L'Eclettico



Le dame dei Pollaiolo



Una bottega fiorentina del Rinascimento

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LE DAME DEI POLLAIOLO
Una bottega fiorentina del Rinascimento

 
Il “Ritratto di donna di profilo” (1470-1475 c.a.), opera capitale del Rinascimento italiano, vale da solo una visita al Museo Poldi Pezzoli di Milano dove è custodito da prima del 1875, quando fu acquistato dal padrone di casa: Gian Giacomo Poldi Pezzoli.
Tanto seducente da essere diventato l’emblema stesso dell’intera collezione ci presenta, ritratto perfettamente di profilo, il volto di un’incantevole fanciulla segnato da una sottile linea di contorno che lo fa risaltare nettamente contro lo sfondo di un chiaro cielo azzurro solcato da alcune nubi.
La cucitura centrale dell’abito e il pendente della collana, interamente visibili dallo spettatore, mostrano che il busto è invece raffigurato leggermente di tre quarti. Sotto il corpetto, scollato e allacciato con una stringa infilata in piccoli occhielli metallici e dalla preziosissima manica in velluto broccato, la donna indossa una camicia bianca di cui si scorge il bordo superiore sul petto, sulle spalle e sulla schiena.
La massa dei capelli raccolti sulla nuca è trattenuta da cordoncini di seta e da un filo di perle alternate a destra e sinistra mentre un velo di garza triangolare è teso sull’orecchio.
Sulla fronte le scende un duplice filo di perle e sempre di perle, in una serie che ne alterna tre bianche ad una d’oro, è fatta la corta collana che le orna il collo ed alla quale si aggancia un pendente costituito da un grande rubino grezzo ed altre perle ancora.
Gioielli che possono rimandare a significati matrimoniali - le perle bianche alla purezza virginale e il rosso del rubino alla passione amorosa - e far pensare che il ritratto possa essere stato dipinto in occasione di un matrimonio.
La straordinaria preziosità della veste, dell’acconciatura e dei gioielli suggeriscono che questa donna fosse un personaggio assai abbiente e di alto lignaggio. Il dipinto è documentato a Milano almeno dall’inizio dell’Ottocento, registrato come attribuito a Bramante nell’inventario del palazzo del principe Alberigo XII Barbiano di Belgioioso d’Este compilato alla sua morte, nel 1813, e nel quale è identificato come l’effigie di una sua antenata, la moglie – della quale il documento non specifica il nome – di Giovanni II Barbiano di Belgioioso, Conte di Cunio. Alienato nel 1814, nella grande vendita dei beni di Alberico XII effettuata dai suoi eredi, alcuni decenni più tardi il dipinto ricompare, sempre a Milano, nella collezione di Gilberto VI Borromeo per infine arrivare, come si è detto, al n. 12 di via Manzoni.
Se la dama resta dunque tuttora senza nome, per l’autore del dipinto di nomi se ne fanno invece due, sui quali gli studiosi ancora si dividono: Antonio del Pollaiolo (Firenze 1431 c.a. – Roma 1498), verso il quale propendono i più, o il meno celebre fratello minore Piero (Firenze 1441-42 – Roma post 1485). Con la mostra “Le dame dei Pollaiolo: una bottega fiorentina del Rinascimento” i curatori, Andrea Di Lorenzo e Aldo Galli (protagonisti dell’ottimo video di presentazione al quale siamo debitori per queste note) prendono invece decisa posizione a favore del secondo ed argomentano la scelta attraverso un percorso espositivo che si prefigge di distinguere le personalità di questi due esponenti del rinascimento fiorentino, che dialogarono certamente fra loro, come è normale che accada fra fratelli, ma mantennero ciascuno un carattere peculiare e ben riconoscibile.
L’attuale confusione, a detta dei sopra citati curatori, si deve a Giorgio Vasari che, alla metà del ‘500, nelle sue “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architetti” presenta Antonio come un artista geniale e poliedrico: orafo, scultore, architetto ma soprattutto grande pittore e autore di dipinti famosi come la pala del Martirio di San Sebastiano (1475) oggi alla National Gallery di Londra. Al contrario, sempre secondo il celebre biografo, Pietro non sarebbe che un modesto aiutante di un simile artista.
Ed invece, rileggendo le testimonianze d’archivio anteriori al Vasari si ricava un quadro ben differente: Antonio, effettivamente il più geniale dei due fratelli, dipinse però pochissimo preferendo esprimere la sua arte nell’oreficeria, nel disegno e nella scultura. Il vero pittore in famiglia fu proprio Piero ed è a lui che spettano tutti quei dipinti che Vasari, seguito da tutta la critica successiva, ha riversato sul fratello maggiore.
Per Di Lorenzo e Galli la riprova che si tratti di due artisti indipendenti è dimostrata anche dal fatto che lavoravano in botteghe distinte. Piero aveva il suo atelier da pittore in un piccolo fondo accanto a casa, non lontano dal Battistero di Firenze. Il rinnovato laboratorio di oreficeria di Antonio era invece in via Vacchereccia, a due passi da Piazza della Signoria. Da qui, nel corso degli anni, uscirono candelieri, fibbie di cintura, elmi da parata, croci, reliquiari, finimenti da cavalli, posate di lusso, rilegature di Vangeli e molto altro ancora… opere purtroppo andate quasi tutte perdute.
Fra le poche superstiti, la più spettacolare è il grande crocifisso d’argento eseguito per il Battistero di Firenze che è anche il suo primo lavoro documentato e quello che lo lanciò sulla scena fiorentina. Si aggiudicò questo incarico a soli 25 anni vincendo un concorso insieme ad un collega più anziano, un certo Betto di Francesco Betti (1457-1459) artefice della metà superiore dell’opera mentre il Pollaiolo realizzo quella inferiore con il piede e il nodo. La croce è un’opera complessa, che richiede un’osservazione attenta e prolungata per riuscire ad ammirarne pienamente le infinite sottigliezze e le decine di figure nelle quali già si coglie la predilezione di Antonio per personaggi asciutti, nervosi ed acutamente espressivi nelle loro differenti caratterizzazioni.
Come si è accennato, oltre a lavorare metalli e pietre preziose, in quella sua bottega Antonio disegnava moltissimo. Per sé stesso e per altri artisti. Esemplare è il parato per il Battistero di San Giovanni (1466-1487): un ciclo di trenta storie della vita di Giovanni il Battista che una compagine internazionale di specialisti appositamente convocati a Firenze ha ricamato con filo di seta e oro sulla base di disegni di Antonio.
In mostra ve ne sono quattro. Il recentissimo restauro ha reso più leggibili sia l’incredibile fedeltà con cui i ricamatori hanno restituito tutte le finezze del disegno del Pollaiolo, sia lo splendore degli azzurri, dei rossi, dei verdi accordati sulla calda luce dell’oro. Peccato che i riflessi sulle vetrine causati da un’illuminazione qui non ottimale, piccola pecca di una mostra per il resto eccellente, non permettano di apprezzarli al meglio.
 

Altro capolavoro di Antonio è la stupenda incisione che raffigura una furibonda battaglia fra dieci uomini nudi (1465 circa). Orgogliosamente firmata, in una lapide “marmorea” sulla sinistra, e dal significato ancora misterioso può essere considerata un autentico manifesto della sua poetica: ovvero la sua predilezione per la rappresentazione di figure nude coinvolte in azioni drammatiche e travolte da sentimenti estremi.
A proposito di essa nel 1896 Bernard Berenson scrisse una pagina memorabile “Guardate come il combattente caduto punta il piede sulla coscia dell’avversario cercando con uno sforzo tremendo di tenerlo discosto. Noi immaginiamo di svolgere tutti i loro movimenti e di esercitare l’energia che essi richiedono, e mentre dura l’incanto, in un’ipertesia non acquistata a mezzo di droghe è come se nelle vene ci corresse un elisir di vita e non più il nostro torbido sangue”.
Interessante è anche lo scudo (1460-1465 circa) che raffigura il curioso mito di Milone di Crotone: atleta che vantandosi di avere la forza di aprire a mani nude un ceppo d’albero vi rimase invece incastrato e così, imprigionato senza possibilità di difendersi, morì sbranato dai lupi.
Antonio del Pollaiolo era in grado di misurarsi con una straordinaria quantità di materiali e di tecniche dall’argento al bronzo, dallo stucco al legno, alla terracotta.
Un poeta suo contemporaneo, Ugolino Verino, scriveva che le sue figure di terracotta sembrano respirare. Oggi ce ne rimane un unico esempio, il Busto di un ragazzo (1460 circa) al Museo del Bargello di Firenze.
Rappresenta probabilmente il diciannovenne Lorenzo Neroni che indossa l’abito col quale egli stesso si presentò nel 1459 a una giostra che si tenne a Firenze in piazza Santa Croce. Sul suo corsetto, ai lati dell’effigie dell’imperatore Nerone, si agitano le piccole figure di Ercole e Sansone, selvaggi e urlanti.
Tra gli esiti più alti della maturità di Antonio del Pollaiolo va certamente annoverato un capolavoro che non è noto come meriterebbe: un crocifisso ligneo (1470-1480 circa) che si trova nella chiesa di San Lorenzo a Firenze, realizzato in sughero e gesso per essere più leggero e quindi più facile da portare in processione.
La dilatazione eroica del torace e l’energia che ancora pulsa nelle membra fa rassomigliare il Cristo ad un tuffatore in procinto di slanciarsi in volo ed innescano un drammatico contrasto col volto che, invece, è contratto nella maschera dolorosa di un’atroce agonia.
L’unica notizia certa relativa ad Antonio come pittore è che nel 1460, insieme a Piero, all’epoca ancora molto giovane, per la Sala Grande del Palazzo dei Medici eseguì tre dipinti di grandi dimensioni (3,5 metri quadrati) con le fatiche di Ercole.
I dipinti sono andati perduti ma l’appassionata descrizione che ne ha lasciato Giorgio Vasari consente di riconoscere in una coppia di tavolette che si trovano agli Uffizi (entrambe del 1470 circa) delle versioni in miniatura di due pezzi di quella serie.
Una raffigura Ercole che stritola il gigante Anteo (e richiama, nel "movimento" dei personaggi, la plastica animazione del bronzetto custodito al Museo del Bargello - foto più sopra - in cui è rappresentata la stessa scena), e l’altra l’eroe che combatte con l’Idra.
La violenza esplosiva dell’azione, la determinazione dei protagonisti, l’incisività dei profili, sono tutte caratteristiche che ci parlano di Antonio.
 
Se però accostiamo a questi dipinti la tavola della National Gallery di Londra in cui è dipinto il mito di Apollo e Dafne (1470-1475 c.a.) lo stile cambia decisamente.
La metamorfosi della ninfa in pianta d’alloro avviene come in un balletto al rallentatore sotto lo sguardo malinconico del piccolo Apollo in giubba di seta ricamata sullo sfondo di una veduta vaporosa di rive umide e colline pervinca.
È questo lo stile più tipico di Piero, un pittore particolarmente affascinato dalla pittura fiamminga ed incline agli effetti preziosi, all’imitazione di gioielli, broccati e velluti.
Proprio per queste ragioni è a Piero che vanno restituiti il profilo della giovane del Poldi Pezzoli e gli altri analoghi ritratti delle tre dame venute a farle visita.
 
Da Berlino (1465) la giovane dal viso affilato e lo sguardo limpido e acuto che sembra spingere lontano, che indossa un abito completamente ricamato e senza scollature, ma che non porta gioielli né al collo né fra i capelli ed ha una singolare postura del busto, innaturalmente inclinato all’indietro.
Da New York (1480) la dama dal carattere forse meno determinato della precedente che nell’arrossamento delle gote di un viso più carnoso sembra tradire l’imbarazzo di posare per il ritratto.
Ed infine la più anziana e riccamente ingioiellata dagli Uffizi di Firenze (1480) che si presenta più consapevole e sicura di sé stessa al punto da palesare dalle labbra e dagli occhi un accenno di sorriso.
Questi ritratti, così strettamente legati alla dama milanese, sono per la prima volta riuniti grazie a questa mostra e dal loro confronto è evidente che la resa dei velluti e dei broccati di cui sembra di sentire la consistenza, il magico brillare delle perle, dei rubini, degli smalti e dei gioielli sono caratteri inconfondibili dell’arte del più giovane dei Pollaiolo.
Si tratta di dipinti di destinazione del tutto privata nati per le case dei ricchi mercanti fiorentini, per questo non sono mai citati nella letteratura antica ed hanno avuto una storia relativamente recente documentata solo dalla fine dell’Ottocento quando ormai si era persa la memoria dell’identità di queste ragazze tutte bionde, di carnagione chiara e dal collo lunghissimo.
Il fascino fortissimo che sprigionano dipende dallo stupendo accordo fra la naturalezza e l’idealizzazione.
I lineamenti delle fanciulle, il colore, la dimensione dei loro occhi ma anche la linea del naso sono diversi dall’una all’altra ma tutte tendono però a una sorta di bellezza ideale, di astratta purezza.
Se la possibilità di vederne una valeva una visita al “Poldi”, l’incontro con tutte e quattro è davvero imperdibile.
 
Giovanni Guzzi, gennaio 2015
© Riproduzione riservata
 
 
CREDITI FOTOGRAFICI
Elenco in ordine di pubblicazione
 
Piero del Pollaiolo
Ritratto di donna di profilo
© Milano, Museo Poldi Pezzoli
 
Antonio del Pollaiolo
Ercole ‘scoppia’ Anteo
© Firenze, Museo Nazionale del Bargello
 
Antonio del Pollaiolo e Betto di Francesco Betti
Croce d’argento del Tesoro di San Giovanni Battista
© Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore
 
Antonio del Pollaiolo
Battaglia di dieci uomini nudi
© Chiari, Fondazione Morcelli Biblioteca Repossi
 
Antonio del Pollaiolo
Scudo da parata con Milone di Crotone
© Paris, Musée du Louvre, Département des Objets d’Art
 
Antonio del Pollaiolo
Ercole e l’Idra di Lerna
© Firenze, Galleria degli Uffizi
 
Piero del Pollaiolo
Apollo e Dafne
© Londra, National Gallery
 
Piero del Pollaiolo
Ritratto di donna di profilo
© Berlino, Staatliche Museen, Preußischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie
© New York, The Metropolitan Museum of Art, Bequest of Edward Harkness, 1940
© Firenze, Galleria degli Uffizi