L'Eclettico



Giotto, lo "stile italiano" del Trecento



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GIOTTO

Lo "stile italiano" del Trecento


“Dagli orari della tua permanenza a palazzo Reale desumo che Giotto è stato all'altezza delle aspettative e che vorrai scrivere anche di questa mostra”. Eh già, Guido, sei facile indovino! Ci sono entrato poco dopo le 18 ed il personale di custodia mi ha dovuto spingere fuori a forza appena prima della chiusura. E fortuna che il sabato è prolungata fino alle 22. A casa ormai mi davano per disperso!
Ma non è tutto, ci sono tornato una seconda volta: all’uscita il passaggio frettoloso all’installazione multimediale della cappella Peruzzi, con i suoi pixel “sgranati” mi aveva “rovinato” gli occhi e non potevo lasciare che l’ultimo ricordo di Giotto nella mia memoria fosse questo: tecnologico quanto si vuole ma lontano dalla pienezza della materia pittorica di un dipinto vero almeno quanto lontani sono i secoli che separano questi nostri tempi da quelli in cui hanno operato Giotto… ed i suoi collaboratori!

Già, perché fra le cose imparate in questa mostra, una in particolare mi ha colpito: con tutti lavori che ha lasciato in giro per l’Italia, realizzati spesso quasi contemporaneamente in luoghi non sempre geograficamente vicini fra loro, Giotto, figlio del fabbro Bondone, dimostra di essere stato capace di organizzare un’efficientissima azienda in grado di rispondere simultaneamente alle più svariate e più prestigiose committenze del suo tempo aprendo diversi cantieri ovunque fosse necessario.
Lontanissimo dall’idea dell’artista isolato nel suo genio, che un po’ romanticamente oggi coltiviamo, aveva saputo attorniarsi di validi artisti capaci di lavorare secondo lo stile che lui dettava e l’aveva reso tanto ricercato, oltre che benestante, come testimoniano le sue documentate compravendite di immobili e terreni nel Mugello.

Tornando alla mostra, se è vero che proprio non mi riesce di attraversare le mostre d’arte come se fossi a passeggio lungo il corso principale di una pur bella città, gettando un occhio distratto alle vetrine che si affacciano su di essa, è altrettanto vero che il tempo che ho trascorso in questa di Giotto è stato addirittura superiore al tempo medio che dedico alla visita delle mostre che più apprezzo. Qui però le opere che ne popolano le sale non sono le centinaia che ormai siamo abituati a trovare (quasi che il valore di una mostra dipenda dalla quantità), ma soltanto poco più di una decina.

Sarà forse stata la conseguenza, come si suol dire, del dover fare “di necessità virtù” (non è mai facile – ed è giustissimo che non lo sia – avere in prestito opere dei grandi della storia dell’Arte) ma il risultato è riuscito ottimo, a conferma di quel che mi avevano detto un’amica guida turistica ed altre che a loro volta lavorano in importanti istituzioni d’arte cittadine: “Vai a vedere la mostra di Giotto perché… è bella!”.

Merito dell’allestimento che, facendo risaltare nel buio delle sale l’oro ed i colori delle opere - ben collocate ad un’altezza che consente all’occhio del riguardante di apprezzarne ogni dettaglio - fa la scelta di sfidare il visitatore a confrontarsi con l’artista avendo a disposizione niente altro che il proprio bagaglio culturale.
Certo, l’organizzazione mette a disposizione l’audioguida, ma personalmente mi rifiuto di accostarmi a capolavori del genere con in testa un artificio, in mano una pulsantiera e, mentre davanti ai miei occhi si staglia l’Assoluto (non soltanto in senso artistico), come faccio ad avere nelle orecchie una voce registrata che, per quanto curati possano essere i testi che mi propone, mi omologa a tutti i presenti e liquida ogni opera in poche battute?

Mi piace molto anche la scelta di non proporre pannelli esplicativi accanto alle opere, affinché lo sguardo non ne sia distratto perché richiamato altrove (un tema sul quale sarà opportuno ritornare, visto che sono più d’uno gli allestimenti discutibili in altre rilevanti sedi milanesi), e di riservare loro due intere sale nelle quali il visitatore può soffermarsi a studiare le sintetiche note proposte dai curatori per poi tornare a verificarne le corrispondenze sulle opere.
Altro pregio di questa sala, che viceversa evidenzia l’unica pecca dell’allestimento, è la presenza di numerose sedie che, essendo raramente tutte occupate, fa rimpiangere il fatto che almeno qualcuna di esse non sia stata collocata anche nelle sale di esposizione, perché chi lo desidera possa accomodarvisi per contemplare al meglio lo spettacolo che gli è offerto… anziché guardare con sofferente invidia quelle dei custodi!

DIGRESSIONE “MANZONIANA”
Al momento in cui fisso sullo scritto questo pensiero sorge in me un atroce sospetto. In effetti in ogni mostra è ricorrente la carenza di sedute, particolarmente apprezzate dai visitatori quando ve ne è un pur minimo numero, e disperatamente agognate quando, per lo più, mancano.
Siccome non sembra plausibile che schiere di curatori e di progettisti, con i rispettivi stuoli di collaboratori, non si rendano mai conto di ciò viene il dubbio che sia una scelta voluta. Magari per “fluidificare” il traffico degli appassionati prendendoli “per stanchezza” in modo che, una volta pagato il biglietto, lascino le sale al più presto per far posto agli altri che premono alle sue porte? A pensar male qualche volta capita di indovinare… diceva qualcuno.

Scrivevo più sopra che davanti a queste opere, che ci vengono presentate in modo così inusualmente diretto e senza alcuna forma di mediazione, la prima sensazione per chi non sia uno storico dell’arte e non abbia una preparazione tecnica è una sensazione di inadeguatezza. Sulle prime quasi non si sa cosa fare, cosa guardare, nemmeno cosa si sta guardando!
Un primo soccorso arriva dalle didascalie, comunque bene leggibili ancorché scritte a terra! Anche questa è un’eccellente scelta, che concorre a non disturbare il godimento delle opere.

Ed eccole, allora, finalmente, queste opere, per lo più a tempera e oro su tavola e tutte a Denominazione di Origine Controllata - ovvero per le quali è documentata la mano di Giotto nel realizzarle - in un percorso cronologico che attraversa tutta l’esistenza dell’artista suddivisa in tre fasi legate ai luoghi che in esse, rispettivamente, lo hanno visto lavorare in prevalenza.

IL MAGNETISMO BIZANTINO

Nella prima sala ci accoglie la Madonna col Bambino (1285-1290 ca.) dalla Pieve di San Lorenzo, sede della compagnia del Santissimo Sacramento in Borgo San Lorenzo. È piuttosto “malmessa”: il Bambino è perduto ma fa comunque effetto vederne le sole mani accarezzare il volto della Madre e prenderle un dito. Una Madre di Gesù che però appare ancora più come una Regina del Cielo della tradizione bizantina; dalla quale però già si discosta pur presentandone la caratteristica tipica dello sguardo fisso verso il fedele che la venerava, anziché rivolto altrove come è invece più frequente nella tradizione iconografica latina.

A questo proposito è significativo ricordare, già in questa prima fase giovanile dell’attività artistica di Giotto, identificata fra gli inizi a Firenze e la Cappella degli Scrovegni a Padova, quanto di lui scriveva a inizio ‘400 Cennino Cennini, nel suo Libro dell’arte o Trattato della pittura: “Rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno ed ebbe l’arte più compiuta ch’avissi mai più nessuno”.

IL VOLTO DELL'ANGELO

Con la Madonna col bambino in trono e due angeli (1288 ca.) dalla chiesa di San Giorgio alla Costa (Firenze) ci spostiamo in avanti soltanto di qualche anno ma già la struttura della composizione si complica. La Madonna siede su un trono marmoreo sulle cui cornici si notano decorazioni cosmatesche secondo il gusto di Arnolfo di Cambio (il vocabolo cosmatesco, accostato a decorazioni, significa che queste sono eseguite secondo la tecnica propria dei Cosmati: denominazione convenzionale - derivata dal nome proprio Cosma molto diffuso nelle loro famiglie - dei marmorarî attivi fra il sec. 12° e il 14° soprattutto a Roma e nel Lazio: cioè con un tipico gusto decorativo basato su intagli e intarsî, che si vale di marmi policromi, di paste vitree e di tessere d’oro; si parla dunque di ornato, intarsio c.; decorazione c.; pavimento cosmatesco. - NdR).
Per ammorbidire il freddo del marmo Giotto le fornisce un cuscino di un rosso fiammante. Sotto il manto blu che la avvolge dalla sommità del capo, porta i capelli raccolti sulla nuca in un velo dello stesso colore della veste, che a sua volta riprende il manto di Gesù.
Il Bambino qui non ha nulla di infantile (si sa che è raffigurato così per far capire che è già vero uomo e pienamente Dio) ma si presenta in atteggiamento regale, sottolineato dal simbolo del potere che stringe in mano.
Non proprio eccellenti sono le proporzioni delle gambe che si intuiscono sotto le vesti e le lunghissime dita della Madonna che sorreggono il Figlio un po’ troppo rigide sbucando da dietro la sua spalla sinistra.
Nel complesso, rispetto al magnetismo della Madonna di San Lorenzo, l’espressione del volto di questa sembra un passo indietro. Il volto più significativo e riuscito della composizione, a mio modo di vedere, è invece quello dell’angelo di destra dei due che, quasi artigliando le “onde” in marmo rosa delle balaustre, si affacciano dalle loggette che sovrastano la scena.
A queste è appeso con fini nastrini il grande drappo damascato che fa da sfondo alla figura di Maria e risale fin dietro il suo capo e la sua aureola d’oro, sopra alla quale spunta la guglia sommitale del trono.
Lo stesso disegno del drappo si riconosce anche nelle fasce sacerdotali che gli angeli portano incrociate sul petto.

Se nel taglio laterale degli occhi già si riconosce la “firma” di Giotto (anche se, per la verità, non proprio solo sua), il pieno valore di quest’opera non possiamo debitamente apprezzarlo per via di quello che oggi definiamo con ragione uno “scempio”, ma che all’epoca in cui è stato realizzato era abituale: ovvero il taglio della tavola per portarla dall’originale forma gotica a punta all’attuale con la cimasa arrotondata. Una manomissione dovuta ad una modifica del gusto estetico e della moda (un po’come si taglia una gonna per accorciarla, ma poi non la si può più allungare!) a causa della quale è andata perduta la visione dell’architettura nella quale era inquadrata la scena.
Lodevole è il tentativo dei curatori della mostra di ricostruirne per linee essenziali, e seppure parzialmente, i contorni ma, com’è ovvio, si resta ben lontani dall’effetto pensato e realizzato dall’artista.

NEL DETTAGLIO DI UNA PIEGA

Da un’altra storica chiesa al centro di Firenze, che sorge proprio davanti al Bargello, la cosiddetta Badia Fiorentina, provengono sia il Polittico di Badia (1295-1300) sia quel che resta degli affreschi (1305-1310 ca.) che Giotto vi realizzò con le storie della Vergine Maria, alla quale l’edificio sacro era dedicato.
Vasari ne attesta l’attribuzione a Giotto che, quindi, alle soglie dei 30 anni è già un artista affermato in città e, nel primo decennio del Trecento, è destinatario di commissioni importanti. Basti dire che allo stesso periodo appartengono gli affreschi della Basilica Inferiore di Assisi.
La cosa tuttavia non impressiona Vasari che “sfratta” il Polittico dalla Badia per farne realizzare uno nuovo!

Se la sua struttura è costituita dall’accostamento di cinque tavole verticali anziché da assi orizzontali sovrapposte per tutta la lunghezza, come si faceva di solito, l’innovazione giottesca si riconosce anche nello stile pittorico per cui il Polittico non è più bidimensionale, come in precedenza, ma lo spazio acquista profondità e gli scomparti diventano finestre dalle quali le figure si affacciano e vengono colpite dalla luce allo stesso modo in cui entrava nella chiesa, ovvero da sinistra, ponendo in evidenza, grazie all’alternanza di luci e ombre, quello che il nostro occhio vede prima.

Allineati sotto i tondi del Cristo Benedicente nella cuspide centrale e con angeli in quelle laterali, ed identificati dalle scritte “spezzate” attorno alle rispettive aureole di cui sono punzonati sull’oro i margini, i personaggi hanno tutti una propria identità ed espressione individuale.

 

 

 

 

 

 

 

Il primo da sinistra è San Nicola di Bari, vestito da Papa e con la veste damascata ed i guanti decorati da un ricamo sul dorso, qualcuno dice che fossero a protezione di stimmate ricevute anche da questo santo, affermazione che riportiamo per dovere di cronaca ma non abbiamo approfondito per trovarne conferma, quindi da considerare non verificata.
Lo segue san Giovanni Evangelista, che tiene il pennino fra le dita con una presa poco congrua alla scrittura. Si direbbe che questo Giovanni sia stato visto da Leonardo per l’atteggiamento assorto che emana dalla tavola assieme ad un sorriso enigmatico, un po’ di traverso assecondando l’inclinazione del capo.
Nello scomparto centrale la Madonna col Bambino ha lo stesso atteggiamento e sorriso di Giovanni al quale somiglia moltissimo. Se normalmente è raffigurata con la veste rossa, che indica la maternità, sotto il mantello blu che rimanda al cielo ed alla divinità, qui è invece dipinta con la veste scura e con sul capo un leggero velo chiaro dal quale traspare l’orecchio. Sotto di esso ancora si vedono i capelli raccolti dietro la nuca da una reticella con fili luccicanti, forse, di perline. Forse questa difformità dai colori standard vuole enfatizzare il fatto che si tratti di una Madre non astratta ma vera, la Virgo Maria, come recita la “didascalia”, che mostra evidente, sotto le sfumature dell’abito, le forme che testimoniano il recente parto.
Anche il Bambino qui è più umano che divino. Rivestito da una tunichetta senza maniche, ha la bocca semisocchiusa in un dolcissimo sorriso alla madre, sulla cui mano appoggia la sua sinistra (dal dito mignolo un po’ troppo lungo) e della quale, con la destra, afferra la scollatura del vestito facendovi una piega molto realistica.
Proseguendo sulla destra troviamo san Pietro, rivestito del pallio vescovile (identificato dalle croci nere, mentre sono rosse quelle sul pallio del Papa) fissato sulla spalla sinistra al modo in cui è stato temporaneamente portato, anche in tempi recenti, dagli ultimi pontefici, Benedetto XVI e Francesco, prima del ritorno alla più comoda forma a “Y” (il pallio, dal latino “pallium” – mantello di lana, è una striscia di lana ornata da croci e con infisse tre spille e simboleggia il ruolo di pastore della guida ecclesiastica, che simbolicamente porta la pecora sulle spalle - NdR).
Nel volto di Pietro, sul quale proiettano la loro ombra i capelli, mi sembra di riconoscere lo stesso viso di san Giuseppe nella Fuga in Egitto agli Scrovegni di Padova.
Infine si arriva a san Benedetto. Come gli altri santi regge nella sinistra un libro che per tutti, in diverse combinazioni di colori, ha le stesse decorazioni (solo lievemente diversa proprio in Benedetto). Di lui colpisce la barba, bianca, rada e morbida che si staglia sul nero dell’abito monacale. Ed è proprio questo nero la misura della qualità dell’artista. Di per sé il nero è un colore che appiattisce le figure che ne sono rivestite, solo i grandi sono capaci di usarlo in modo da dargli comunque volume, e Giotto è indubbiamente fra questi.

TESTIMONIANZE DI UN'ASSENZA

Degli Affreschi della chiesa di Badia non è che resti molto. Un po’ a causa del degrado del tempo, un po’ perché, ad esempio, le teste dei protagonisti dell’Annunciazione, erano state staccate e rubate già nel ‘600. Vasari cita la postura di Maria, con le mani alzate (lateralmente, a candelabro) come si faceva anticamente durante la preghiera (i Milanesi ne possono trovare testimonianza scolpita sulla pietra del sarcofago che si incontra alla propria sinistra appena entrati nella prima sala del museo del Castello Sforzesco) e come, più tardi, si ritrova nell’Annunciazione del Gatto di Lorenzo Lotto.
Come in quest’ultimo, più che in preghiera, però, Giotto sembra voler evidenziare lo spavento di Maria per l’improvvisa apparizione dell’Arcangelo Gabriele.
Altro riferimento a queste sue mani alte è quello, sempre in Giotto, alla posizione di san Francesco quando riceve le stimmate, opera oggi al Louvre ed una delle poche per le quali l’attribuzione al maestro toscano è certa ed inoppugnabile.
Assieme ad una colonna tortile associata ad un frammento di volta, col quale si vuole dare “l’idea” dell’architettura in cui erano inseriti, sono in mostra altri frammenti poco leggibili di queste storie della Vergine affrescate: una sua Presentazione al Tempio e la vicenda del padre Gioachino in esilio fra i pastori a causa del fatto che non poteva avere figli. La sua è l’unica figura un poco visibile, assieme ad alcune capre, ed il fatto che questa stessa scena si trovi anche nella monumentale Cappella degli Scrovegni a Padova ci conduce all’opera successiva che viene proprio da questo celeberrimo luogo e conclude la prima sezione della mostra.

LA PORTA DEL PARADISO

Si tratta della figura di Dio Padre in trono (1303-1305 ca) che è la chiave di volta della parete absidale, forse la più trascurata del complesso, visto che dalla parte opposta si trova il Giudizio Universale, ma sulla quale è dipinta la vicenda all’origine dell’edificio sacro.
Questa cappella non è, infatti, dovuta alla volontà del committente di espiare, con essa, le colpe del padre usuraio, bensì come mezzo per consolidare il potere della famiglia Scrovegni e manifestazione della loro ricchezza. Il luogo prescelto, nei pressi dell’Arena romana, già era utilizzato per il finale delle feste dell’Annunciazione e, per questa ragione, anche la cappella venne dedicata all’Annunciazione e consacrata nella data in cui ricorreva questa festa liturgica: il 25 marzo 1305.
Osservando le date di questa e delle precedenti opere troviamo conferma di quanto affermato all’inizio di questa recensione: Giotto sta lavorando contemporaneamente a Firenze e Padova, città non proprio vicine, anche considerando la disponibilità e la velocità dei mezzi di trasporto del tempo.
Ed il fatto che sia chiamato a Padova per ricevere un incarico di questa importanza, dimostra che Giotto arriva in città come un artista già famoso.

Tornando al dipinto, la prima domanda che ci si pone è come possa essere stato portato in mostra sottraendolo ad un tale contesto. E la risposta ci viene data dalla sua parte sinistra, sulla quale notiamo la presenza di cardini. Si tratta, infatti, di… una porta!
Era la porta raggiungibile da un vano nel presbiterio, perciò accessibile solo dal clero officiante. Quello che abbiamo davanti è dunque l’originale, oggi custodito nei Musei Civici di Padova, sostituito sulla parete da una copia.
Giotto, seppure con le diverse tecniche richieste dalla pittura su legno e su muro, era riuscito a dare una perfetta continuità alla scena di Dio Padre che, dal suo trono traforato lateralmente ed attraverso il quale si vede il cielo, guarda l’angelo Gabriele, più in basso, al piede dell’arco trionfale, e col gesto della mano sinistra lo incarica di andare a portare a Maria, dalla parte opposta dell’arco, l’annuncio che da lei nascerà Gesù.

Dio Padre è giovane e molto somigliante al Figlio in altri suoi dipinti. Il volume del volto è reso con effetti di chiaroscuro e le decorazioni sui bordi della sua veste presentano iscrizioni pseudo-cufiche. Ovvero imitano la scrittura cufica, così detta perché ipotizzata come originaria dell’antica città di Kūfa in Iraq.
Il trono e la mano, realizzati in scorcio, dimostrano la conquista di Giotto nell’uso dello spazio. Seppure in modo empirico, cioè semplicemente osservando la realtà e riproducendola, Giotto è fra i primi ad usare la prospettiva, che sarà teorizzata solo nel ‘400 da Leon Battista Alberti e dai pittori rinascimentali.

IO E GIOTTO 1
Questa considerazione mi riporta ai tempi della scuola media e mi fa comprendere, dopo decenni, un’affermazione del “temutissimo” prof. Settimio Luzi.
Anche in questo esatto momento, ho infatti ancora di fronte agli occhi l’immagine del suo volto sorpreso e sbigottito che, per una volta, si era aperto in un sorriso esclamando: “Ma tu sei Giotto!”.
Il professore faceva disegnare liberamente noi ragazzini e, di fronte ad un mio disegno, mi aveva chiesto perché avessi rappresentato a forma di trapezio regolare ed orientato in verticale le persiane semiaperte di alcune finestre.
Ricordo ancora che ero rimasto sorpreso dalla domanda, non ne capivo il senso e perciò gli avevo semplicemente risposto: “Perché sono così”! Da qui la sua esclamazione, per me lusignhiera.
Non nascondo che di questo episodio negli anni mi sono sempre “vantato”, citandolo ogni volta che si presentava l’occasione adatta per farlo!

Sarà anche per questo motivo che questa mostra mi ha tanto coinvolto e queste opere mi hanno messo tanta soggezione non appena i miei occhi si sono posati su di loro.

IO E GIOTTO 2
A dire il vero a Giotto, e proprio alla Cappella degli Scrovegni, è legata anche la più intensa esperienza che ho mai provato nell’ambito dell’arte: senz’altro di quella pittorica, ma forse dell’arte in assoluto. Non ne cito i presupposti avvalendomi del privilegio giornalistico di non rivelare le proprie fonti, però il mio timore di una visita alla Cappella degli Scrovegni, intruppato e col tempo contingentato di 15’ e l’angoscia di ascoltare dal custode l’avviso “mancano 5 minuti, cortesemente avviarsi all’uscita” quando avevo appena cominciato a contemplare la prima delle storie raccontate sulle sue pareti, si è poi risolto in un premio inaspettato.
Ho avuto infatti il privilegio di poter sostare per alcuni intensissimi e meravigliosi minuti in piena solitudine al cospetto degli affreschi appena dopo il loro restauro.
Pochi istanti che valgono a dar sapore ad una vita intera.
Anche perché, a dire il vero, ero tutt’altro che solo; i lettori possono facilmente intendere quali e quante presenze sentissi accanto a me in quel momento.

Chiedendo comprensione a chi legge per questa personale digressione, riprendo dunque a seguire i viaggi di Giotto attraverso l’Italia in compagnia delle opere in mostra a Milano. Oltre a Padova si sa che, sempre mantenendo lavori a Firenze, Giotto si sposta anche a Roma, Rimini e fino a Napoli da Re Roberto d’Angiò. Dell’esperienza napoletana non abbiamo purtroppo più alcuna testimonianza, mentre da Rimini non è stato, giustamente, possibile portare in mostra il Crocifisso che sta nel Tempio Malatestiano.
Ed in effetti i Crocefissi sono una lacuna di questa mostra. Lacuna che tuttavia non si percepisce, perché la scelta espositiva di presentare tavole e polittici su quelli che il progettista della mostra ha definito “altari profani”, dà al tutto un senso di omogeneità e di bellezza dalla quale il visitatore percepisce fisicamente di sentirsi avvolto.
Una nota critica me la si conceda per l’insistenza con la quale nella cartella stampa il progettista insiste compiaciuto sul concetto e vocabolo di “altari profani”. Queste opere sono così intimamente costituite di sacro che trasformerebbero in altare sacro qualunque luogo in cui dovessero essere poste e qualunque supporto sul quale fossero appoggiate.
Ovviamente sto estremizzando, ed alla cura dell’allestimento va riconosciuta una notevole parte nella percezione descritta.

I POLITTICI DOUBLE FACE

Ma è ora di tornare alle opere e quella che apre la seconda sezione (Firenze-Roma) della mostra è il Polittico di Santa Reparata (1310 ca ?).

Inquadrato in una cornice massiccia, che ricorda le strutture geologiche dette “Chevron fold”, proviene dalla Cattedrale di Firenze: Santa Maria del Fiore, dove con il Fiore è identificato il Bambino Gesù.

Per comprendere la ragione della denominazione del polittico occorre ripercorrere sinteticamente la storia del Duomo di Firenze. La prima chiesa episcopale della città fu l'antichissima basilica di S. Lorenzo “extra muros”, consacrata da S. Ambrogio di Milano nel 394. Chiesa principale e sede cattedrale fu poi la basilica di S. Reparata martire, la quale, come si è dedotto anche da recenti scavi, fu costruita nel V o VI secolo e, nel corso dei successivi, a più riprese ampliata e restaurata. Quando ne fu decretato il totale e più vasto rifacimento, il cardinale Valeriano, legato di Bonifacio VIII, pose solennemente la prima pietra di una nuova basilica nella festa della Natività della Madonna del 1296. Nel 1412 al magnifico tempio ormai eretto sui resti del precedente, fu confermato il titolo di S. Maria del Fiore.

Come si evince da questo breve excursus, il polittico è stato realizzato proprio nel periodo in cui, dall’antica Santa Reparata, il ruolo di Duomo di Firenze stava passando a Santa Maria del Fiore.

Ma perché come titolare dell'antica cattedrale di Firenze è stata scelta Reparata, una giovane cristiana nata a Cesarea in Palestina, dove fu anche martirizzata durante le persecuzioni dell'imperatore romano Decio nel 250? Lo spiega una leggenda secondo la quale l'edificio le fu dedicato dal vescovo Zenobio quando i fiorentini, dopo averne invocato l'intercessione, riuscirono a respingere l'assedio degli Ostrogoti di Radagaiso dell'8 ottobre del 406, giorno in cui la Chiesa ricorda la santa. Poiché in realtà l'assedio si tenne il 23 agosto dello stesso anno, più probabilmente il culto della santa fu introdotto nella città toscana grazie agli scambi commerciali con gli altri paesi del Mediterraneo.

Ciascuno dei due protagonisti della leggenda, Zenobio e Santa Reparata, è raffigurato su una delle due “facce” del polittico: il recto, che era rivolto verso i fedeli, con santi nella tradizionale iconografia su fondo oro, ed il lato che guardava verso il clero, il verso, nel quale vediamo il paesaggio fare il suo primo ingresso in mostra.

Sul recto, dunque, procedendo da sinistra a destra, per primi incontriamo i santi Eugenio e Miniato. Nello scomparto centrale sta la Madonna con in braccio il Bambino, sempre sorridente come alla Badia e che qui afferra il mento della Madre, della quale si intravede il rosso della veste sotto il mantello blu.
Seguono i santi Zenobio vescovo, anche lui con il dorso del guanto ricamato nella raffigurazione di un angelo, e Crescenzio, con la tonsura e quasi identico ad Eugenio, sia nei tratti del viso sia nelle vesti.
Crescenzio era un martire seguace di sant’Ambrogio e suo segretario, per questo regge in mano la lampada. Però, visto che il precedente è Zenobio e non Ambrogio, sembrerebbe accostato al santo sbagliato.
Come noto gli attributi dei santi erano dipinti per consentirne il riconoscimento ai fedeli che, per lo più analfabeti, non potevano leggerne le denominazioni riportate sotto le rispettive figure.
Come in questo caso, nel quale accanto al nome ne è riportato, con le tradizionali abbreviazioni, il titolo: Eugenio e Crescenzio sono detti Levita, Zenobio Vescovo, la Madonna “Virgo Mater Dei Iesu” e Miniato “Rex Hermine” forse con riferimento al fatto che fosse un nobile soldato armeno, forse addirittura un principe.

Il santo è particolarmente caro ai fiorentini perché, con alcuni compagni, sarebbe stato decapitato sul greto del fiume Arno dai soldati del crudele imperatore Decio (sempre lui) il 25 ottobre del 250. A lui è dedicata la splendida San Miniato al Monte.

Le complesse vicende relative alle attribuzioni a Giotto attualmente suggeriscono che, seppure l’opera gli sia ascritta, in questi santi non sia così direttamente presente la mano del titolare della committenza.

Sul Verso, come sopra anticipato, la scena cambia nettamente. L’oro sparisce e ne prendono il posto forme geometriche che inquadrano i santi negli elementi laterali più esterni - Reparata a sinistra e San Nicola protettore dei bambini e delle donne che vanno spose, a destra – ed il paesaggio, pur stilizzato, in quelli interni: con Giovanni Battista e Maria Maddalena.

A proposito di questi ultimi sono curiosi due piccoli dettagli: la scure al piede dell’albero a sinistra di Giovanni ed una figurina incisa sulla destra accanto ai piedi della Maddalena, forse un vandalismo di un writer dei tempi antichi? Ma di quali tempi?

INVESTIGANDO LA MODA DEGLI ANTICHI
Mi aiutano nell’indagine due aspetti relativi al vestiario del soggetto di questo graffito che, per questa ragione, diventa interessante anche per chi conduce ricerche in tale ambito. La particolarità che si nota più immediatamente sono le calzature con la punta molto lunga.
Da una visita guidata in Brera seguita anni fa ricordo che la sempre brillante Emanuela Spinelli spiegava trattarsi di una sorta di babbucce in cuoio con la punta imbottita. Ideate a Cracovia, e per questo denominate “à la poulaine”, come altri capi d’abbigliamento del periodo tardo gotico vennero diffuse dalla corte borgognona che era un punto di riferimento per la moda del tempo. Precluse ai ceti sociali bassi, a causa della loro forma che ne intralciava i movimenti è stato documentato (da Johan Huizinga in L'Autunno del Medioevo) che costarono una sconfitta ai crociati francesi nella battaglia di Nicopoli del 1396 nella quale, per darsi alla fuga più rapidamente, furono costretti a tagliarne la punta. Protagoniste anche delle leggi suntuarie inglesi, con Edoardo III che ne regolamenta l’eccessiva lunghezza della punta, furono in voga nel periodo della Guerra dei Cento Anni (conflitto che tra il 1339 e il 1453 impegnò Inghilterra e Francia e costituì l’ultima fase della lotta intrapresa dai Plantageneti contro la monarchia francese fin dal XII secolo).
Proprio perché, come si è visto, furono di moda per molti anni, non sono utili per datare lo scarabocchio.

In soccorso alla nostra curiosità vengono, invece, la lunghezza della veste maschile, chiamata “gonnella”, e la lunghezza della capigliatura. Dalla loro osservazione Elisabetta Gnignera, specialista del settore e sempre gentilissima nel rispondere alle mie curiosità a beneficio dei lettori de L’Eclettico, sulla base della propria esperienza propone la seconda metà del XIV secolo, più esattamente intorno al 1370.
Per una comparazione e per far capire ai non esperti a quale capo d’abbigliamento si riferisca, Elisabetta Gnignera suggerisce il confronto con l’affresco La famiglia del conte Stefano Porro dipinto dal Maestro di Lentate nell’Oratorio di santo Stefano Protomartire a Lentate sul Seveso (MB). Soggetto analogo, quello del conte che offre un modellino dell’edificio sacro - ma questa volta alla Vergine, col Bambino che si sporge verso l’offerente per afferrarlo -, era negli affreschi del piccolo Oratorio di S. Maria in Mocchirolo, sempre a Lentate sul Seveso. Da qui, per garantire loro una migliore conservazione, sono stati strappati e ricollocati nella cosiddetta Cappella Mocchirolo ricostruita in una delle prime sale della Pinacoteca di Brera, curiosamente proprio il luogo dal quale sono partito per questa digressione.
Che poi una vera digressione non è, visto che questi affreschi sono un’importante testimonianza dell’influenza lasciata sugli artisti della zona dalla presenza di Giotto che, negli ultimi anni della sua vita, era venuto a lavorare a Milano alla corte di Azzone Visconti. Purtroppo non è più rimasta traccia degli affreschi che aveva dipinto per il signore di Milano nel palazzo che sorgeva proprio dove oggi si tiene questa importante mostra di sue opere.

Ma è tempo di tornare al Polittico di Santa Reparata. Nello scomparto centrale, riservato all’Annunciazione, c’è, infatti, un colpo di scena: per dare profondità alla composizione Giotto “taglia” pittoricamente la cuspide del pannello, come altri faranno fisicamente al polittico Baroncelli nel ‘400 (e come già abbiamo visto è stato fatto alla tavola della Madonna in Trono di San Giorgio alla Costa). In questo modo costruisce una scatola prospettica nella quale inserisce l’episodio dell’Annunciazione.
La stanza è pressoché spoglia di arredi e realizzata con una prospettiva che non segue particolari regole teoriche ma, come si è detto, rappresenta quello che l’occhio del pittore empiricamente vedeva. Un effetto enfatizzato dalle decorazioni sul soffitto. Oltre a questo colpisce la figura di Maria: tutta in nero, con incomprensibili segni neri sugli occhi - forse uno sfregio irreparabile, magari fatto in antico - ma, soprattutto, in atteggiamento di equilibrio instabile perché sta arretrando repentinamente, spaventata dall’arrivo dell’angelo che sembra respingere con un cenno della mano.

UN CARDINALE POCO UMILE

Procedendo nella storia e spostandoci geograficamente in Roma, arriviamo al Polittico Stefaneschi datato al secondo decennio del Trecento e realizzato per l’altare maggiore dell’antica basilica di San Pietro, nota anche come basilica di Costantino.

Lorenzo Ghiberti (1378-1455), colui che nel 1401 vinse contro Brunelleschi il concorso per la seconda porta bronzea – nord - del battistero di S. Giovanni in Firenze (episodio a partire dal quale si fa cominciare per convenzione il Rinascimento) nei suoi Commentari descrive anche le altre opere di Giotto che vi si trovavano: gli oggi perduti affreschi della Tribuna ed il mosaico della Navicella realizzato su suo disegno.
Quest’ultimo, così detto per via del soggetto (Pietro che lascia la barca degli apostoli per raggiunge Gesù che cammina sulle acque), stava sulla facciata antistante il quadriportico dell'antica basilica e quel che ce ne resta si trova nell'atrio dell’odierna San Pietro.
Da documenti dell’epoca risulta che gli affreschi della Tribuna costarono 500 fiorini d’oro, mentre questa pala ne costò 800. Una spesa ingente, sostenuta dal cardinale preposto alla cura della basilica vaticana: Jacopo Caetani degli Stefaneschi.

Siamo al tempo della cosiddetta “Cattività Avignonese”, termine indirettamente coniato da Petrarca che non deve tuttavia essere confuso con l’odierno significato della parola: ovvero prigionia. Si trattava, invece, di uno spostamento della sede pontificia avvenuto nel 1309 per volontà di Clemente V, già arcivescovo di Bordeaux ed incoronato papa a Lione (fatto non inusuale nella storia del papato), che intendeva risiedere più vicino alla Francia, al tempo potenza egemone, per curare meglio le convenienze geopolitiche dello Stato Pontificio, e per tenersi al riparo dalle congiure di potere delle famiglie nobili romane.

In assenza del Pontefice i suoi interessi romani erano seguiti appunto dallo Stefaneschi che Clemente V aveva molto caro e che risulta commissionò il Polittico che ne porta il nome anche in vista di un possibile rientro a Roma del Papa; auspicio che tuttavia non si realizzerà fino al 27 gennaio 1377 quando Gregorio XI vi fece solenne ritorno. Resta il dubbio se, nel caso il Papa fosse effettivamente tornato a Roma, lo Stefaneschi avrebbe potuto mantenere il potere che aveva e, di conseguenza, si sarebbe potuto far raffigurare in veste tanto importante accanto a San Pietro nel polittico.

Dopo aver succintamente delineato le vicende storiche del tempo in cui fu realizzato, vediamolo, dunque, questo polittico che per la prima volta esce dei Musei Vaticani.
Innanzitutto va detto che possiamo vederlo molto bene grazie al fatto che per proteggerlo, anziché chiuderlo in una teca, necessariamente di grandi dimensioni, sui suoi singoli scomparti sono state applicate apposite lastre di vetro ritagliate su misura e rese invisibili, un’ottima soluzione che verrà mantenuta per esporre l’opera anche dopo che l’attuale mostra sarà terminata. Come si è già visto per il Polittico di Santa Reparata, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un’opera double face: con un lato rivolto al popolo ed un secondo destinato agli ecclesiastici che celebravano le funzioni alle sue “spalle”, nell’abside della navata principale.
Purtroppo, fra tutti i pregi della mostra che abbiamo fin qui elencato, un piccolo difetto nella schermatura delle lampade che ne illuminano il lato opposto, non permette di vedere al meglio ogni dettaglio del’opera, per chi volesse esaminarla all’occorrenza spostandosi in diverse posizioni.

Anche in questo caso come recto viene inteso il lato rivolto ai fedeli e che si presenta più ricco per i fondi oro. Nel pannello centrale c’è san Pietro; con in mano le chiavi simbolo del potere spirituale e sulle spalle la Cappa rubea (rossa) simbolo di quello temporale: in lui coincidono il potere pontificio teocratico cioè spirituale e quello terreno dal tempo di Costantino. Concetto molto attuale al tempo dell’opera, in cui il potere temporale della Chiesa era messo in discussione dal Re di Francia ed aveva creato i presupposti per la Cattività di Avignone alla quale già si è accennato.

Affiancato da angeli (presenti anche nei tondi delle tre cuspidi) ed assiso sul suo trono, in marmo e riccamente decorato da inserti lapidei che sorge su un pavimento a riquadri cosmateschi, Pietro riceve un duplice omaggio. Sulla destra, in abito monacale e presentato da san Silvestro, ad offrirgli un manoscritto è il papa Celestino V, colui “che fece per viltade il gran rifiuto”, come disse di lui Dante nella Divina Commedia accusandolo per essersi dimesso dall’incarico di Pontefice. Di questo personaggio si è molto parlato quando lo stesso gesto, nel 2013, è stato compiuto da Benedetto XVI.
Il secondo offerente, sulla sinistra, è lo stesso committente: il cardinale Stefaneschi che, essendo cardinale di San Giorgio al Velabro, è sua volta presentato da san Giorgio, riconoscibile dalla presenza ai suoi piedi del drago, che per la verità sembra più che altro un serpentello!
Lo Stefaneschi ha in mano, riconoscibilissimo, il modellino del trittico in una sua puntuale riproduzione: dai quattro santi negli scomparti laterali, a Pietro, di cui spicca il rosso in quello centrale, alle “fioriture” della cornice, oggi perdute dall’originale.
I santi nei pannelli laterali sono san Giacomo Maggiore, con il bastone del pellegrino, fratello di san Giovanni Evangelista, dipinto all’estremità opposta, rispettivamente affiancati a san Paolo e sant’Andrea, raffigurati anche nei tondi che li sovrastano. Una nota curiosa è che in tutti i quattro santi Giotto fa in modo di mostrare le dita di un piede che sporgono dalle vesti, forse un espediente per delineare meglio le proporzioni della figura e la presenza sotto di esse della gamba (di cui si vede anche la piega in corrispondenza del ginocchio) affinché non diano l’idea di stoffe “vuote”!
Inoltre noto che la scelta del piede da scoprire cade sempre, credo non casualmente, sul destro o sul sinistro per fare in modo che restino sempre sui lati esterni della coppia di santi, forse per darle, in un certo senso, più stabilità e simmetria.
Della predella, su questo lato del Polittico, ci resta solo uno scomparto con i santi Stefano, Luca e Giacomo Minore (detto di Alfeo per distinguerlo dal Maggiore, figlio di Zebedeo).

Girando dal lato del verso del Polittico, come si è detto quello a beneficio del clero officiante, se nello scomparto centrale questa volta troviamo Cristo in trono fra uno stuolo di angeli, in ginocchio ai suoi piedi, con un curioso effetto dell’incerta prospettiva che lo fa quasi sembrare appoggiato-aggrappato ai gradini del trono, ritroviamo… il cardinale Stefaneschi.
Non proprio un modello di umiltà visto che si fa ritrarre per ben due volte sull’altare maggiore della basilica di San Pietro, al cospetto del medesimo e del Figlio di Dio.
È pur vero che è inginocchiato e di statura molto ridotta rispetto al Cristo ma, anche se si presenta a capo scoperto, non manca di lasciare il cappello cardinalizio (il galero) appoggiato a terra davanti a sé, comunque in vista, giusto per ricordare chi egli sia!

Nei pannelli laterali, a destra, in corrispondenza con il recto, è rappresentata la scena della decapitazione di san Paolo. A sinistra è, invece, la crocifissione di san Pietro. Sopra ciascuna di esse si vedono i due martiri portati in cielo da una nube di angeli che li sollevano verso l’alto e poi pare di riconoscerli anche nei tondi delle cuspidi, curiosamente a posizioni in apparenza scambiate rispetto alla storia che vi è raffigurata sotto.
Ho scritto storia perché dopo il trionfo dell’oro qui troviamo il Giotto capace di raccontare ai fedeli le storie sacre, rendendole umane e vicine all’esperienza quotidiana rispetto al distacco che avevano nell’arte bizantina. Troviamo la conferma alle parole di Cennino Cennini citate in apertura.
Ed ancora, troviamo Giotto che, in pittura, dona all’Italia quel linguaggio comune che il suo concittadino e contemporaneo Dante Alighieri le diede nell’ambito della lingua.
Rispetto ai santi isolati, o al massimo accompagnati da poche altre figure, qui, in entrambi i pannelli, attorno al santo martirizzato c’è una folla di astanti. E nonostante l’oro continui ad essere il colore prevalente, il paesaggio diventa protagonista ed è il dolore a predominare ovunque.

A destra, nella decapitazione di Paolo, lo dimostrano platealmente i gesti delle donne che circondano il corpo del santo ancora inginocchiato. La cui testa è a terra, cerea del colore della morte, accanto a tre sorgenti. Si narra infatti che, al momento in cui fu tagliata, la testa di san Paolo rotolò a terra con tre salti in corrispondenza di ciascuno dei quali sgorgò una fonte, e per questo ancora oggi questa località della città di Roma è identificata col toponimo di Tre fontane.
Sulla destra il carnefice rinfodera la spada utilizzata per l’esecuzione mentre a sinistra un altro armigero guarda in alto, verso due angeli che, anch’essi – come quelli della Crocifissione agli Scrovegni – si torcono le mani per la disperazione.
Particolarmente curiosa è la figura femminile in piedi sulle colline in alto sulla sinistra: è Plautilla, una seguace di Paolo che gli aveva dato il suo velo per bendarsi gli occhi durante il supplizio ed alla quale il santo lo restituisce nell’ascendere al cielo.

Passando a Pietro - che com’è noto chiese di essere crocifisso a testa in giù - ai lati del pannello che raffigura il suo martirio troneggiano due curiose strutture architettoniche. Si tratta di due edifici che oggi non esistono più ma erano molto conosciuti nella Roma del tempo di Giotto. Si trovavano nel cosiddetto Ager Vaticanus, corrispondente all’area della piana alluvionale compresa tra il colle Vaticano, il Gianicolo e Monte Mario che, pare, fin dalla sua prima frequentazione fosse destinato esclusivamente ad uso funerario.
La sua parte monumentale era caratterizzata dalla presenza della Meta Romuli (l’edificio sulla sinistra del pannello corrispondente della tuttora esistente Piramide Cestia, la Meta Remi), e dal Terebinthus Neronis (sulla destra).

La Meta Romuli era una sepoltura di epoca augustea a forma piramidale (architettura tipica del periodo) detta anche “Piramide Vaticana”. Venne abbattuta nel 1499, su ordine di papa Alessandro VII, per creare una via di collegamento fra il Vaticano ed il Tevere: la via Alessandrina. Accanto alla Meta Romuli sorgeva il Terebinthus Neronis, un mausoleo a pianta circolare sormontato da una torre che venne demolito nel VII secolo; i blocchi della pavimentazione che lo circondava vennero utilizzati per i gradoni della Basilica.

La tradizione voleva che nello spazio compreso tra i due sepolcri monumentali fosse avvenuto il martirio di San Pietro, ragion per cui per molti secoli la piramide venne rappresentata come simbolo del martirio e li troviamo anche qui. Il luogo della sepoltura di San Pietro fu da subito oggetto di grande venerazione e, secondo la tradizione, era contraddistinto anche da un terebinto, un albero che corrisponderebbe al Pistacia terebinthus, o albero della trementina. Chissà se c’è proprio un riferimento al terebinto vegetale nell’albero che cresce sulla torre del Terebinthus Neronis dipinto da Giotto e la cui chioma si piega a seguire la centinatura dello scomparto.

Al di sotto di queste scene così ricche di vivacità (per quanto drammatiche), nella predella, fra gli angeli incensieri e i dodici apostoli, la Vergine siede in trono (anche qui su un cuscino rosso) con in braccio il Bambino. Ed è curioso il gesto di quest’ultimo, che infila in bocca non il pollice (come usa!), ma tutte le altre dita. Un’abitudine che mi fa ricordare un bambino che ho davvero conosciuto che vi appoggiava sopra la lana morbida strappata da un cane di peluche, a poco a poco ridotto come i barboncini spelacchiati sul corpo ai quali è lasciato il pelo sulle gambe e sul capo, ed un ciuffo sulla punta della coda!

Terza opera della sala, seppure meno appariscente, l’affresco staccato con Due teste di apostoli dagli sguardi divergenti non ha minore valore storico. Si tratta infatti di due santi sopravvissuti alla demolizione della vecchia san Pietro, mostrati per la prima volta in pubblico potrebbero provenire proprio dagli affreschi che circondavano il Polittico Stefaneschi.

UNA FOLLA DI AUREOLE... A SUON DI MUSICA

Importante è anche l’accoppiata della penultima, successiva, sala. Qui lo sfavillante Polittico Baroncelli (1330 ca.), proveniente dalla cappella Baroncelli della basilica di Santa Croce in Firenze è riunito alla sua Cuspide con Dio Padre e angeli, che già ne era parte integrante ed oggi è esposta negli USA al The San Diego Museum of Art.
A Federico Zeri va il merito di averne riconosciuto l’originaria provenienza consentendo di ricostruire l’aspetto originale dell’opera. Infatti, con una sorte analoga a quella già vista in apertura della mostra per la Madonna di San Giorgio alla Costa, anche qui l’intervento di tagliare le due parti del polittico risale alla metà del ‘400, datazione dell’attuale cornice rinascimentale, quando era d’uso rimuovere le “pompe” gotiche.

C’è una curiosità divertente da notare in questo frammento: alcuni degli angeli che volano verso Dio Padre si proteggono gli occhi facendosi ombra con la mano, altri reggono una lente affumicata, come quelle che si usano per guardare le eclissi di sole; perché la luce irradiata da Dio, che porta in testa una coroncina azzurra, è troppo forte ed abbaglierebbe, accecandolo, chi avesse l’ardire sconsiderato di fissarla ad occhio nudo.

Per quanto riguarda il polittico, una prima questione di attribuzione me la pone la firma Opus Magistri Iocti scritta a lettere separate sotto i pannelli (tre per volta sotto i laterali e cinque sotto quello centrale: Opu/s Ma/gistr/i Io/cti).
Risulta infatti che l’opera in passato sia stata considerata ideata da Giotto ma realizzata dagli allievi ed in particolare fu attribuita a Taddeo Gaddi, suo collaboratore ed autore degli affreschi della cappella Baroncelli. Ciò farebbe pensare che questa firma sia stata apposta successivamente.
Il polittico Baroncelli è infatti datato come precedente il 1330 ma a Firenze il titolo di Magister si applicava solo per gli scultori e per gli architetti e, nella sua città, Giotto lo ricevette soltanto dopo l’alluvione del 1333. Più precisamente la nomina è del 1334 quando gli viene affidato l’incarico di architetto per la realizzazione di diverse opere pubbliche fra le quali il campanile che porta il suo nome ma per il quale lavorò soltanto fino al “dado” basale e con un progetto che aveva delle pecche sotto il profilo della statica.

Passando all’aspetto iconografico dell’opera, nello scomparto centrale troviamo l’Incoronazione della Vergine che incrocia le mani sul grembo dal quale ha dato alla luce il Figlio che la sta incoronando. Porta il sottogola come quello delle monache carmelitane ma non ho conoscenze sufficienti per attribuire alla cosa un qualche significato particolare. L’altro aspetto particolare del suo abbigliamento è il fatto che i colori della sua veste (celeste) e del suo manto (rosa con ricercate decorazioni vegetali in oro) sono opposti a quelli che siamo più abituati a vederle addosso: rossa la veste, per sottolinearne l’umanità, e blu-azzurro il manto per simboleggiare la divinità che l’avvolge.
Osservando che qui il manto è identico a quello di Gesù, occorre dire che la “regola” generale va contestualizzata caso per caso e, siccome le ragioni delle scelte pittoriche possono essere innumerevoli, è molto difficile per noi conoscerle davvero, visti i secoli trascorsi da quando queste opere sono state realizzate e durante i quali si sono perse molte delle notizie sul loro contesto artistico e culturale.

Notando anche qui due piccoli dettagli rossi che, segnalandoci la presenza dei cuscini sui quali le due figure siedono, ci suggeriscono la tridimensionalità del trono il cui schienale è ricoperto da un drappo verde, e dedicando solo un cenno alla predella sottostante, al centro della quale sta il Cristo patiens con alla sinistra un santo vescovo e san Giovanni Battista ed alla sua destra san Francesco ed un barbuto sant'Onofrio, passiamo ad osservare gli elementi laterali del polittico.

La schiera di santi ed angeli musicanti che vi si affollano è la caratteristica che più colpisce chi si accosta a quest’opera che, a prima vista, mi porta immediatamente col pensiero alle figure che “riempiono” il registro basso della Predica di san Marco in Alessandria dei fratelli Bellini e che i frequentatori di Brera ben conoscono. Ma qui, se possibile, l’affollamento è ancora più stretto. Proprio come quando ci si raduna attorno ad una grande personalità dei nostri tempi e ci si stringe, e ci si spinge, per avvicinarla il più possibile e poterla vedere da vicino.
Mancano solo (e meno male) le braccia alzate con l’immancabile telefonino col quale scattare foto ricordo dell’evento (magari mosse e sfuocate!).
In compenso ci sono aureole sovrapposte dalle quali spesso emergono quasi solo gli occhi, in qualche caso addirittura uno soltanto. Nel pannello di sinistra più a ridosso di quello centrale c’è un volto, l’unico, che ha in testa una specie di turbante rosso e guarda altrove, non ne conosciamo la ragione ma non è escluso che successivamente qui non la si possa pubblicare, magari grazie all’aiuto di qualche lettore più competente di chi scrive.

Altre figure sono dipinte anche quasi per intero e con elementi che ai contemporanei permettevano di riconoscerle. Da parte nostra ci limitiamo a citare, sulla sinistra, Adamo ed Eva - in rosso - e San Pietro - con la chiave in mano ed il particolare taglio dei capelli che gli abbiamo visto in tutte le opere in mostra - e, dalla parte opposta, san Giovanni Battista – il manto rosa del quale è semi aperto e lascia scorgere il vestito di pelliccia che lo identifica – e san Paolo con in mano la spada ed un libro.

Fantastici sono poi gli angeli musicanti che suonano strumenti dipinti in modo molto realistico: corni, trombe, viole da braccio (c’erano anche quelle “da gamba”) cetra ed organi portativi. Questi ultimi si chiamano così perché, diversamente dagli organi positivi (cioè quelli fissi), si potevano suonare spostandoli e reggendoli in mano, un po’ come con le tastiere elettroniche portate a tracolla dai gruppi pop negli anni ’80. Nell’ultimo pannello di destra del polittico si vede anche molto bene il dettaglio dell’angelo col manto rosso che, infilato il pollice della mano sinistra in un laccetto, con questa aziona il mantice dello strumento sulla cui tastiera, posta sul lato in cui si aprono le “bocche” (le aperture laterali) del canneggio, suona con la mano destra, come fa l’angelo in verde dalla parte opposta del polittico.

Un dubbio che resta ancora irrisolto, e sul quale ho trovato impreparati anche affermati storici dell’arte (ma continuerò ad indagare), è il significato delle coroncine, per lo più rosse, sul capo degli angeli ma anche di alcuni santi aureolati.

Un dettaglio già notato in altre collezioni di “fondi oro” (ad esempio al Museo Diocesano di Milano, dove sembrano quasi “fiammelle”) e che nel polittico Baroncelli a volte sono addirittura “bandane”. Qualcuno ha ipotizzato che simboleggino la luce divina: chi è più vicino a Dio arde di più, come accade agli angeli che sono infuocati: i serafini. Una spiegazione però non del tutto convincente, alcuni infatti (e lo stesso Dio Padre della cuspide) hanno “bandana” o coroncina di colore blu, colore corrispondente ai cherubini che però, a rigore di gerarchie angeliche, dovrebbero essere più indietro rispetto ai primi.
Una spiegazione di questa incongruenza potrebbe essere che sono alla stessa distanza proprio perché quella che vediamo è un’antica memoria di diversificazione cromatica ma senza il significato originario, mentre il colore della corona del Padre potrebbe essere connesso con il cielo e l’Infinito…

LA FIRMA ENIGMATICA

Ma eccoci, infine, all’ultima opera in mostra, il cosiddetto Polittico di Bologna (1332 - 1334 ca.) proveniente dalla Rocca di Galliera (Bologna). Prima di tutto è dovuto un “mea culpa”: a quest’opera, alla quale ho dedicato tanta attenzione in questa mostra, non ne ho dedicata altrettanta quando l’ho vista nella sede in cui si trova abitualmente: la Pinacoteca Nazionale di Bologna. Confesso che anche ora non mi colpisce particolarmente sotto il profilo pittorico. Né la cuspide, col Figlio dell’Uomo dell’Apocalisse che regge la sfera stellata, né il registro principale che presenta la Madonna in trono col bambino, che anche qui con una mano le si aggrappa alla scollatura della veste e con l’altra le accarezza delicatamente la guancia, né i santi che l’accompagnano (ognuno con sotto i piedi il proprio nome ben leggibile): Pietro, Gabriele Arcangelo - che in un cartiglio porta il testo dell’Ave Maria - Michele Arcangelo e Paolo.

Attirano di più il mio sguardo due delle figurine della predella che, fra San Giovanni Battista che indica Cristo e la Maddalena dai lunghi capelli alle estremità, mostrano tutta la loro disperazione accanto al Cristo in Pietà al centro: la Madonna completamente avvolta nel suo mantello e San Giovanni Battista che si torce le mani e le porta al volto.
Ma l’altro dettaglio che ancor più cattura la mia curiosità è l’iscrizione in giallo oro sul fronte bianco del basamento del trono. Non è immediatamente leggibile da chi non sia assiduo al modo di scrivere del tempo (la calligrafia gotica), che era ricco di abbreviazioni, ma, grazie all’aiuto di Raffaella Zama, storica dell’arte che mi onora della sua amicizia, apprendo che la scritta va così sciolta: "OP[US] MAGISTRI JOCTI D[E] FLOR[ENTI]A". Dunque ancora un’attribuzione diretta a Giotto e di nuovo torna il dubbio sulla sua autenticità. Ma ancora Raffaella Zama mi soccorre confermandomi che la firma di Giotto viene ritenuta autentica, visto che nell'ultimo catalogo della Pinacoteca (al quale ha lavorato anch'essa) il polittico è schedato a suo nome.

Si ritiene che Giotto avesse ricevuto questo diretto incarico dal cardinale Bertrando dal Poggetto inviato dal Papa Giovanni XXII (che ancora risiedeva ad Avignone) a capo di una delle spedizioni militari organizzate in Italia per fronteggiare le ambizioni dello schieramento ghibellino intenzionato a sottrarre terre allo Stato della Chiesa. Nell’occasione si pensava di spostare la corte papale proprio a Bologna, ed anche se la cosa non si realizzò, la presenza dei santi Pietro e Paolo nel polittico è un indizio del motivo di questa committenza.
Chi se ne intende osserva che la sua struttura sembra fatta apposta per spedirlo, si suppone da Firenze, nel luogo di destinazione. E nel fatto che questo fosse esterno al capoluogo toscano, si può individuare la ragione del perché che non fosse stato rispettato il vincolo sull’uso della qualifica di Magister, al quale sopra ho già accennato. Oppure può essere che il polittico sia stato terminato proprio a 1334 inoltrato. Serena Romano riferisce, infatti, che “il 12 aprile 1334, prima che i documenti notarili lo attestino fisicamente di ritorno a Firenze, i priori delle arti e il vessillifero di giustizia, non avendo reperito “in tutto il resto del mondo qualcuno più adatto di Giotto”, lo nominano “maestro e direttore del progetto e dell’opera della chiesa di Santa Reparata, della perfetta costruzione delle mura della città di Firenze, delle sue fortificazioni, e di altre opere del Comune”. L’onore è reso perché il maestro “accipiendus sit in patria sua”, “venga accolto di ritorno nella sua città”, ed è quindi il benvenuto a chi si era palesemente ricoperto di gloria e sta rimettendo piede in patria: è ovvio ci sia qualche giorno di iato tra l’arrivo vero e proprio e la ricezione ufficiale e pubblica, non si può immaginare una sorta di Ingresso a Gerusalemme, sia pure per un personaggio del calibro di Giotto. Francesco Caglioti ha proposto che il ritorno avvenisse da Bologna, probabilmente nel corteo di Bertrando dal Poggetto in cammino per tornarsene in Provenza: l’ipotesi, di forte suggestione, daterebbe il rientro di Giotto a Firenze al 31 marzo o 1 aprile 1334”. Se col polittico di Bologna si chiude la mostra milanese di Giotto, proprio in questo periodo si apre l’ultima fase della vita di Giotto che, come già si è detto, lo portò proprio a Milano e proprio a lavorare nel palazzo, al tempo di Azzone Visconti, che oggi lo ospita di nuovo. Gli storici dell’arte ritengono degno di assoluta fiducia il testimone Giovanni Villani secondo il quale il periodo milanese di Giotto è ipotizzabile o nella prima metà del 1335, o nel corso del 1336. Proprio alla vigilia della morte, l’8 gennaio dell’anno seguente."

NOTARE BENISSIMO: Guido Codecasa, nel n. 1 de "I Quaderni dell'Eclettico" (leggi di più >>>), a proposito di questo polittico riferisce di uno dei casi più unici che rari nella storia delle istituzioni museali, non soltanto italiane.
Anche il Polittico di Bologna fu infatti vittima delle soppressioni napoleoniche del 1808 durante le quali venne smembrato ed il suo pannello centrale, della Vergine col Bambino, arrivò a Brera.
Ma fu possibile ricomporlo fra il 1893 ed il 1895 grazie al gesto generoso dell'allora gran pittore e direttore di Pinacoteca e Poldi Pezzoli Giuseppe Bertini. Nell'occasione gli fu applicata una cornice "storicistica" (vedi foto dalla Fototeca Zeri di Bologna) che in epoca moderna fu rimossa.
Operazione discutibile se non altro per il fatto che se i pannelli oggi si presentano rovinati ai bordi è perché in corso d'opera i conservatori hanno staccato la vernice sotto il legno.

PROVOCAZIONE FINALE

È un percorso, quello fin qui tracciato, che, per una sorta di beffa del destino, finisce in modo anomalo, monco e quasi come franato in un burrone o bruscamente schiantato contro un muro. Quella descritta è una sensazione che gli attenti lettori di queste pagine non avranno mancato di provare. Mi riferisco ovviamente al Giotto milanese: dopo aver ammirato i suoi capolavori arrivati da altre città, e ben sapendo che anche Milano è stata impreziosita da molti suoi lavori, lascia davvero con l'amaro in bocca pensare a quanto sia stata abile nel cancellarne ogni traccia.
La stessa Milano che ha ospitato il maestro ed è stata a lungo ornata dalle sue opere e nella quale oggi si allestisce una mostra, pur molto ben fatta, per farlo conoscere... ha trattato la propria arte a schiaffi ed ora si trova a raccogliere pochi cocci e poche briciole scampate a incuria e affarismo (leggi di più: L'eco di Giotto a Milano: ritrovata l'antica chiesa perduta e Sulle tracce di Giotto e dei suoi seguaci a Milano e dintorni nel contesto della Signoria dei Visconti).

Giovanni Guzzi, gennaio 2016
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CREDITI E TITOLI FOTO DALLA MOSTRA GIOTTO L'ITALIA, MILANO - PALAZZO REALE 2015-16 IN ORDINE DI PUBBLICAZIONE

Madonna con il Bambino 1285-1290 ca. tempera e oro su tavola dalla Pieve di San Lorenzo sede della compagnia del SS. Sacramento (Borgo San Lorenzo) © non comunicato

Madonna col bambino in trono e due angeli 1288 ca. tempera e oro su tavola dalla chiesa di San Giorgio alla Costa (Firenze) Firenze, Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte Mondadori Portfolio/Domenico Ventura

Polittico di Badia 1295-1300 tempera e oro su tavola dalla Chiesa di Badia (Firenze) Firenze, Galleria degli Uffizi Ex Soprintendenza Speciale per il PSAE e per il Polo Museale della Città di Firenze/ Galleria degli Uffizi, Gabinetto Fotografico/Antonio Quattrone

Testa di pastore (Gioacchino tra i pastori) 1305-1310 ca. affresco staccato e riportato su supporto in duralluminio dalla chiesa di Badia (Firenze) Firenze, Gallerie dell’Accademia Archivio dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze/Antonio Quattrone

Dio Padre in trono 1303-1305 ca tempera e oro su tavola dalla cappella degli Scrovegni, Padova, Musei Civici di Padova, Museo d’arte medievale e moderna. Su gentile concessione del Comune di Padova - Assessorato Cultura Turismo e Innovazione

Polittico di Santa Reparata 1310 ca (?) tempera e oro su tavola dalla Cattedrale di Santa Maria del Fiore (Firenze) Firenze, Opera di Santa Maria del Fiore Opera di Santa Maria del Fiore; Arcidiocesi di Firenze; Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze/Nicolò Orsi Battaglini

Polittico Stefaneschi secondo decennio del Trecento tempera e oro su tavola dalla basilica di San Pietro (Città del Vaticano) Città del Vaticano, Musei Vaticani Su gentile concessione del Servizio Fotografico dei Musei Vaticani, © Governatorato dello Stato della Città del Vaticano

Polittico Baroncelli 1330 ca. tempera e oro su tavola dalla basilica di Santa Croce, cappella Baroncelli (Firenze) Fondo Edifici di Culto – Ministero dell’Interno Su concessione della basilica di Santa Croce, Firenze/ Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno/Mondadori Portfolio/Domenico Ventura/Roma

Cuspide con Dio Padre e angeli già parte del Polittico Baroncelli tempera e oro su tavola dalla basilica di Santa Croce, Cappella Baroncelli (Firenze) San Diego, The San Diego Museum of Art The San Diego Museum of Art

Polittico di Bologna 1332 - 1334 ca. tempera e oro su tavola dalla Rocca di Galliera (Bologna) Bologna, Pinacoteca Nazionale Su gentile concessione del MiBACT – Pinacoteca Nazionale, Bologna/Mondadori portfolio/Domenico Ventura, Roma