Ipotesi accreditata alla fine del Novecento da Howard Hibbard ma che non ci risulta altri abbiano sostenuto.

IL SOGGETTO

Il santo eremita ci viene presentato in modo ambivalente offrendoci la possibilità di una duplice, opposta, lettura. E non avrebbe potuto essere diversamente vista la sua poliedrica personalità e le sue molteplici esperienze che sopra abbiamo sinteticamente ripercorso.
L’aspetto è dunque quello del penitente: seminudo, dal fisico molto meno possente di quello che abbiamo visto nel modello del Guercino e davanti al quale troneggia fiero il teschio; appoggiato diritto sui libri e non rovesciato come in diversi fra i disegni visti a corteggio del dipinto.
L’ampio manto rosso che ricopre le spalle di Girolamo e lo avvolge come fosse l’unico suo abito, è però un segno, sebbene non esplicito, della dignità cardinalizia; e pensando alla committenza, lo diremmo imprescindibile e forse proprio riferito anche ad essa.

Su tutto sembra tuttavia di poter individuare nell’attività che ne impegnò la maggior parte della vita, ed in particolare i suoi ultimi decenni, il punto focale di tutta l’opera, che prevale sugli altri. Ci riferiamo naturalmente all’impegno di dotto uomo di studi sui testi sacri e di loro traduttore.
Per Caravaggio dunque Girolamo è qui, prima di tutto, un intellettuale. Non per caso questa volta il riferimento a Guercino c’è: nella fisionomia del santo che, con la barba soffice ed incolta ed i radi capelli scarmigliati e svolazzanti rassomiglia da vicino i busti marmorei che ritraggono gli antichi filosofi greci.

Ma il centro della composizione sono i libri sul tavolo: quello chiuso ed appoggiato di sbieco ed un po’ sporgente, come d’abitudine in Caravaggio per rendere dinamici gli spazi, quello che vi è ortogonalmente sopra, aperto ed a ben guardare in equilibrio precario, tant’è che il teschio che lo sovrasta sembra vicino al punto di rotolare a terra, e quello che Girolamo maneggia assorto nella sua lettura, la cui piega centrale delle pagine sembra essere quasi perfettamente coincidente con il centro del dipinto, come se fossero il libro ed il suo contenuto il vero soggetto che viene incontro a noi che lo guardiamo.

La concentrazione di Girolamo sul testo, “nell'atteggiamento tutto umanistico di approfondirlo, interrogarlo, per restituircelo tradotto” (F. Trazza), è resa dalla mano sinistra che ne afferra le pagine, e vi entra fisicamente con il dettaglio del dito indice infilato fra di esse per tenere il segno, dalla fronte corrugata nello sforzo di comprenderlo e negli occhi che non vediamo ma intuiamo fissarlo.

Ad essere sinceri la posizione delle orbite sembra diretta fuori dalla pagina, ed il libro stesso sembra monco della parte che, seppure accorciata dalla visione in prospettiva, ci aspetteremmo di vedere.
Un’incongruenza che, pur con i limiti della nostra imperfetta conoscenza dell’artista, non ci pare all’altezza della fama di Caravaggio.
Ancor più ci sorprendono il suo busto ed il braccio destro disteso sopra il libro per raggiungere il calamaio nel quale sta per intingere la scheggia bianca della penna “spiumata”: l’uno e l’altro resi senza l’attenzione riservata, ad esempio, alle mani, anche qui di colore ben più scuro a riconferma di quanto ipotizzato sopra per le altre due versioni di Caravaggio di questo soggetto.
Questa osservazione, assieme all’irrealistica contiguità fra il manto rosso e la gamba del tavolo, ci portano a dare ragione a chi ritiene che l’opera “avrebbe dovuto essere ripresa per una sua stesura più approfondita e definitiva”.

Altra annotazione: Girolamo si sta concentrando sullo stesso libro sul quale sta scrivendo, quindi forse non deve essere considerato intento ad una traduzione, ma ad annotare un testo già redatto oppure a sviluppare sue proprie riflessioni proseguendo un lavoro già cominciato.

Sotto il profilo della costruzione compositiva l’impressione che si ricava dalla tela è quella di un dualismo/parallelismo di soggetti e colori ambientato in un interno buio del cui arredo non si riconosce altro che la massiccia e semplice scrivania ingombra di oggetti: teatro e punto d’appoggio non solo dei volumi ma del significato palese e metafisico del dipinto. Quale esso sia, in assenza di esplicite dichiarazioni dell’autore, è però impossibile a chiunque darlo per certo. Come ci ha più volte ricordato chi dipinge davvero, l’errore che troppo spesso commette chi commenta un’opera pittorica è il volervi leggere intenzioni che potrebbero, invece, essere ben lontane da quelle che hanno mosso l’artista.
Epperò è anche questo il bello della pittura: permettere a chi l’ammira di liberare la propria fantasia e lasciare che essa gli parli in maniera commisurata al bagaglio culturale di ciascuno.

Con questa doverosa premessa di cui è bene essere sempre consapevoli, non si può fare a meno di notare che il teschio ed il bianco freddo delle pagine aperte e del panno sulla sinistra trovano un’opposta corrispondenza, sulla destra, nella testa di San Girolamo e nel rosso caldo e fiammeggiante del manto, che deborda verso sinistra, seguendo il gesto del braccio allungato del Santo, quasi a conquistare lo spazio di un territorio altrui, oppure a costruire un ponte che li colleghi.

Secondo F. Trazza “L'esito dell'opera esprime pittoricamente tutta la tensione del rigore dell'impianto culturale della Controriforma, che attraverso la rilettura della Bibbia poteva fronteggiare la Riforma. Una tensione tanto misteriosa che in tanti non sanno spiegarsi, ma che è il riflesso sul piano della lettura estetica di quella tensione storica così carica di violenza — Riforma-Controriforma — che Caravaggio interpreta scavando nel personaggio e scoprendo, laddove tutti avevano visto un'unità di vita, una dirompente novità interiore: l'opposizione tematica penitente-traduttore, fede-ragione. Un'opposizione che nulla toglie a una santità di vita”.

Per quanto ci riguarda, attorno, o per mezzo, del disordine apparente, perché in realtà accuratamente organizzato (giusto per capirci, di questo Girolamo caravaggesco Giorgio Gaber direbbe che è “spettinato bene”!), personalmente non vediamo l’affermazione della supremazia di una mente illuminata e ispirata che, grazie allo studio, prevale su una semplice devozione vuota e cieca come le orbite nere del teschio, emblema di un’ascesi non corroborata da solidi fondamenti teologici.
Al contrario, è forse proprio attraverso questo disordine, chiaramente pensato nelle sue linee geometriche portanti, che la pluralità di temi e significati trova sintesi.

I piani paralleli del tavolo e del braccio destro disteso di Girolamo definiscono infatti le pareti di una sorta di “canale” che mette in comunicazione due mondi solo apparentemente distanti e separati.
Così come luce e ombra non sono poli opposti ma fenomeni complementari che, allo stesso modo dell’alternanza suono e silenzio in musica, non possono esistere l’una in assenza dell’altra ed, anzi, si definiscono reciprocamente.
Nel rilevare l’importanza del ruolo della luce in Caravaggio non si scopre, ovviamente, nulla di nuovo, e pertanto non sorprende che il buio della stanza sia inondato da una potente fonte di luce proveniente da sinistra che rivela gli oggetti e ne proietta le ombre le une sulle altre, dà consistenza volumetrica ai tessuti nel contrasto fra le parti illuminate e quelle in ombra e, soprattutto, fissa la pagina aperta e colpisce la testa di Girolamo, dove la si riconosce specchiata sulla sua fronte, ed il suo petto, animandone l’assorta immobilità e fissando “l'attimo del pensiero che attinge al passato, spingendosi esso stesso a fissarsi con la rapidità di un'impressione” (F. Trazza). Un Girolamo incoronato dal filo dorato dell’incompleta aureola che emerge, quasi materializzandosi, dal nero dello sfondo sul quale un alone di luce fredda vibra attorno alla figura del santo.

L’osservazione di quanto fin qui abbiamo descritto ha portato alcuni a sottolineare che “Il San Girolamo scrivente è una delle opere più sconcertanti del maestro, dove l’apparente rigore geometrico della composizione è contraddetto dal luminismo pluricentrico che svolge un nuovissimo compito sia dal punto di vista della composizione figurativa sia di commento morale. L’opera è un dialogo della luce e dell’ombra: la luce chiara colpisce le pagine aperte su cui è posato il teschio: solo in presenza della morte si comprende e s’illumina il libro della vita” (Claudia Tempesta).

Considerazione che condividiamo ed integriamo con l’annotazione che il “canale” che sopra abbiamo individuato non è vuoto ma è riempito, per tutto il suo spessore, dai voluminosi manoscritti: dunque è nello studio e nella meditazione della Sacra Scrittura tramandataci dalla tradizione che Fede e Ragione cessano di essere in opposizione ma vengono ricondotte all’unità, tema particolarmente caro all'attuale Papa Emerito, Benedetto XVI, durante il suo pontificato.

Giovanni Guzzi, marzo 2017
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