L'Eclettico



Che ci voglia la Carrà?



L'ECLETTICO - web "aperiodico"

CHE CI VOGLIA LA CARRÀ?

Perché i Bellini pesaresi possano ritrovarsi?

 
L’Imbalsamazione di Cristo (1475 ca) di Giovanni Bellini è, forse, il più bello fra i dipinti esposti nella mostra che Brera gli ha dedicato: Giovanni Bellini. La nascita della pittura devozionale umanistica.
Cominciamo col riconoscere i personaggi che vi compaiono.
L'uomo dalla barba folta e morbida che sovrasta la scena in piedi sulla destra è un levita facoltoso di cui i Vangeli della Passione ricordano che in precedenza era stato ad incontrare Gesù di notte: Nicodemo, identificato dal fatto che regge in mano il contenitore dei balsami per l’unzione (una mistura di mirra e aloe), dettaglio che definisce il dipinto appunto un’Imbalsamazione e non una Pietà.
Le altre due figure che attorniano il Cristo sono la Maddalena, la peccatrice che durante il banchetto a casa di Simone il fariseo unge i piedi di Gesù con olio profumato e li asciuga con i propri capelli, e Giuseppe d’Arimatea, colui che richiese a Pilato il permesso di togliere il corpo del Nazareno dalla croce per seppellirlo nel sepolcro che aveva acquistato per sé.
Queste identificazioni, come tante altre nella storia della pittura sacra, non facevano riferimento soltanto ai quattro Vangeli canonici ma attingevano anche ai Vangeli apocrifi ed alla Legenda Aurea, testo duecentesco di Jacopo da Varagine che fu un “bestseller” e rimase il punto di riferimento per i pittori per molti secoli.
Dal punto di vista pittorico, di quest’opera colpisce innanzitutto l’originalità della composizione: ripresa dal basso verso l’alto al modo in cui potrebbe inquadrarla un fotografo inginocchiato ai piedi della scena, con Gesù in posizione non frontale ma decentrata, come nella Pietà con angelo (1476-78, Madrid, Museo del Prado) di Antonello da Messina, ed il cui ginocchio “esce” dal piano del dipinto come farà, cent’anni dopo, il gomito lacerato di uno dei discepoli nella versione di Londra della Cena in Emmaus di Caravaggio.
Una soluzione enfatizzata anche dalla luminosità del bianco del sudario, rappresentato con scultorea verosimiglianza nei dettagli delle pieghe che ricadono sulle gambe del Cristo e sulla pietra del sepolcro. Brillante espediente per richiamare l’attenzione dell’osservatore sul complesso intreccio di mani che vede quasi fuse assieme la mano sinistra di Gesù stretta fra quelle della Maddalena che ne accarezza la ferita del chiodo: il centro anche emotivo del dipinto verso il quale convergono gli sguardi dei tre dolenti.
Incrocio già visto un decennio prima nella Pietà con Maria (in rosso) e Giovanni (anch’essa in mostra) e qui ritroviamo risolto con maggiore morbidezza.
Un risultato facilitato dall’utilizzo della tecnica ad olio (pigmento con olio di semi di lino) più scorrevole da stendere rispetto all’uso della tempera (pigmento con uovo e colla) e che consente di ottenere effetti notevoli come i bagliori che illuminano i capelli della Maddalena o le sfumature cangianti dei colori del panneggio di Nicodemo, stretto in vita da una fascia che si intona con l’azzurro di un cielo che trascolora e verso il quale sfumano, anche se pur sempre "disegnati", i contorni di tutta la composizione; con volumi che "girano" e corpi che acquistano tridimensionalità.
Il tutto allo scopo di suscitare sentimenti di devozione verso il sacrificio del Salvatore perché, assecondando la volontà dei committenti, gli artisti sapevano di dover realizzare dipinti che si guardavano non per svago o diletto… ma per pregare.
Peccato che a questa funzione proprio le opere più belle siano troppo spesso sottratte, per essere costrette ad una riduttiva funzione storico-estetica in un contesto nel quale il loro intrinseco significato religioso non può che andare perduto.
È purtroppo anche il caso della tavola sin qui descritta, pensata come cimasa di una grande pala raffigurante L’incoronazione della Vergine per la chiesa di San Francesco a Pesaro (oggi Santa Maria delle Grazie) ed alla quale era unita da un’unica cornice.
A seguito del trattato di Tolentino (1797) che imponeva al Papa, sconfitto dalle truppe napoleoniche, di consegnare ai francesi cento opere d’arte scelte, come bottino di guerra, l’intera opera (pala principale e coronamento) venne portata a Parigi per essere esposta al Louvre.
Fu recuperata dopo la Restaurazione, grazie all’intercessione di Antonio Canova, incaricato da Pio VI di richiedere la restituzione dei tesori requisiti.
Ma, a conferma di quanto scritto in apertura (condiviso da molti visitatori della mostra), al momento del rientro nello Stato Pontificio, prima di tornare a Pesaro venne privata del pannello sommitale con l’Imbalsamazione di Cristo, trattenuto in Vaticano per costituire, insieme a molti altri dipinti rientrati dalla Francia, la collezione della neo-istituita Pinacoteca Vaticana.
Oggi la pala principale è uno dei “pezzi” più pregiati dei Musei Civici di Pesaro, purtroppo “orba” del suo coronamento.
E, viene da pensare, se i Musei Vaticani possono permettersi di privarsene per concederlo in prestito a mostre temporanee perché non ci si sforza di cercare il modo per riunirlo alla sua “sorella” in via definitiva e non solo temporanea come pure risulta che sia stato meritoriamente fatto in passato?
 
Giovanni Guzzi, luglio 2014
© Riproduzione riservata