L'Eclettico



Barbara Hannigan dirige (e canta) il Novecento



Con morbidezza, durezza e leggerezza

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BARBARA HANNIGAN DIRIGE (E CANTA) IL NOVECENTO

Con morbidezza, durezza e leggerezza


Cos’è che davvero conta in un festival musicale? La musica, naturalmente. E la musica a MiTo 2016 c’è. L’abbiamo constatato al nostro primo appuntamento di questa decima edizione della manifestazione: nella serata offerta dall’orchestra Ludwig, giovane e dinamica compagine olandese, diretta dalla (tuttora) soprano canadese Barbara Hannigan.
Nei suoi 4 minuti di presentazione del concerto, una delle ottime novità di recente introduzione, Gaia Varon - che gode della nostra incondizionata simpatia dal momento in cui l’abbiamo sentita invitare il pubblico non solo a silenziare i propri telefonini, ma a spegnerli proprio e non lasciarsi tentare dall’impulso irrefrenabile di scambiare messaggi durante il concerto, disturbando con le luci degli schermi i propri vicini di posto (raccomandazione opportunamente stampata anche sotto il programma dei concerti sul programma di sala - sul tema leggi anche Uso e abuso della telefonia mobile e Che spettacolo) - ha immediatamente reso esplicito quale fosse il suo punto focale.

Se 200 anni fa era del tutto normale che un concertista fosse anche direttore d’orchestra, fatta eccezione per i maestri concertatori degli ensemble barocchi (come l’Akademie für Alte Musik Berlin salita l’anno scorso per MiTo proprio su questo stesso palco della Sala Verdi del Conservatorio di Musica di Milano: La Germania scende in "palco"), oggi questa evenienza è una rarità.
Per lo più si tratta di grandi solisti come il pianista Vladimir Ashkenazy, il violinista Salvatore Accardo o il violoncellista Mario Brunello (presente in questa veste proprio a MiTo 2016), per limitarci ad alcuni dei nomi più noti al pubblico.
Che poi il duplice ruolo sia esercitato da un cantante è fatto ancora più eccezionale. Della categoria si possono ricordare il baritono tedesco Dietrich Fisher Dieskau o il tenore Placido Domingo, va però detto che l’uno e l’altro non risulta si esibissero contemporaneamente come cantanti e direttori.
Trovare chi si cimenti in questa sfida ha dunque dello straordinario, e che a farlo, dal 2011, sia una donna, rende Barbara Hannigan un personaggio unico sulla scena musicale contemporanea. Ma attenzione, considerarla una sorta di “attrazione folcloristica” sarebbe un macroscopico errore.

La Hannigan ha davvero l’orchestra nelle sue mani. Se spesso si ha l’impressione (per la verità nemmeno sempre del tutto scorretta) che le orchestre suonino da sole, senza quasi considerare il direttore - che il suo vero lavoro in effetti lo compie nella preparazione del concerto - nel caso della Hannigan abbiamo visto con i nostri occhi gli orchestrali sporgersi dalla propria sedia per cercare il contatto visivo col gesto della propria guida.
Un gesto che, nel corso del concerto, scopriremo elegante e capace di slanci delle braccia distese e roteate verso l’orchestra assecondate dal movimento di tutto il corpo, anch’esso proteso in avanti quasi come in un movimento di danza. Un gesto sempre senza bacchetta ed “a mani nude” (come vedremo poi anche da Mario Brunello) che, in altri momenti, si faceva, invece, estremamente teso con le mani aperte e le dita distese e le braccia rigidamente contratte e piegate ad angolo retto.

Una tensione permanente che il nostro occhio curioso, grazie all’abbigliamento femminile senza maniche, ha notato materializzata nello sviluppo di tutta la serie di piccoli muscoli che fasciano il gomito sopra e sotto e dei quali le persone “normali” nemmeno sospettano l’esistenza, se non quando incorrono in infortuni agli arti superiori (chi ha fatto questa esperienza capisce esattamente quanto andiamo dicendo!). Fino a che punto sia anche atleticamente impegnativo il movimento delle braccia nell’atto del dirigere un’orchestra è una curiosità che ci siamo sempre posti, e questa sera ne abbiamo avuta diretta conferma.

Passando alle scelte musicali, di Barbara Hannigan si sa che predilige il repertorio del Novecento: non facile da proporre al pubblico, ma lei ha la capacità di porgerlo in modo coinvolgente anche con espedienti teatrali. Non riveliamo grandi novità ricordando che oltre che musicista la Hannigan è anche vera donna di teatro.
Una teatralità che alcuni fra il pubblico giudicano eccessiva nel suo atteggiamento (riferito a questo all’uscita ci arriva all’orecchio un “anche troppo”), ma che troviamo convincente nella scelta del programma musicale, anch’esso tutto incentrato su figure femminili, e di come l’ha presentato a Milano: fin dall'inviare un quartetto di clarinetti ad accogliere il pubblico sotto l'arco di ingresso del chiosto del Conservatorio per accompagnarlo fin dentro il foyer.

Si comincia con Syrinx, di Claude Debussy.

Syrinx era una ninfa del seguito di Artemide, e di essa si era innamorato il dio Pan. Non ricambiandolo tentò di sfuggirgli finché, arrivata alle rive del fiume Ladone (che scorre nella penisola greca del Peloponneso), invocò l’aiuto delle Naiadi (divinità minori delle acque). Queste la trasformarono in una cortina di canne palustri che, al soffio del vento, emettevano un suono delicato. Così la trovò Pan quando sopraggiunse, perciò ne colse alcune che legò fra loro per costruire un nuovo strumento musicale: il cosiddetto il flauto di Pan al quale, in ricordo della ninfa che amava, diede il nome di siringa.

Tutta questa storia riecheggia nel celeberrimo brano di Debussy (1862-1918), uno dei più noti per flauto solo, che la Hannigan fa arrivare al pubblico “prendendolo alle spalle” con l’espediente di farlo suonare alla sua flautista inviata fra le poltroncine in alto sul lato sinistro della sala. Prima che ci si possa riprendere dalla sorpresa, non appena terminato l’assolo, quasi fosse un preludio anteposto al brano successivo, eccola subito dare l’attacco al poema sinfonico di Sibelius (1865-1957) Luonnotar.

Secondo personaggio musicale femminile della serata, Luonnotar (come narrato nel Kalevala, la saga epica nazionale finnica) è la protagonista del mito nordico della genesi del mondo che, grazie a lei, prende vita dalle acque nelle quali nuota questa figlia del vento.

Un vento evocato dai violini nelle battute iniziali nelle quali si riconosce lo stile di Simon Rattle, il direttore d’orchestra sotto la guida del quale Barbara Hannigan ha cantato questo brano come soprano. Come detto, a Milano fa, invece, l’uno e l’altro e, mentre si è portati dalla musica fra la maestosità delle forze naturali del nord Europa, non si può fare a meno di notare come la Hannigan diriga anche con movimenti quasi impercettibili delle spalle quando le volge all’orchestra perché girata verso il pubblico nei passaggi vocali.

All’epica nordica segue il calore melodico di Gabriel Fauré (1845-1924) nella Suite sinfonica op. 80 tratta delle musiche di scena per il debutto londinese, nel 1898, del dramma di Maurice Maeterlink Pelléas et Mélisande. Antecedente storico delle versioni operistiche composte da Debussy e da Schoenberg nel 1902, ed ancora da Sibelius ne1905 è dunque elemento comune con la produzione degli autori dei primi due brani ascoltati.

Pubblicata nel 1900, ed eseguita per la prima volta nel 1901, la suite descrive musicalmente la storia di Mélisande, fanciulla di cui non sarà mai svelata la provenienza, dal cuore spezzato per la riconoscenza verso il marito Golaud e l’amore, pur rimasto platonico, per il fratello di questi: Pelléas. Una storia nella quale la natura ha una gran parte non solo come ambientazione ma come avvolgente coprotagonista.

A partire dal bosco nel quale Golaud trova Mélisande in pianto: il Quasi adagio del Prélude che si evolve nell’Andantino quasi allegretto della Fileuse contraddistinta dai richiami del corno e nel quale davvero si coglie l’ascendente della direttrice sui suoi giovani orchestrali e quanto li governi. Nella successione dei brani a questa seguirebbe la Chanson de Mélisande, episodio di rara esecuzione e nel quale la voce di mezzosoprano si affianca all’orchestra. Purtroppo anche Barbara Hannigan, che ha interpretato il personaggio nella versione di Debussy proprio quest’anno ad Aix-en-Provence, segue la scelta più diffusa di tagliare questo tempo. Ci si rifà col brano più famoso: la Sicilienne - Allegretto molto moderato, cullata dal fluente suono dell’arpa su cui il flauto dispiega la melodia poi ripresa dai violini e sviluppata dall’intera orchestra. Con La Mort de Mélisande - Molto adagio termina una composizione che, anche nell’ascoltatore meno musicalmente competente, suscita la sensazione di averne già la musica dentro di sé, seppure senza esserne consapevole.

Confermando l’attenzione che pone al modo di porgere al pubblico la sua musica, la Hannigan a questo punto, molto opportunamente, stacca con l’intervallo lungo il brano successivo - la Lulu Suite di Alban Berg (1885-1935) - ed, in attinenza con le vicende della femme fatale che ne è protagonista – nel quale si riconosce la figura realmente esistita di Lou Salomé, allieva di Freud ed amante di artisti e filosofi - abbandona i sandali bassi calzati fino ad ora presentandosi sul podio con eleganti scarpe lucide di lacca e dal tacco alto. Non una banalità ma un dettaglio significativo di una grande attenzione dell’artista a tutto l’insieme della sua proposta musicale. Non si dimentichi, fra l’altro, che Barbara Hannigan il tragico personaggio di Lulu l’ha anche direttamente interpretato a teatro nell’opera Lulu di Berg, ispirata alla tragedia di Frank Wedekind dalla quale questi Pezzi sinfonici sono stati tratti a costituirne una sintesi per elementi chiave.

Ostacolata dall’avvento del nazismo, quasi quanto quella dell’opera (che non andrà in scena fino al 1937), nel 1934 la prima della Suite fu la scena sulla quale Goebbles pronunciò la sua condanna dell’atonalità, di tutta la musica di Berg e di altri compositori del tempo, in quanto espressioni artistiche degenerate.

Spiace trovarsi in tale compagnia, ma è un dato di fatto che nell’esecuzione l’orchestra, rinforzata dall’aggiunta del pianoforte, e del resto in coerenza con la vicenda che si vuole “narrare” musicalmente, nei 5 movimenti proponga non certo gradevoli dissonanze, percussioni ed ottoni che quasi lottano per prevalere gli uni sugli altri. Solo nel terzo tempo un suono, come di carillon, cerca di alleggerire la tensione e nel quarto un tentativo di melodia è presto affogato nel fragore generale che si chiude nel sommesso finale dell’Adagio: Sostenuto. La musica sta per tacere quando un unico spettatore applaude, convinto, nello sconcerto generale. Qualcun altro lo segue, ma titubante… perché la maggior parte del pubblico non ha “nell’orecchio” questo repertorio… poi Barbara Hannigan alza le braccia, c’è chi teme lo faccia per fermare l’applauso, avremo sbagliato? Forse il pezzo non è finito… Poi la tensione sul suo volto si distende e sorride, aveva ragione l’intenditore! Allora tutti battono le mani, a lungo, ma resta il dubbio se lo facciano per sincero entusiasmo o… per farsi perdonare di non aver riconosciuto il finale.

Il direttore poi esce di scena… e si fa attendere, non è un secondo intervallo ma poco ci manca per la lunghezza della pausa… più che necessaria ed è ancora intelligente la Hannigan a prevederla comparendo infine dopo un, ancora una volta, teatrale “cambio d’abito”. Se prima era in nero, con pantaloni morbidi leggeri semi aperti lungo la gamba ed una casacca abbondante, ora si presenta “in lungo”, fasciata da un abito rosso fiammante arricchito di volant e di un fiocco gigante sulla schiena. Sotto di esso, semicoperto anche dai lunghi capelli biondi dell’artista ci sembra di intravvedere la “scatoletta” nera degli impianti di trasmissione senza fili dei microfoni. In questo contesto ci pare un’improbabile stranezza, ci saremo sbagliati.

Per la verità ad inizio concerto ci eravamo allo stesso modo stupiti nel vedere ai lati del palco due coppie di altoparlanti, ma in Conservatorio restano sempre in scena (e non è elegante) anche sedie ed altri strumenti o arredi anche quando non necessari al concerto in corso, quindi abbiamo pensato che anche questi fossero una dotazione permanente della sala. Ed invece… come avvertiva il regista John Ford, quando diceva che “Se in una scena di un film si vede un fucile, prima o poi quel fucile sparerà” anche in questo caso ecco che la voce della Hannigan ci arriva anche dagli altoparlanti! E quelle che avevamo notato nel suo vestito erano davvero tutte astuzie per nascondere l’impianto microfonico e di trasmissione sotto capelli e svolazzi!

Non è usuale ascoltare amplificata la voce di una cantante in un concerto di musica classica ma, in questo momento, la soprano canadese sta proponendo musica pensata per orchestre con cantanti che cantavano al microfono.

È l’ultima parte del concerto ed il programma prevede, infatti, Girl Crazy Suite, derivata dall’omonimo musical del 1930 dei fratelli George ed Ira (per i testi) Gershwin. Qui la figura femminile di riferimento è Molly Gray, un’emancipata impiegata delle poste interpretata, nell’edizione originale, da Ginger Rogers.

E la Hannigan si mostra disinvolta anche in questo repertorio intonando canzoni intramontabili come But not for me, I got rhytm o Embraceable you, nella quale le si accostano dapprima le voci maschili degli orchestrali e poi anche quelle femminili. Una “trovata” molto godibile dell’arrangiamento commissionato da MiTo, come per almeno un brano in quasi ogni concerto di questa sua decima edizione, ad un compositore contemporaneo. Per questa sera lo statunitense Bill Elliott, direttore d’orchestra swing a Boston, presente in sala ed entusiasta dell’interpretazione della Hannigan che termina la serata a braccio levato come una statua della Libertà alla quale manchi solo la fiaccola!

“Wonderful!” esclama Elliott salendo i gradini del palco per andare ad abbracciare la direttrice d’orchestra, dietro alla quale nella sua “rotondetta” corporatura trotterella dispensando sorrisi compiaciuti mentre i due tornano più volte in scena a raccogliere i meritati applausi che, purtroppo, non riescono però a “guadagnare” neppure un bis!

Peccato per chi non c’era, il pubblico, come in altri concerti successivi (Brunello al dal Verme o l’inedito duo Canino-Pieranunzi ancora in Conservatorio), riempiva solo una metà della sala.
Ma chi era presente ha verificato nei fatti l’intenzione programmatica voluta dal direttore artistico Campogrande per MiTo 2016: ogni concerto è costruito per dare un’esperienza. Questa sera sintetizzabile nella successione: morbidezza, durezza e leggerezza.

Siccome MiTo 2016 è appena cominciato l’invito a chi legge è dunque: “Avanti, c’è posto!”.

Giovanni Guzzi, settembre 2016
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