L'Eclettico



I violini di Mozart? Non a Messa!



Lo dice l'Arcivescovo

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I VIOLINI DI MOZART? NON A MESSA!

Lo dice l'Arcivescovo

 
La questione di quale musica sia più adatta per essere eseguita durante le funzioni religiose ha una storia lunga, forse, quanto quella della Chiesa Cattolica (per circoscrivere l’indagine all’ambito che ci è più vicino).
Procedendo a ritroso nel tempo si va dalle chitarre elettriche degli anni ’70, al melodramma che si insinuava fin all’Elevazione fra Ottocento e Novecento - al punto da indurre il papa Pio X all’emanazione di un Motu Proprio per regolamentare la materia - ed ancora più in antico fino a risalire alla Salisburgo del Settecento.
Era il 1° settembre 1782 quando il principe ed arcivescovo della città, Hieronymus Colloredo pubblicava una lettera pastorale con la quale si proponeva di ≪ricondurre di nuovo alla piena osservanza del culto divino≫, in buona sostanza semplificando la liturgia che voleva depurata da ciò che è ridondante e superfluo.
Anche dal punto di vista musicale.
Fra l’altro, infatti, l’arcivescovo deprecava la ≪musica delle chiese di tutto il nostro arcivescovado, dove sì di spesso colle più miserabili sonate di violino si scaccia dai cuori della gente volgare ogni buon pensiero, e con mugghiniamenti bestialissimi vien solo trattenuta la stupida insensatezza e la spensierataggine≫.
L'affermazione sorprende se si pensa che, oltre al giovane Mozart, lavoravano alla corte del Colloredo musicisti come suo padre Leopold e Michael Haydn (fratello di Franz Joseph Haydn).
Lo stesso Wolfgang, in una lettera al musicista bolognese padre Martini, riferisce inoltre che ≪La nostra musica di chiesa […] anche la più solenne, quando dice la messa il principe stesso, non ha da durare che al più lungo 3 quarti d’ora≫.
In questo contesto bisogna dunque collocare la Missa brevis in fa maggiore KV 192 composta da Mozart a Salisburgo nel 1774 ed eseguita in San Marco durante la celebrazione eucaristica nell’ambito del Festival MiTo Settembremusica 2014.
Ottima iniziativa, avviata fin dalla prima edizione e molto apprezzata dal pubblico ma anche dai celebranti, a detta dei quali è davvero sempre benvenuto questo sforzo di riportare la musica colta all’interno della liturgia.
Ascoltando la Sonata da chiesa in re maggiore KV 144 (1774) che ha aperto la funzione, e ricordando che questa forma musicale, detta ≪sonata all’Epistola≫, era una breve composizione strumentale (per il tradizionale organico di sonata a tre per archi con l’organo a fungere da basso continuo) da eseguirsi tra la lettura dell’Epistola e il Vangelo, si può comprendere che forse l’arcivescovo poteva non avere tutti i torti. Il suo andamento danzante, più che ad una composizione finalizzata a favorire la meditazione, fa pensare all’introduzione di un concerto per orchestra e strumento solista.
Allo stesso modo, il successivo brano strumentale eseguito in San Marco all’offertorio, la Marcia in do maggiore KV 408/1 (1782) per organo, col suo carattere squillante, quasi da entrata operistica, vivacizzata da scalette discendenti che “atterrano” su salde successioni di accordi a stabilizzare il tutto, più che suggerire il divino ha evocato la poco ecclesiastica immagine di un’azione scenica animata da buffi personaggi.
Venendo ai brani del cosiddetto “proprio” della messa (kyrie, gloria, credo, sanctus, benedictus e agnus dei) è utile precisare che la Missa brevis era una composizione concisa, destinata alla celebrazione ordinaria domenicale; invece, nelle occasioni festive in cui vi era una particolare ricorrenza liturgica o celebrativa, ai compositori si chiedeva una Missa solemnis di durata più ampia e, di conseguenza, ben più articolata nella struttura delle singole parti dell’ordinarium missae.
Mozart raccoglie questa sfida ed in proposito così continua la citata lettera a padre Martini: ≪ci vuole uno studio particolare per questa sorte di compositione, e che deve però essere una messa con tutti stromenti≫.
Senza addentrarci troppo in considerazioni musicologiche che non ci competono si può comunque osservare che era abbastanza agevole adattare alle nuove indicazioni il Kyrie iniziale.
Nella KV 192 Mozart lo fa ricamare dai tromboni ed affida rispettivamente a soprano e contralto la scansione tripartita delle invocazioni Kyrie eleison e Christe eleison.
Più difficile era trattare testi ampi e particolarmente densi di contenuti dogmatici come Gloria e del Credo. Se nelle messe solenni il testo era articolato in diverse sezioni musicali, nelle missae breves viene musicato di seguito in modo che il canto fluisca continuo nel dialogo serrato tra i solisti e il coro con l’orchestra a fare da “legante”.
Lo dimostrano, nel Gloria della Missa brevis KV 192, l’incipit del solo tenore a cui risponde l’Et in terra pax del coro in fugato, il motivo strumentale ricorrente e, nel finale, il Quoniam in cui il coro enfatizza, ripetendole, ciascuna delle affermazioni di fede esposte dal solista fino al Cum Sancto Spiritu che il coro sviluppa in canone.
Nel Credo la “trovata” di Mozart (peraltro comune ad altri compositori) per strutturare il brano è quella di anteporre la parola ≪credo≫ ad ogni articolo di fede.
Ad esso si aggiungono soluzioni musicali appositamente costruite per dar rilievo a snodi particolarmente rilevanti del testo e ben rese dall’interpretazione del Ghisleri Choir & Consort.
Ne sono esempio il Sepultus est intonato sottovoce e sibilante, il sedet ad dexteram Patris appoggiato in maniera secca sottolineata dal rullo dei timpani o, ancora, il “non” del non erit finis ripetuto per tre volte per “sottolineare” il concetto e la forza con cui il solista pronuncia il Confiteor mentre, nella risposta corale, sulla parola mortuorum si rallenta per dare slancio al successivo fugato delle voci femminili su vitam venturi saeculi.
Estremamente conciso è il Sanctus: un andante solenne del coro sostenuto dal ripieno orchestrale, l’hosanna è ancora un fugato scherzoso affidato alle voci femminili che ritorna nel finale dopo l’andantino col quale i solisti intonano il Benedictus.
Più musicalmente intenso è infine l’Agnus Dei, in cui Mozart passa dal Fa maggiore di tutta la messa al Re minore.
I primi due versetti sono affidati alle voci femminili con i violini che avvolgono di semicrome i solisti mentre il miserere nobis è ripetuto per tre volte omoritmicamente dal coro.
La terza invocazione invece torna alla voce maschile fino al dona nobis pacem che è uno scorrevole andantino in 3/8 di nuovo nella tonalità d’impianto.
Cosa dire dunque, in conclusione, di quest’opera di Mozart?
Forse che, pur nella leggerezza della riduzione a pochi spunti delle diverse parti della messa, con la sua musica ha aperto voragini sotto il grande crocifisso che signoreggia la navata.
Le stesse voragini aperte dalla Parola proclamata che la musica ha aiutato i presenti ad interiorizzare.
Riducendo la materia musicale ha mostrato come, a condizione di farle spazio, la trasformazione del Pane e Vino nel Corpo e Sangue di Cristo possa portare la Sua luce nel profondo del cuore umano, donandogli la capacità di tornare ad immaginare la pace. Una pace raggiungibile da chi riesce a ritrovare la propria interiorità. Sospendendo ogni giudizio così come fa il Padre, che non giudica ma salva, accompagnando dalla morte alla vita in una risurrezione che è, per ciascuno, un fatto di ogni giorno. Ed in San Marco lo è stata grazie alla musica di Mozart.
Al di là delle perplessità del Colloredo dunque, visti i tempi che corrono, quanto questa musica abbia colpito i fedeli (e magari anche qualche non credente) presenti in San Marco lo si è percepito in tutta evidenza al momento del Padre Nostro, recitato dall’assemblea con una coralità, una morbidezza nella voce ed un “affetto” che raramente si ha modo di ascoltare nelle normali celebrazioni.
 
Giovanni Guzzi, settembre 2014
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