L'Eclettico



Elogio alla Violetta (e a La Traviata)



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Elogio alla Violetta (e a La Traviata) di Tcherniakov

 
Le pesanti contestazioni alla regia di Tcherniakov, per la Traviata che ha aperto la stagione della Scala di Milano, non sono una novità.
Fu un fiasco anche la prima assoluta del 1853 a Venezia, nonostante l’ambientazione nel XVIII secolo, anziché nella contemporaneità di allora, per evitare le critiche della borghesia perbenista.
In 160 anni nulla è cambiato. Violetta non è più una colta, raffinata altoborghese che muore di tisi, un’assurdità al giorno d’oggi, ma compie gesti quotidiani indossando abiti comuni (anziché quelli sontuosi consueti) e porta babbucce col pelo... che orrore!
Che meraviglia, invece! E come sono attuali gli scomposti e chiassosi bevitori e fumatori alla festa di Violetta e, al posto delle finte zingarelle, le invitate che spettegolano sui tradimenti del marchese.
Ma è solo festaiola apparenza, come la parrucca bionda che Violetta, non a caso, si toglie parlando con Alfredo.
Il vero dramma che La Traviata ci racconta è quello di una persona che soffre e muore perché la società bacchettona le impedisce di amare a causa della sua vita disordinata.
Cosa che può succedere oggi come nel XIX o nel XVIII secolo.
E vederselo sbattuto in faccia disturba: c’è voluto del coraggio a farlo, soprattutto nella tradizionalista e ultraconservatrice Milano dei loggionisti scaligeri per i quali Verdi è un idolo sacro ed intoccabile.
Ma questa edizione forse gli sarebbe piaciuta, visto che lui stesso si scontrò col bigottismo borghese per amore di Giuseppina Strepponi, madre di tre figli illegittimi: un’altra traviata.
Scandalosa è l’attualità della vicenda raccontata in Traviata, titolo che già dice tutto: traviata, per sempre. Alle persone come Violetta l’amore non è concesso, possono solo passare la vita tra feste e balli (Sempre libera degg’io…) ma se pensano di poterne vivere uno vero sono solo “follie, follie”. Violetta osa farlo, ma le sarà impedito di continuare, sarà punita per l’ardire, e questo la porterà alla morte.
Germont padre è l’emblema di questo ambiente falso: se Alfredo frequentasse Violetta di nascosto non sarebbe certo un problema. Ma volerla amare alla luce del sole… che vergogna!
Violetta è perfetta per ricoprire il ruolo che le è assegnato, ma non pensi di poter diventare una donna “per bene” che può vivere la sua vita felice con la persona che ama: destino che le è e le sarà per sempre negato.
Per convincerla Giorgio Germont non esita a dirle che quando sarà vecchia Alfredo si stancherà di lei, che il suo amore non potrà esserle di alcun conforto perché non è stato benedetto dal cielo e quindi è un amore impuro (Un dì quando le veneri) e le getta addosso il peggio dell’ipocrisia del mondo che egli stesso rappresenta (Pura siccome un angelo) e il suo passato, nonostante lei lo ripudi. Ma inutilmente: l’uomo implacabile per lei sarà.
Germont fa lo stesso per indurre il figlio a lasciare e dimenticare Violetta (Di Provenza il mar, il suol), anche mentre il pensiero di Alfredo è rivolto solo a lei e al suo ipotetico tradimento. Tcherniakov ci trasmette questo messaggio presentando un Alfredo impacciato e distaccato.
Furioso all’idea del tradimento (affetta forsennatamente la verdura) ma, alla fine, incapace di stare vicino a Violetta quando muore: non le tiene la mano, non la conforta, non piange, non si dispera.
Violetta muore sola, accasciandosi su una sedia, mentre Alfredo e Germont padre escono dalla stanza: si sono resi conto di ciò che hanno fatto, ma è come se fossero impotenti a contrastare le convenzioni sociali che sacrificano l’amore all’apparenza.
Forse, ritrovandosi nella stessa situazione, non cambierebbero. Alfredo si comporta come se non sapesse cosa farsene del ritratto che Violetta gli ha donato: quasi a dar ragione al padre quando diceva a Violetta che, sfiorite le sue grazie, Alfredo si sarebbe stancato di lei.
È amara e tragica questa Traviata, perché vera. Non è la favoletta con un quasi lieto fine in cui Violetta muore sì, ma di tisi (comunque metafora della condanna) e confortata dall’amore.
La Violetta di Tcherniakov muore per la mancanza dell’amore strappatole con violenza.
Il terzo atto è l’apoteosi del dramma. La scena è spoglia, nulla è rimasto: è la vita svuotata di Violetta. Nessun letto, nessun divano. Solo un piumone, le medicine, la sedia e un telefono: metafora dell’attesa chiamata dell’amato.
Durante il preludio Violetta ingurgita pasticche, come farebbe una persona in preda alla depressione. Antidepressivi, ansiolitici, calmanti, sonniferi: sono le medicine per la “tisi” della società di oggi.
Poi è tutto un susseguirsi di momenti di pura angoscia (È tardi…; Addio, del passato; Ma se tornando non m’hai salvato, a niuno in terra salvarmi è dato; Gran dio!...morir sì giovane) intervallati da rari attimi di tenue speranza (Parigi, o caro) ai quali Violetta si aggrappa disperata per trovare un po’ di sollievo alla sofferenza.
Ma alla fine vince la disperazione.
Al termine dello struggente “Addio, del passato” Violetta si seppellisce sotto il piumone, come in una tomba desolata e abbandonata (Non lagrima o fiore avrà la mia fossa, non croce col nome che copra quest’ossa) che ai mortali di tutto è il confine.
Forse è proprio la morte la liberazione. Forse significa questo l’“Io ritorno a vivere!... Oh, gioia!” pronunciato da Violetta prima di spirare: se gli uomini non hanno avuto e non potranno mai avere pietà di lei né perdonarla, forse Dio potrà farlo (A lei, deh, perdona, tu accoglila, o Dio) e l’unico modo per sfuggire ad una vita vuota, senza amore e senza affetti (Non sapete… Che né amici né parenti io non conto tra’ viventi?...), e quindi profondamente infelice, è quello di morire.
 
Luciano Piubelli, dicembre 2013
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