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LA MILANO INVERNALE DI MOSÈ BIANCHI

Un mondo che l'occhio attento può ancora ritrovare


Scene domestiche e di genere, la luminosità tersa della laguna veneta vista da Chioggia ed una Milano per lo più fredda ed invernale: in estrema sintesi ecco il Mosè Bianchi proposto in questa primavera in una trentina di opere (per lo più eseguite a Milano tra il 1865 e il 1895 e molte delle quali provenienti da collezioni private) in mostra alla GAM Manzoni di Milano.

Il maestro di scuola è senza dubbio il dipinto della prima sezione che più colpisce il visitatore al suo ingresso in mostra. Le architetture sullo sfondo fanno pensare che ci si trovi in un’aula legata ad un ambiente forse un tempo ecclesiastico. I tre gradini della scaletta in legno posticcia, con la passatoia verde mezzo strappata, separano il primo piano da una sorta di “transetto” sul quale una poltrona con qualche pretesa di eleganza sembra essere testimone di tempi migliori dei presenti, all’apparenza notevolmente decaduti.
Sulla sinistra il vecchio maestro, dalla stabilità incerta che appoggia su un bastone nodoso ma tanto esile da far dubitare sulla sua capacità di reggere chiunque, accenna un gesto di rimprovero… Ma più bonario che severo, come dimostra il ramoscello che tiene nella mano destra e sembra più adatto a solleticare che a infliggere una punizione corporale.
Alle sue spalle un ragazzino con cappello si piega sulle ginocchia per cercare di vedere meglio la scena.
Altri quattro alunni, in camicia bianca e gilet, dietro i loro banchi animano la scena sulla destra: chi alzandosi in piedi, chi accennando a salire sul banco, chi restandovi appoggiato quasi con noia, rivolgono lo sguardo ai baffi del maestro attesa di quel che potrà avvenire.
Una muta attesa: la bocca di tutti i personaggi è chiusa, nessuno accenna a dire alcunché, nemmeno l’alunno al centro in piedi, in nera veste talare e con sottobraccio un volume dalla sovracoperta in pelle, che guarda compassionevole il compagno da solo in primo piano.
Scalzo, con l’orlo dei pantaloni arrotolati ed una croce al collo, di quest’ultimo non vediamo il viso che si copre con la mano destra mentre con la sinistra aperta cerca un punto d’appoggio nella balaustra di tavole rozze alle sue spalle che lo divide dagli altri.
A terra, con un realismo che ricorda i fratelli Induno, i cocci di un piatto, una bottiglia vuota, forchetta e coltello, una pagnotta, due grappoli di uva bianca e nera e due uova rotte… forse era il pranzo del maestro.

Atmosfera senz’altro più allegra quella dei Saltimbanchi nel dipinto che precede quello descritto, più serena negli acquerelli Maternità e La pittrice, e di compiaciuta consapevolezza della propria invidiabile condizione sociale nella Dama del pappagallo verde davanti ai tasti del suo pianoforte.

Uno Studio per La guerra ci accompagna alla seconda sala nella quale dalle scene di interni si passa alla profondità di vedute che hanno per confine la lontana linea dell’orizzonte nella quale acqua e cielo si confondono.

Davanti a questi sfondi a perdita d’occhio Mosè Bianchi però non rinuncia a mostrarci la vita che si svolge su un’altra linea di confine: quella dei moli attraverso i quali la terraferma si interdigita nella laguna e sui quali la vita a terra quella sul mare entrano in contatto. Una Mascherata. Invalidi a passeggio (immagine a lato) sulle banchine attorniati da donne: due bambine, la più piccola delle quali si accorge di noi visitatori che le guardiamo e ci indica col dito, due donne che si affaccendano con un secchiello in acqua, e tre giovani in barca perse in discorsi romantici… Non ci sono uomini giovani o adulti: sono in mare.

Sembrano quasi in corsa per una regata la nave a vapore sullo sfondo e, avvicinandosi al primo piano, la tre alberi a vela e la barca a remi che movimentano la Laguna di Venezia vista da Chioggia contrapponendosi a quella ormeggiata al molo.

Olio alla Madonna è forse il dipinto di questa sezione che non può essere visto solo come una riproduzione di una scena interessante per un turista ma che più trasmette anche il sentimento della provvisorietà dell’esistenza di chi, alla quotidiana incertezza sulla sorte dei propri cari che lavorano fra i pericoli del mare, deve la propria sopravvivenza e, consapevole della propria umana impotenza, non può far altro che affidarsi alla Madre del Salvatore e perciò le offre l’olio che alimenta la fiamma votiva alla sua effigie nell’edicoletta in punta al molo.

Un po’ a sé stante, nel contesto di questa mostra, è Il lavoro della terra del quale restano impressi in mente la chiarezza del disegno ed i luminosi colori rosso bruni: un netto contrasto con il nucleo principale della mostra incentrato su vedute di Milano.

Fatta eccezione per Uscita di chiesa, abbacinante per il pieno sole del mezzogiorno riflesso dal bianco dei marmi del Duomo (e che ritroviamo dopo averla già vista e descritta in L’Impressionismo policentrico italiano), la Milano di Mosè Bianchi (o almeno quella che i curatori della mostra ci propongono in quest’occasione) è una città dipinta un po’ tutta su toni in prevalenza grigio bruni e tuttavia ravvivati da immancabili, seppure a volte proprio molto piccoli, punti di luce o di colore.

È una Milano da crepuscolare a notturna. Vi si vedono la luce del tramonto, che proietta sul selciato ombre lunghe come quelle di quattro Dragoni che precedono un tram a cavalli in una via stretta come un canyon (I Dragoni).
Le luci del crepuscolo, nei bagliori lontani sopra le case del sole offuscato perché velato dalla foschia, in una delle rare vedute aperte che evocano la campagna circostante la città con la presenza di un corso d’acqua fiancheggiato da un filare di pioppi cipressini (Neve a Milano).

E le luci artificiali delle locande e dei caffè dove si svolge la vita notturna in una notte che già allora, come oggi per via dell’inquinamento luminoso, non è mai davvero notte e completamente buia.
A rischiararla sono anche i bianchi, eleganti, vestiti da sera di alcune delle donne in passeggiata e le lampade rosse sulle impalcature di un cantiere… perché da sempre a Milano “Fa’ e desfa’ l’è tutt un laurà” (Milano di notte).

È una Milano invernale e fredda per la pioggia, come in Giorno di pioggia con ombrelli, dove spiccano il profilo rosso delle ruote del carro, ripreso dal rosso dell'ombrello chi vi siede "a cassetta", il verde di un secondo ombrello ed il giallo del manifesto affisso alla casa dalla parte opposta come bilanciamento cromatico.

È una Milano sotto la neve.
Una neve non intatta, come potrebbe esserlo in una veduta naturalistica di paesaggio, ma una neve segnata dalle ruote dei carri che ne percorrono le vie e sporca del fango al quale si mescola.

Una neve per nulla poetica ma, con una visione “sociale”, segno del freddo e delle difficoltà che provoca nelle fasce popolari di chi abita la città e che percepisce anche chi guarda Colonne di San Lorenzo.

Fra il colonnato romano sulla sinistra e la struttura della porta medioevale (sulla destra) non lascia indifferenti e semplici spettatori la madre che stringe in braccio il bambino avvolto in una coperta cercando di ripararlo dalle intemperie. E ci si domanda quale grave ragione l'abbia indotta ad uscire in strada col "piccolo".

Una neve accumulata a mucchi al bordo delle strade per liberare il passaggio a chi deve percorrerle… (Neve in città) e già a fine Ottocento non ha tempo da perdere.

Lo dimostra la presenza degli orologi per strada, come quello in Via Torino davanti al quale passa la ronda di due carabinieri.

Una Milano veloce come i tratti di pennello con i quali Mosè Bianchi la dipinge, a volte soltanto suggerendo parti dei suoi soggetti (figure, cose, edifici) lasciando all’occhio di chi li guarda il compito di completarli.

È il caso di Vecchia Milano sotto la neve, dove una fila di lunghe carrozze chiuse passa davanti ad un edificio che si materializza vibrante in porte e finestre di cui l’artista si limita ad accennare le linee degli stipiti con singole pennellate.

O, ancora, di Corso di Porta Ticinese. Siamo in piazza sant’Eustorgio vista da sud, ma l’antica basilica ambrosiana non vi compare (è sulla destra fuori inquadratura), invece da sopra i tetti si scorge la cupola della vicina San Lorenzo. Gli onnipresenti punti di colore qui sono il rosso del cappello e della mantellina di una donna sulla sinistra, di spalle ed incamminata verso il centro città, ed, in mezzo alla strada, il bianco del cavallo che traina un calesse leggero “da passeggio” a due ruote grandi, una sola delle quali è effettivamente dipinta e, così come il cavallo, si specchia sul selciato bagnato.

Una Milano nella quale, come un leit motiv wagneriano, il tram è elemento ricorrente. Un tram sempre giallo e trainato da una coppia di cavalli bianchi che già fin qui abbiamo visto passare da un dipinto all’altro accompagnandoci nella visita alla città quasi come fa il bus scoperto negli odierni tour turistici.
Fra tutti si distingue quello “quasi fiammeggiante” per le luci che vengono da dietro o da dentro la vettura in Il tram del Carrobbio che anch’esso si specchia nel velo d’acqua che ricopre la strada.

E così, attraverso gli scorci in mostra, si può ricostruire un vero e proprio itinerario che dal centro, passando per alcuni dei luoghi già sopra descritti, ci conduce verso il quartiere Ticinese.

Da Piazza del Verziere (oggi piazza Fontana di fronte all’Arcivescovado), da ammirare a debita distanza perché le pennellate, in apparenza applicate alla tela senza particolare ordine, compongano un’immagine inaspettatamente nitida di quest’opera sulla quale si legge la dedica “all’amico W. Brianzi".

Imboccando poi via Torino, alla sua estremità opposta si incrocia sulla destra via Medici della quale in mostra è raffigurato un portone.
Siamo così arrivati al cosiddetto Carrobbio, luogo di incrocio fra diverse strade e che perciò prende il nome dal vocabolo latino Quadruvium che lo identificava in epoca romana ed in corrispondenza del quale sorgeva la prima porta Ticinese. Di essa, seminascosta dagli edifici moderni, oggi resta ancora una torre.

Mosè Bianchi, in Il Carrobbio, ce ne offre una rappresentazione di vita popolare su una tela allungata in orizzontale. Sulla sinistra vi spicca il drappo rosso che ricopre il banco sul quale, per la loro forma e colore, sembra siano esposte in vendita arance. Sul muro alle spalle dei venditori sono affisse stampe pubblicitarie fra le quali si riesce a leggerne una riferita ad una bottiglieria. In mezzo alla strada un’anziana donna, facilmente una mendicante, si china allungando la mano (un singolo tocco di pennello di colore coordinato con quello delle arance) per raccogliere qualcosa da terra, forse una moneta persa da qualcuno? La sua fortuna della giornata.
Sul lato opposto “l’impressione” di un ovale votivo in affresco costituisce un riferimento che andremo a cercare passando in zona. Mentre i passanti sono quasi trasparenti, come i “fantasmi” che leggende legate ai tragici fatti avvenuti in questo anticamente malfamato quartiere di Milano dicono (a chi crede a queste cose) ancora presenti!

Dopo la svolta in corso di Porta Ticinese, oltrepassate le Colonne di San Lorenzo e l’adiacente omonima Porta Medievale ancora esistente, con un secondo dipinto ancora intitolato Corso di porta Ticinese Mosè Bianchi ci porta nel tratto meridionale del corso visto dalla parte opposta rispetto al dipinto con analogo titolo sopra citato.
Infatti, oltre al tiro dei cavalli bianchi del solito tram giallo che ci viene incontro ed al puntino rosso sulla destra - lampada che segnala la presenza di una locanda -, in fondo alla via si riconosce il timpano della monumentale porta neoclassica progettata dall’architetto Luigi Cagnola di piazza XXIV maggio, l’attuale Porta Ticinese (denominata Porta Marengo in epoca napoleonica), edificata lungo la cerchia delle mura spagnole.

Ancora qualche passo e, superati i caselli daziari che fanno ala alla porta, siamo arrivati alla fine del nostro itinerario: pittorico e toponomastico-turistico.
Eccoci, infatti, alla Darsena, opera nella quale, oltre a riconoscere uno dei luoghi più caratteristici di Milano – dove arriva il Naviglio Grande e dal quale si diparte il Naviglio Paese – Mosè Bianchi riassume un po’ tutti gli elementi che abbiamo fin qui trovato in questa mostra dedicata alla sua visione della città.
Dal cielo nuvoloso ed infuocato che la sovrasta, alle quinte di edifici che sembrano quasi contrafforti montuosi di un paesaggio alpino, alle innumerevoli figurine umane che ci ricordano la brulicante vita che la anima, per finire, ponendolo proprio al centro della composizione, con quello che, visto il risalto che gli concede, potremmo ritenere, forse, essere il suo principale protagonista nel pensiero dell’artista: la lunga vettura gialla del tram trainato da una coppia di cavalli sempre bianchi e con un portamento sempre talmente nobile ed elegante da farli pensare arrivati direttamente dalla carrozza di una principessa del mondo delle fiabe.

Un mondo fiabesco come è, per chi lo sa riconoscere, anche grazie alle sue rappresentazioni che artisti come Mosè Bianchi ci hanno lasciato, anche quello meno appariscente di Milano.

Giovanni Guzzi, giugno 2016
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