L'Eclettico



Anima bianca, la neve dipinta



La sola neve vista a Milano in un inverno mite

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ANIMA BIANCA - LA NEVE DIPINTA

La sola neve vista a Milano in un inverno mite


La neve portata da "Anima Bianca" in via Manzoni è l’unica neve che si è vista a Milano quest’inverno mentre, nelle stesse settimane, il Centro Italia ne era sommerso.
Una neve delicata, quella di questa selezione di dipinti ottocenteschi. Una neve da contemplare dalle 18:00 in poi, nel silenzio delle due sale della GAMManzoni quando tutto il pubblico si è allontanato ed è possibile sostare davanti ai dipinti da soli e senza distrazioni.

Allora si può percepire il caldo del sole in montagna, ed il freddo che ti coglie appena ti sposti all’ombra, dove i suoi raggi non arrivano. È così in Silenzio invernale di Achille Tominetti (Milano, 1848 - Miazzina - VB, 1917): una ferita rossa nel lago, e rosa, nel cielo ancora chiaro del crepuscolo dietro le montagne, mentre davanti ad esse, coperte dal freddo della loro ombra, alcune case sembrano contenere soltanto abbandono e morte. Eppure un segno di vita ancora si coglie: un piccolo punto giallo, quasi invisibile, luce nella luce di una porta, accesa forse da qualcuno che ancora le abita.

Qualcuno capace di sentire il movimento della massa del Ghiacciaio di Emilio Longoni (Barlassina - MB, 1859 - Milano, 1932), che scorre fiero e inesorabile scarificando le rocce col suo peso e spingendo la morena di pietre sciolte davanti a sé.
Un ghiacciaio dipinto con grande realismo nel 1906-10 e nel quale ci sembra di riconoscere un ghiacciaio valdostano oggi respinto dal cambiamento climatico verso le quote più alte: ormai senza più via di fuga e condannato all’estinzione.

Non è così per la Nevicata divisionista di Cesare Maggi (Roma, 1881 - Torino, 1961). Dove le pendici rocciose della montagna sono illuminate c’è del rosso ma per il resto si è abbagliati dal bianco.
Quello morbido, della nube sospesa sulla massa di ghiaccio attorno alla quale tutta la composizione sembra ruotare nel senso orario disegnato dalle linee del cielo… come se rotolasse sul bianco duro della massa ghiacciata che scorre in primo piano, quasi fosse un fiume… ma solido... e silenzioso.

Perché la neve, che tutto ricopre, attutisce i rumori della montagna, come quello provocato da un piccolo crollo di massi. A volte però li amplifica, come per il verso del gracchio corallino in volo sul Ghiacciaio Cambrena nella visione estiva di Filippo Carcano (Milano, 1840 - 1914): sempre dal suo ricorrente belvedere di un prato con fiori in primo piano e, dalla parte opposta della valle, dove in Dall’alto (leggi di più >>> L'Impressionismo policentrico italiano) avevamo visto estendersi la pianura alluvionale, una lingua glaciale in un catino roccioso sul quale l’uccello è solo una quasi impercettibile sagoma nera: che sul mare sarebbe stata un bianco gabbiano e qui nota soltanto chi l’ha visto dal vero… e voleva pensarlo aquila.

E poi ci si sposta nella grande città. La Milano di Mosè Bianchi (Monza, 1840 - 1904), che in Una nevicata a Milano ci propone il tiro di cavalli bianchi con al traino il tram giallo già conosciuto in La Milano invernale di Mosè Bianchi (leggi di più >>>).
Quella di Giovanni Segantini (Arco - TN, 1858 - Monte Schafberg Pontresina - SVI - 1899), con le sue donne che camminano piegate in avanti e guardando verso di noi oltre Il naviglio sotto la neve.
E La colonna di san Martiniano del Verziere con effetto di neve di Angelo Inganni (1807-80).

La Napoli d’inverno di Giuseppe De Sanctis (Napoli, 1858 - 1924), col parco nel quale passeggiano, una per lato affiancando la mamma che le tiene per mano, due sorelline vestite di rosso scuro e sulle quali spiccano il rosso intonato delle calze e della coccarda sul cappello.
E la Parigi astratta del Boulevard Berthier di Giovanni Boldini (Ferrara, 1842 – Parigi, 1931).
Forse siamo ancora a Parigi con la Lezione di pattinaggio di Giuseppe De Nittis (Barletta, 1846 - Saint-Germain-en-Laye - Ile de France, 1884). Dove, più che le due protagoniste, ad attrarre la nostra attenzione sono le figure in secondo piano sullo sfondo: da quello che scivola, agli altri che volteggiano da soli o in coppia... tutti sono ombre dietro un velo mentre, nel bianco rosato dominante, sottili pennellate bianche sono incise in diverse direzioni come i segni delle lame nel ghiaccio. Un insieme che, seppure non con immediata evidenza per chi non è esperto conoscitore d'arte, a chi invece lo è fa subito pensare ad un'influenza del Giapponismo, ovvero quello stile in voga a fine Ottocento che si ispirava alle stampe Ukiyo-e (Immagini del mondo fluttuante, leggi di più >>>) che cominciavano a circolare in Europa e del quale più sotto, con Aquilone di Carlo Fornara vedremo un più evidente esempio.

Sotto la neve di Gerolamo Induno (Milano, 1825 - 1890) ci riporta all’ambiente lombardo.
Bianca, in secondo piano, la sposa esce di chiesa festeggiata dai presenti, ma ciò che lo interessa davvero, il pittore ce lo pone sotto gli occhi in primo piano: sono due donne distanti dal gruppo, una piange coprendosi il viso con le mani, forse perché è stata respinta? L’altra, più grande - forse la madre? -, col suo ombrello verde invidia sembra rimproverarla.
Sulla destra, di spalle, seduti su una panchina, solo i contorni schizzati velocemente di un uomo con cilindro ed una donna.

Lasciando gli scorci urbani, ci accompagnano verso visuali aperte di nuovo Gerolamo Induno, con Paesaggio a Pescarenico sul Lago di Como, e Federico Rossano (Napoli, 1853 - 1912) che, sotto la Nevicata in Irpinia, ritrae un gruppo di persone sulla strada davanti alle case del loro piccolo paese sullo sfondo.

Ancora in Neve e sole a Miazzina di Achille Tominetti, e Neve di Angelo Morbelli (Alessandria, 1854 – Milano, 1919), vediamo gli effetti che la luminosità di una giornata serena, successiva ad altre nevicate, dipinge sulla coltre bianca depositatasi su di un campanile fra le case e, fuori città, il suo contrasto con le macchie verdi degli abeti ed il bruno delle rocce ci induce anche all’errore di ritenere frutto dell’abilità dell’artista i bagliori di luce scintillanti nel loro riflettersi sulla neve; che l’occhio esperto di una storica dell’arte riconosce essere, invece, un difetto causato da un restauro non condotto a regola d’arte.
L’uno e l’altro dipinto sono accomunati anche per altri due aspetti.
Il realismo dei muri di neve accumulata ai lati dello stretto passaggio aperto a forza di braccia in tempi nei quali non scendeva in altezze inferiori alle attuali (si era per di più nella Piccola età glaciale che interessò l’emisfero settentrionale, fu registrata principalmente in Nord America ed Europa fra XIV e XIX secolo e si concluse nel 1850) ma non si aspettavano le turbine spazzaneve per aprirsi un varco.
E lo stratagemma di rappresentare staccionate in legno, sovraccariche di neve fino all’inverosimile, il cui colore scuro definisce, per differenza, linee guida per l’occhio dell’osservatore e restituisce tridimensionalità al dipinto, sia nei suoi dettagli, sia nel suo insieme.

Ma la neve è anche gioia per i bambini, che perciò in mostra non potevano mancare.
Con i loro giochi, in Palle di neve di Niccolò Cannicci (Firenze, 1846 - 1906): che usa giacche ed ombrelli, aperti o strategicamente collocati di traverso sulla scena, per inserirvi tocchi di colore: verde, rosso e giallo.
E che ce ne fa ritrovare altri, in vicendevole compagnia sul sentiero di Ritorno dalla messa.
Una bambina, con due grandicelle, dietro un albero secco e, per movimentare la tridimensionalità dell’inquadratura, altri due bambini che salgono dal basso, con l’immancabile presenza degli ombrelli verdi.
Una scena già vista in altra mostra e in altra stagione con bambini accompagnati dai tacchini!

Un poco meno serenamente gioiosa è, invece, la bambina avvolta in una coperta blu che costituisce il perno sul quale si focalizza l’attenzione di Giacomo Di Chirico (Venosa - PZ, 1844 - Napoli, 1883) nei suoi Zampognari (senza zampogne) in cammino al freddo fra i tronchi di un fitto bosco.

Siamo ancora in Inverno ma il tratto distintivo di Telemaco Signorini (Firenze, 1835-1901), la luce calda ed abbagliante che tutto irradia, ci fa capire che quella dipinta non è la realtà ma l’idea di essa che ne ha l’artista. Se infatti possono essere plausibili un’arroventato selciato per le vie di Ravenna, una soleggiata scogliera, o un arido paesaggio toscano (visti nella mostra che il Poldi Pezzoli ha dedicato ai Macchiaioli nel 2016) non lo può certo essere il contesto montano con la neve ancora appoggiata sui rami degli alberi e sul basto dell’asino mentre è sciolta ovunque tutto attorno, al punto da indurre un vecchio, poggiata a terra la fascina, ad una sosta per una placida fumata di pipa mentre immaginiamo il bambino con lui intento a tempestarlo di domande.

Spariscono gli uomini ma restano gli animali sui quali si regge l’economia di montagna, nella Mandria sperduta di Stefano Bruzzi (Piacenza, 1835-1911). La sua abilità di restituirci i più minimi dettagli in punta di pennello fa pensare ad una verosimiglianza che diventa realismo dalla fedeltà quasi fotografica.
Che non è arida esibizione tecnica, come nella mirabile morbidezza del manto dell’asino, ma strumento per trasmettere emozioni, fossero anche la melanconia suscitata dallo sguardo acquoso e triste delle pecore di un gregge al pascolo le cui teste oblunghe e ciondolanti quasi fuoriescono dalla tela fra sprazzi di blu.

Un colore che ritroviamo, ma trattato con uno stile diametralmente opposto e steso denso a colpi di spatola, nella vibrante liquefazione delle Baite abbandonate di Leonardo Bazzaro (Milano, 1859-1937).
Dove le ombre sulla neve hanno lo stesso colore del cielo e gli edifici ci riportano ad un’ambientazione vicina a quella del primo dipinto descritto in apertura.

Siamo, invece, al simbolismo più classico in Ultimi raggi di Carlo Fornara (Prestinone - VB, 1871-1968).
Il quadro è tutto sommato sereno, nel villaggio sotto la montagna, con le spighe inclinate a ricordarci un campo di grano in Van Gogh ed affidando soltanto ad un ramo secco in primo piano il compito di evocare il senso di morte profuso nel Trittico dell’Engadina da Segantini, il suo “padre” artistico.
Originario della Val Vigezzo, Fornara non è ritenuto dalla critica un artista di primo livello, ciononostante il suo L’Aquilone gli è valso il ruolo di immagine simbolo della mostra. Esempio emblematico di quel Giapponismo di cui si è scritto presentando la contemporanea mostra di Immagini dal mondo fluttuante (Ukiyo-e), ospitata anch’essa a Milano a poca distanza da via Manzoni (leggi di più >>>), ci pare di ritrovarvi, più la sintesi poetica di Hiroshige rispetto all’attenzione per il particolare ed alla minuziosa descrittività di Hokusai.
Dalle grandi dimensioni della sua tela, ben più estese rispetto a quelle delle stampe dell’Estremo Oriente che l’hanno ispirata, il primo forte impatto che riceviamo nell’avvicinarla è quello che ci viene dato dai suoi colori sui toni prevalenti del rosa e del viola, ai quali l’argento che vi è mescolato conferisce lucentezza metallica.
Nella forma e nel colore delle nubi, cariche del grigio-nero di una precipitazione in arrivo, ci sembra di rivedere quelle immancabili, alte nel cielo o basse al livello del suolo, in tutte le 36 vedute del monte Fuji di Hokusai.
Mentre, fermo come l’acqua delle sue cascate, è qui l'impetuoso e freddo vento di tramontana che arriva dal nord e dà il titolo al quadro.
Non ne vediamo il soffio della massa d’aria spostata, ma ce ne viene suggerita la presenza negli effetti che ha sugli elementi della composizione, che ci appaiono paradossalmente immobili, quasi fossero pietrificati.
Dai rami amaranto dei larici, spogli ed innaturalmente piegati, sui quali si notano alcune piccole pigne della stagione precedente rimaste ancora attaccate.
Alle tracce lasciate sulla neve dai filetti d’aria, rese con lunghe e sottili linee che, alternando rosa e bianco senza discontinuità, aggirando le macchie brune del terreno scoperto al piede degli alberi percorrono tutta la superficie innevata sulla quale ha lasciato una fila delle sue impronte, leggere nonostante il carico della fascina di legno che porta sulle spalle, l’anziana donna che procede, piegata controvento, e le cui vesti è pur vero che “svolazzano” dietro di lei, ma lo fanno rigide e statiche quasi fossero inamidate e più una scultura che un dipinto.

Giovanni Guzzi, febbraio 2017
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